mercoledì 28 novembre 2018

Agli occhi di Dio



Che cosa ti ha reso giusto agli occhi di Dio, Walter?
Forse il temperamento e l’innocenza dello sguardo?
Forse l’equazione della tua persona e del pensiero?
La forza di un’utopia sovranamente abbracciata?
O l’indipendenza severa del tuo giudizio?
O ancora la fiera battaglia contro il mondo e le sue miserie?
Non so se queste siano solo parole, stese sulla realtà refrattaria delle persone che non ci è possibile vedere in verità.
So che un cuore inquieto rompe ogni velo.
Sono sicuro che non cercavi sicurezza; sono contento perché non eri contento. E ciò è lucido splendore della tua persona, senza possibilità di menzogna, senza coprire, senza mistificare.
Mai fermo è stato il soffio del tuo spirito, mai risolto l’enigma della vita, mai tranquillo il cammino.
Il nero dubbio risplende in te, non patina di bontà, non ipocrisie e rimpianti per te, ma il nostro fango dal quale levarsi e gridare: questa è la tua giustizia.
Dio ti ha voluto inquieto e tu hai risposto spezzando la voce, le parole e il tuo corpo…
Per questa trama infinita di opposti, per questo bruciare infinito che hai amato, Dio si è specchiato in te e ti ha saputo suo.



N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

Un'armonia ascendente


Siamo stati un'armonia ascendente. La giustizia è un certo ordine delle cose e della vita. La bellezza è proporzione, splendore, perfezione, incastro perfetto degli opposti in una totalità chiara e luminosa. Ieri ho visto tutto questo. Ieri la memoria di Sergio Ramelli, Enrico Pedenovi e Carlo Borsani ha incontrato questo punto altissimo in cui giustizia e bellezza si sono date la mano ...
... Anzitutto nella celebrazione composta del sacrificio dei sacrifici a Messa. La presenza reale del Capro Espiatorio in mezzo ai militanti composti, la cui postura era di per sé espressione del rispetto attentissimo per quanto è grande e trascende la nostra piccola umanità, ha portato anche Sergio, Enrico e Carlo lì in mezzo a tutti. In mezzo a tutti il Cristo Eucarstico ha condotto la loro umanità bella e trasfigurata ormai nell'eternità. Non c'era bisogno di un'espressione individuale di fede, che pure in molti ha fatto capolino, perché la verità e la giustizia si trovavano lì nell'oggettività coinvolgente del sacro, nell'oggettività coinvolgente del Logos che era in tutti, per tutti, al di là di tutti...
...E poi la musica: gli uomini che si sono incontrati in quell'arte poetica e musicale che rimanda alla bellezza travolgente, che muove le corde profonde delle comunità. Una musica intervellata dalla recita di brani che hanno riportato le vicende tragiche dei nostri eroi al presente. Immagine perfetta della tragedia, che perciò è bella, anche se racconta fatti orrendi...
...E un pubblico che non era un pubblico, ma un protagonista che conosce il suo compito. Un pubblico in continuo, lento, silenzioso, giustissimo e doverosissimo pellegrinaggio verso la lapide che ricorda Sergio, a portare simboli di luce e di bellezza, lumini e fiori bianchi: bellezza, luce e innocenza...
...E il "presente" sempre gridato più forte che si può, in mezzo a fiaccole accese a splendere come fanno forza e tenacia, fuoco acceso per sempre, fuoco artefice, fuoco dello spirito che tende verso l'alto...
...E quelle braccia tese serissime come la nostra storia, eppure beffarde per irridere i tromboni di questa italietta vigliacca e resistenziale...
...Ieri siamo stati un'armonia ascendente...e per un istante che dovrà durare siamo diventati uomini migliori.

