giovedì 30 maggio 2019

Un regalo di fine anno


Carissimi Marco e Mario,
Che regalo fare al prof. di storia? La risposta a questa domanda, che non vi siete posti, me l’avete data lunedì scorso. Non so com’è iniziata, ma alla fine dell’ora sono bastate due parole, un riferimento, un link, direste voi … ed eccolo lì, il regalo: un piccolo mazzo di fiori dialettici, un omaggio a me e alla vostra intelligenza, un discorso, un logos. Non voi ho ascoltato, ma il logos, e poi mi sono accorto che proveniva da voi … e ne sono rimasto colpito … colpito e felicemente … affondato!.
La cosa è però estremamente seria. Si alludeva tra noi alla tremenda serietà del politico, quello che prende le vite, genera entusiasmi, dà la morte, produce eroi e assieme aguzzini, bellezza sublime e miserabile vigliaccheria. E quando si parla del politico si parla di Stato e di potere, di potere e lotta, di lotta e rivoluzione. Noi siamo stati dentro questi estremi: le grandi coordinate del politico. La vicenda, dicevo, era seria. La morte di Sergio Ramelli per mano dei maledetti che l’hanno massacrato sotto casa. La morte dopo quarantesette giorni di agonia e il diritto sacrosanto di ricordarla e di onorarla. Un diritto calpestato quest’anno da un’ordinanza prefettizia che a Milano, mentre vietava il corteo che intendeva ricordare il ragazzo, autorizzava quello degli eredi degli assassini … asinesco, bavoso ragliare pieno d’odio e risentimento. Questi, coccolati dai media, dalle “autorità”, quelli attaccati senza motivo da qualche celerino spaventato dalla propria ombra e incarognito dalla routine lavorativa. Ho avuto modo di ribadire di fronte a voi le semplici esigenze della giustizia. Trasgredire un ordine del prefetto che vieta il corteo per Sergio Ramelli non solo è giusto, ma è sacrosanto dovere. Voi, giustamente consapevoli della delicatezza dell’argomento, mi avete quasi timidamente fatto notare che la mia posizione non reggeva a quello che potremmo chiamare un “test di universalizzazione”: “Se tutti facessero così, sarebbe possibile la razionale convivenza che si articola attorno al rispetto delle autorità civili”… E a Kant avete subito aggiunto Schmitt e Hobbes. Qualora il popolo si arrogasse il diritto di decidere se un atto dell’autorità è degno o no di rispetto e obbedienza, con ciò sarebbe distrutta alla base la nozione stessa di rispetto e obbedienza. Auctoritas non veritas facit legem. Se l’auctoritas non è l’ultima istanza decisionale, non è più auctoritas. Se è opponibile, pur in nome di una verità evidente (sì, ma chi decide che cosa è verità evidente?) non è più sovrana. Se infine sovrano diventa, in conseguenza di ciò, l’individuo, se cioè l’individuo diviene suprema istanza, con ciò si apre la strada alla guerra di tutti contro tutti, la guerra civile, la peggiore di tutte le guerre, la più violenta, la più disumana.
Quindi … la conclusione dovrebbe essere obbligata: prefetto, celerino e financo, solo per logica deduzione, l’immondizia vociante figlia degli assassini rossi Avanguardia Operaia, avrebbero ragione. Il prefetto e la polizia, nelle loro rispettive collocazioni istituzionali, sono coloro cui è stato affidato il comando e hanno dalla loro la forza della legge e il fine dell’ordine … e l’ordine è sempre meglio di tutto ciò che, subito o alla lunga, condurrebbe a una guerra civile. E le metastasi spirituali di AO, con la loro sfilata “antifascista”, starebbero, pur’esse, fatalmente, dalla parte della legge, giacché formalmente autorizzate.
Bisogna accettare supinamente un simile fatto brutale? Esiste un’alternativa? E, se esiste, qual è?  Contro il re, l’appello al re! Contro l’interpretazione incostituzionale della legge operata dal prefetto di Milano, che vieta un corteo pacifico col pretesto risibile dell’ordine pubblico, mentre autorizza una parata che difende l’assassinio politico come prassi moralmente e politicamente legittima, contro tutto ciò non vi sarebbe altro che il ricorso a un’istanza giudiziale, di per sé tutt’altro che terza, di per sé tutt’altro che sensibile alla giustizia. Contro il prefetto che conculca il diritto a esprimere pubblicamente non tanto un’opinione politica, ma il ricordo della vittima di un atroce reato politico, ci sarebbe solo l’inutile ricorso a quelle istituzioni che hanno a suo tempo permesso l’assassinio, magari vi hanno applaudito, magari si sono resi moralmente complici, magari ritengono ancora