I ragazzi di Pino


I ragazzi di Pino non hanno voglia di studiare. E come si potrebbe quando si è rimasti affascinati? (Quando si è ancora dentro al tremore del fascino). Ma che cosa li affascina? Non sono i discorsi di un deputato o di un capocorrente di partito. Troppo poco: i ragazzi di Pino non sono mica scemi. E’ una storia, cioè lo sviluppo coerente di fatti che investono la tua vita e la vita degli altri. Avere una storia (e fare una storia) non è cosa semplice. Vuol dire cogliere l’unità degli eventi laddove vi è solo dispersione. E l’unità dà sempre senso e direzione. Ecco perché, ai loro occhi abituati alla storia, studiare significa accogliere la borghese prospettiva di una vita da individuo, magari una vita ben riuscita, magari ricca e piena di onori, ma dentro quella prigione che non ha muri che ti dice che, dove finisce il tuo mondo, lì anche finisce la tua avventura. I ragazzi di Pino invece lucidamente affermano di venire da un altro mondo e di volerne un altro ancora. Viaggiano fra tre mondi, seduti sulle spalle di giganti che hanno vissuto la bella tragedia dell’Italia, e vedono un po’ più lontano dei loro amici del presente. E quel futuro che scorgono li strappa a loro stessi. Essi hanno, grazie a quel futuro, una singolare vocazione a vivere il presente da militanti. Il vocabolo “militante” contiene la parola miles, cioè soldato, ma non riguarda il mondo della guerra guerreggiata. Il Maestro dice che la guerra guerreggiata è solo la piccola guerra santa. Il grande jihad è un’altra cosa. Diremmo che non è cosa da militari, ma da militanti, da coloro cioè che hanno trovato nella vita un tesoro spirituale, se ne fanno portatori coscienti e coerenti e ne fanno la milizia della loro esistenza. Bene: il tesoro ti strappa a te stesso, è il futuro dell’utopia che stira il tuo spirito verso le regioni iperboree della verità. Stira nel senso proprio del termine, perché intanto, mentre si allunga verso la meta, lo spirito vive nel presente e raffina gli artigli razionali della lotta. Sì, perché il militante è giovane e pertanto ingenuo sul novantanove per cento delle cose della vita, ma su quel centro utopico dell’esistenza è allenato da un lungo, appassionato e talora acrobatico esercizio della ragione e del corpo. I ragazzi di Pino non hanno voglia di studiare, a scuola tardano spesso, perché sono impegnati altrove a distribuire volantini…però sono dei razionalisti. L’utopia risveglia la ragione, perché è la messa a prova delle sue capacità, chiamate ad applicarsi fino all’impossibile assoluto che giace appena al di là dei suoi confini. I ragazzi di Pino hanno trovato un senso nella storia, sanno che questa è l’età oscura, vivono appieno lo sbandamento della post-modernità, ma possiedono un tesoro coltivato con la ragione e con la ragione tracciano una strada. E discutono negli scantinati, e si dividono in microcorrenti di pensiero, ma si aiutano, amano e si divertono, come quelli della loro età, solo che sono un po’ più ricchi. Un vecchietto li guida. Essi ben conoscono la fallibilità di tutti e sanno anche che, dopo aver fatto fuoco sul quartier generale, devono romana pietas ai loro capi. Essi ben sanno che è difficile per lui. Ma trovano che il cuore vibra alle stesse note. Trovano nell’uomo quella stessa esperienza utopica e razionale che li anima…e dunque per ora vanno.
E’ vietato solo essere nostalgici, ammanettando al passato quella tridimensionalità della storia nella quale si milita. Perché altrimenti tutto sarebbe morto, mentre i ragazzi di Pino cercano sempre, nel loro grande opus contra naturam, di vedere nella morte la bellezza del futuro, di quel futuro assoluto della Rivoluzione in cui sempre si sforzano di dislocare la propria vita. La morte viene anche per Pino, ma già i suoi ragazzi cercano l’oltre, lasciandosi dietro solo quella lacrima che non sono riusciti a ricacciare, come fanno gli uomini.