che sia stato una “dolorosa necessità”. Queste le mie riflessioni … Ma la vostra obiezione era più che legittima. Non posso lamentarmi se i miei ragazzi hanno letto Schmitt, lo Schmitt realista e hobbesiano, e lo hanno capito … Mea culpa, mea maxima culpa!!! Dunque sembra tutto giusto: il celerino mena, pauroso, pur trovandosi di fronte a gente inerme, a gente con un certo senso dell’onore, gente che non odia le divise per partito preso, ma esige da loro quella virile compostezza che è invece tristemente mancata. Il dirigente di polizia ordina, perché ordina il prefetto. Costui, dal canto suo, si sente autorizzato a fare della legge, del suo spirito, ma ancor più della giustizia, carta straccia … e nessuno dice niente …
Ebbene, voglio replicarvi, questa violazione sistematica dell’equità non è mai politicamente senza effetti. Il rispetto della legge, quando - senza ombra di epikeia e senza un briciolo di prudenza - diviene meccanica sussunzione della fattispecie entro una qualsiasi generalità data, è mostruoso giuspositivismo. Quando la legalità è svuotata sistematicamente dei suoi contenuti di giustizia, genera non un ordine ma la sua scimmia, cioè l’apparato. Ci può essere un’autorità senza il minimo interesse per ciò che è giusto?… Anche Hobbes diceva che mai si possono contestare lo Stato e il sovrano, ma il suo modello si chiudeva con il necessario riferimento al più impegnativo degli assiomi: Jesus is the Christ. È risaputo: le verità teologiche sono sempre interpretabili dal sovrano che deve rimanere l’ultima istanza decisionale (non ci deve essere alcuna potestas indirecta di nessuna Chiesa alternativa o separata dallo Stato), ma esse rimangono. Esse permangono a suggello e a ricordo che la convivenza civile non è mai pura tecnica del potere. Jesus is the Christ in alto, la protezione e l’obbedienza in basso. Non ci può essere qui ed ora alcuna relazione di comando, senza rimandare ad un criterio di lassù, cioè sublimemente morale. Il che è confermato dal valore che Hobbes, pur in chiave materialistica e corporeistica, assegna alla vita e quindi allo sforzo di evitare il macello umano della guerra civile. Tutto ciò è una verità, è una giustizia che non può essere allegramente scavalcata dall’auctoritas, altrimenti verrebbe meno il suoi augere, il suo aumentare, il suo andare verso l’alto, il suo stare in alto per comandare. Si comanda dall’alto. Ogni volta che, comandando, si cade in basso, si mette a rischio l’efficacia e il senso stesso del comandare. L’autorità che viola sistematicamente la giustizia, quindi, corre lo stesso rischio di promuovere la guerra civile dell’assenza di autorità o del diritto alla sistematica contestazione dell’autorità. E anche quando l’autorità avoca a sé la decisione su che cosa sia “giusto”, non può con ciò sollevare e neutralizzare il senso di giustizia degli uomini. L’autorità non entra nel foro interno. Ciò la indebolisce enormemente, dice Schmitt. Ma al tempo stesso la rafforza enormemente quando la giustizia è rispettata, non perché lo chiede o lo impone qualcuno ma perché è così: virtus propter se servanda. Cari ragazzi, il senso del mio discorso era questo: verissima la vostra obiezione; verissima tuttavia la irrinunciabilità della giustizia. E pertanto è atto doverosissimo quello di ribellarsi al prefetto, i cui atti ingiusti sono perciò stesso nulli. Chi lo decide? Diciamo che se lo decidiamo noi non è perché esigiamo la distruzione del potere, ma la sua adeguazione ad un modello più grande, impegnativo e bello; se lo facciamo per questo, il nostro anarchismo non ne lede i diritti … non disprezza né la voce che ordina né la mano che esegue, la cui divisa né ci affascina a priori né ci indigna, sapendo che ogni divisa è onorata solo dall’uomo che la indossa. Saremmo monarcomachi? Sì, ma per amore della regalità. Saremmo  anarchici? Sì, perché non sopportiamo alcun ordine sbagliato, perché per noi l’Arché è una cosa seria …
Vi ho fatto i complimenti per come avete ragionato, Marco e Mario: lucidi e convinti, ma al tempo stesso capaci di ascolto e meditazione. Volevo dirvi che questo è un grandissimo regalo. Con voi l’insegnante è più che mai un “servo inutile”: voi avreste appreso e sareste cresciuti anche se a spiegare, al mio posto, ci fosse stato un computer … Però che bello parlare con voi! … e assistere al miracolo, al quale mai mi saprò abituare, di vedere ragazzi diventare uomini!

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

domenica 26 maggio 2019

Se qualcuno ama la tua patria. Harukichi Shimoi, Un samurai a Fiume, a cura di G. A. Pautasso, Oaks, Milano, 2019, ee. 20,00


Guido Andrea Pautasso, in una pregevole raccolta di articoli, documenti e scritti, presenta Harukichi Shimoi,  figura non convenzionale di giapponese innamorato dell’Italia e partecipe dei fatti più rilevanti della nostra storia compresa tra il 1915 e il 1945. Shimoi è figlio di un samurai, adottato in giovane età dalla famiglia di un agiato architetto che lo farà studiare e appassionare alla letteratura e alla poesia, fino all’incontro decisivo con Dante, all’innamoramento e alla decisione di imparare la sua lingua nel paese natio. Così egli arriva a Napoli, entra nell’Istituto Orientale come lettore di lingua nipponica e comincia una vasta opera culturale nella quale la progressiva dimestichezza con le avanguardie culturali del Bel Paese fa da contraltare allo sforzo di far conoscere l’anima della sua patria d’origine ai poeti, ai letterati, ai filosofi, ai politici e a tutti gli italiani curiosi dell’Oriente e della sua Weltanschauung.  Se noi diciamo “ex Oriente lux”, Shimoi riteneva che la luce dell’Oriente poteva risplendere solo presso coloro che avrebbero saputo vederla, goderne contemplarla… in Europa c’era un solo paese aperto a questa contemplazione ed era l’Italia. Così comincia un’avventura che lo porta sul fronte italo-austriaco nella Prima guerra mondiale, a Fiume con d’Annunzio, alla conoscenza di Mussolini e al tentativo di importare il fascismo in Giappone. Ciò va di pari passo con lo sforzo di promuovere l’amicizia italo-giapponese tra gli anni Venti e Trenta attraverso una fitta rete di relazioni con le rispettive autorità. Anche nei momenti più intensi della sua opera di mediazione politica, l’impegno culturale non viene meno, con la traduzione di testi  poetici e letterari giapponesi in Italia e con diversi scritti finalizzati a introdurre il pubblico giapponese alla cultura italiana, fino al crollo dei sogni alla fine della guerra e all’epurazione post bellica, subita in patria in quanto ex collaboratore dell’Asse. Dunque si tratta di una vita tra due mondi, ugualmente amati e sentiti come propri: un patriota del Sol Levante che al tempo stesso diventa patriota italiano, dando concretezza al sogno mazziniano per il quale l’universale umano si conquista mediante il particolare dell’appartenenza nazionale. Pautasso fa la storia di questa passione in cui gli opposti dell’amore di sé e del altro si conciliano, descrivendone magistralmente il contesto: la storia di Shimoi è la storia del Piave e di Vittorio Veneto, di  Fiume, con d’Annunzio da cui era chiamato “fratello, ma non di sangue”, della vicenda fascista e infine del tramonto inevitabile di Roma e Tokio imperiali. Questa storia Shimoi visse tra i personaggi più singolari, tra i geni più immaginifici e tra i giganti del pensiero e delle lettere nell’Italia del primo Novecento: Guido Keller, Filippo Tommaso Marinetti, Mario Carli, Benedetto Croce, Giuseppe Ungaretti, Giovanni Comisso, Gherardo Marone, Elpidio Jenco… Contagiato dall’ironia e dalla gioia di vivere partenopea, trascinato dal neostoicismo fascista che sembrava così armoniosamente coincidere con l’etica eroica dei samurai, sempre orgogliosamente radicato