Praga una notte, parlando sempre assieme




Praga è essere prigionieri del tempo. Il tempo che ci domina dall’alto delle sue lapidi e dei fiori secchi e lievi sul volto petroso di Jan Palach. Il tempo che ci cattura con la meccanica precisa e colorata del suo grande orologio (dalla torre fa girare lancette e santi benedicenti, macchina ingenua, ogni ora, ogni giorno per noi col naso all’insù e un po’ di computazionale commiserazione). Il tempo passato degli odii santi, con le barbare schiere hussite che lottano assetate del sangue di Cristo. Tutto ci parla di tempo e di vita, ragazzi, e tutto è così vicino ed estraneo. E noi una notte a parlarci e a non capirci come perfetti vicini e perfetti estranei, solo perché il tempo mi ha messo in una cattedra e voi sui banchi. Semplicemente perché siamo un po’ sfasati e ci troviamo l’un l’altro a desiderare di essere quello che non siamo: quelli di prima, matti, belli e semplici come siete voi; quelli di dopo un po’ più liberi e grandi, come sarei io. Che vi devo dire? Praga mi ispira discorsi e nostalgie il cui senso è difficile da spiegare. Sono in vena di consigli: vi vorrei tutti poeti e rivoluzionari, perché troviate quello che veramente siete e che io cercherei di essere, mentre tramonta quest’Occidente pieno di stanchezze. E vorrei che sul tramonto cui io e voi siamo destinati Qualcuno portasse sempre un pizzico di luce giovane e di futuro. Praga ci tiene prigionieri a parlare assieme, non sapendo che poco più in là la Moldava scorre e non è più la stessa … e il suo silenzio è interrotto dalle risa dei ragazzi che bevono birra, corrono e amano, separati solo dal tempo dai loro coetanei che sorridono pieni di struggente benevolenza, con le loro barbe mezze bianche, fumando il sigaro che gli avete offerto per sembrare più vecchi.

Sicilia Felix (da "L'intellettuale dissidente")