nella profondità delle sue radici giapponesi, egli per il lettore di oggi diviene il simbolo di quella che potremmo chiamare una “prassi della differenza”. Di “pensieri della differenza” siamo infatti un po’ stufi; di pistolotti sul “diverso” e sull’ “altro” sono pieni i rotocalchi; la gran palestra retorica dove parimenti si mostrano il vecchiume tanatomorfo delle “più alte cariche dello Stato” e le prosperose curve di vecchie maitresse del palcoscenico rai-mediaset ci ha annoiato oltre ogni limite. Il cocktail etnico che avrebbe dovuto produrre “convivenze” ireniche e nuovi esercizi di bontà fallisce nel narcisismo ideologico dell’accoglienza e del nirvana collettivo promosso dal capitalismo globale: civiltà del godimento immediato, del frappé dei valori e della loro ostentazione puritana; dell’iperproduzione e dell’iperconsumo sotto rassicuranti ombrelli ecologici. Qui è tutto astratto, decadente, marcio e puzzolente. Non c’è curiosità, non c’è rispetto, non c’è onore, non c’è reciproca coltivazione… solo l’ostentata immagine autorazzista della rinuncia a sé e dell’autoprostituzione. Contro tutto ciò si staglia l’universo ideale di Shimoi che è ben rappresentato da questo esemplare episodio:  egli durante la Grande Guerra, da reporter in prima linea per un quotidiano giapponese,“si è ritrovato ‘sotto il fuoco scatenato dai nemici’, a dover soccorrere, portando sulle proprie spalle un giovane soldato italiano con una scheggia di granata austriaca, ‘entratagli nella gamba destra, un’altra sotto l’occhio destro e un’altra nell’orecchio destro’”. Così Shimoi scrive: “Mi avvicinai a lui e bendandogli la gamba, lo presi sulle mie spalle e, confortandolo e incoraggiandolo, lo portai al posto di medicazione. Egli, tutto sanguinoso, con filo di voce, mi chiese il nome. Gli dissi semplicemente: ‘Un giapponese, amante dell’Italia’. Che importa il nome di Scimoi, io sarei più contento di fargli sapere che le spalle di un giapponese gli hanno dato appoggio”. Bene: questa è una prassi della differenza. Qui, nella guerra che è “madre e regina di tutte le cose”, gli opposti si incontrano senza assimilarsi, si spendono l’uno per l’altro senza degradarsi, si elevano l’uno attraverso l’altro senza omologarsi. L’etica biblica e il bushido si abbracciano laddove la preoccupazione per lo straniero e la prossimità estrema di colui che è più lontano si giocano nel punto alto del grande gesto, di quella bellezza finale e definitiva che i grandi uomini dell’oriente e dell’occidente hanno vissuto in un percorso al tempo stesso eroico e mistico. Solo i popoli sono custodi di queste grandi tradizioni, solo i popoli sono il naturale terreno di coltura di questi uomini e di queste vie al cielo… Quando il pensiero della differenza uccide i popoli nella finta universalità del melting pot, la prassi della differenza li fa grandi restituendo a ciascuno quella ricchezza che si alimenta di un’irriducibile individualità che, proprio perché irriducibile, si fa reciproca. Con Shimoi ci è concesso un piccolo viaggio, guidati dalla colta sensibilità storica ed estetica di Pautasso, in tale ricchezza assieme ad un testimone d’eccezione, il piccolo giapponese per sempre immortalato nella sua divisa da ardito, poeta e soldato, amante entusiasta che l’Italia deve forse ancora meritarsi.

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