Lasciando Piazza Armerina tra le giustissime rabbie, le imprecazioni e le maledizioni di una guida turistica contro i vigliacchi incendiari che, nuovi iconoclasti di nuovi Daesh, distruggono la colorata vita di queste terre, io e mia moglie decidiamo di entrare ancor più nel cuore della Sicilia. È proprio il paese “cui la colomba prestò il suo collare e il pavone rivestì del manto screziato delle sue penne”, come ebbe a dire uno dei suoi ultimi nobili abitanti musulmani, Ibn Hamdis nell’undicesimo secolo. Al suo cuore si arriva fisicamente, percorrendo le assolate strade che portano verso Enna, dentro ai suoi colori, nel mezzo dei suoi orizzonti esplosivamente mediterranei. Ma il suo è anche un cuore spirituale che si è nutrito delle nostre letture comuni: i classici, Verga, Pirandello, Sciascia, cui si aggiunge un moderno, anzi un modernissimo, Pietrangelo Buttafuoco. Eccoci allora, attraverso campi d’un giallo accecante e strade che mettono a dura prova gomme e schiene, a Leonforte, cittadina d’origine del Nostro. Ci arrampichiamo sul pendio del monte che la ospita fino a corso Umberto, che sappiamo essere l’ “arteria” principale del paese. Di lì alla chiesa dei Cappuccini ci vuol niente, ma non ci saremmo mai arrivati senza un signore di settantaquattro anni, terziario francescano, cui chiediamo un’informazione e da cui riceviamo un invito a seguirlo: è il sacrestano che si offre di aprirci la chiesa. Sandali, corpo minuto, pelle scura, dialetto siciliano con italiano a sprazzi, modi squisiti, ci mostra non senza un pizzico d’orgoglio la statua della Madonna che il giorno dell’Assunta sarà portata in processione e, non senza qualche rimpianto, la riproduzione d’un Beato Angelico un tempo proprietà della chiesa e ora di un collezionista privato.
Ma quel luogo sacro custodisce anche le memorie della fondazione di Leonforte nella tomba ricchissima di porfido nero della contessa Branciforti. Essa impone la sua maestà al visitatore quanto il sacello del conte, Nicolò Placido Branciforti, nascosto da un ampio e pesante tappeto davanti all’altare, significa la discrezione del vero potere, il potere cui si deve la nascita dell’insediamento nel 1610 e la costruzione di un robusto e severo palazzo che adorna altrove la piazza del paese. Il riposo eterno di questi nobili è sovrastato e quasi confortato da un capolavoro del seicentesco Pietro Novelli, L’elezione di san Mattia, forse allusione alla rapida ascesa sociale della famiglia committente nel contesto della politica del suo tempo, ma ancor più, vogliamo pensare, traduzione pittorica di quell’ideale di nobiltà che legge il proprio destino attraverso l’idea di elezione. Essere eletti significa che la propria condizione è un dono, è da Dio, e in certo modo va compensata attraverso un ruolo pubblico fatto anzitutto di largizioni, di bene comune, di signorile generosità. Ciò segna l’autocomprensione di tutta la nobiltà seicentesca, ma in Sicilia sembra che lasci un segno di aristocratica elevatezza in ogni ceto sociale … magnitudo animi diffusiva sui, la magnanimità tende per sua natura a diffondersi. Quale ricchezza, dunque, sullo sfondo di quella dignitosa povertà siciliana, fatta di case basse e scrostate, calure assolate e abbandoni d’ogni cosa! Quali cadenze di dignità e squisitezza nell’eloquio del nostro sacrestano che, erede di una Sicilia atavica, ci racconta dell’oggi di cui siamo sulle tracce, dei Buttafuoco e di Pietrangelo - “largo di cuore” - che noi speravamo, ingenuamente, di incontrare per strada e che invece non vedremo, ma di cui, come per contrappasso del grande narratore, sentiamo raccontare!
 E lungo la scia benefica di questo incontro, proseguendo verso il basso, dove ci è indicata una splendida fontana seicentesca, la Granfonte, con i suoi “cannoli” stillanti freschissime acque, eccone un altro. È la sorpresa di una cortesia inaspettata, di una gratuità imprevista e imprevedibile, assolutamente inutile e, quanto più inutile, tanto più bella. Di fronte al palazzo dei Branciforti, entriamo nuovamente assetati in una panetteria chiedendo una bottiglietta d’acqua. Un volta consegnati i centesimi dovuti alla bellissima ragazza con occhi e capelli neri dietro al bancone, i biscottini alla mandorla che nella vetrina davanti a noi ci hanno attirato e stregato non riusciamo a pagarli. Non so capire: forse il gusto della bella figura con due dei pochissimi – immagino – turisti della zona; forse pietas nei confronti della nostra golosità; forse pigrizia nel ricevere a fronte del dinamismo del dare … non so. Fatto sta che la dolcezza del gesto e la grazia naturale con cui è stato compiuto hanno completato moralmente il già rilevante godimento dei sensi dovuto alle mandorle, ai pistacchi, alle loro morbidezze, in cui vivono profumi, sapori e  chiarori di questi luoghi. Quasi a lasciarcene un ulteriore ricordo, il navigatore sbaglia percorso al ritorno, inducendoci, pur dubbiosi, a inerpicarci su stradine scoscese in mezzo ai frutteti, dove le pesche di Leonforte, un altro tesoro di questa terra, crescono da giugno coccolate e impacchettate ancora verdi sui loro rami perché, protette dai parassiti e dal vento, ne sia favorita la maturazione.
Che dire di questa escursione nella Sicilia profonda in cerca di verità e di letteratura? Innanzitutto dobbiamo tornare alle parole di Pietrangelo: “Alla verità bisogna credere, alla realtà no. La verità è una cosa, la realtà è un'altra. Ciò che è reale può essere una menzogna, anzi il micragnoso mondo delle cose è quanto più distante dal vero, perché l’accadere dei fatti, nel tempo, negli orologi del divenire lineare, è materia propria dell’illusione e non del disvelamento. Vince nelle guerre, dissemina la falsità e istituisce il predominio dell’uomo sull’uomo. Il reale (è) demone del male…”. Leonforte, i suoi territori e i suoi abitanti ci sono apparsi più veri che reali, più racconto che fatto, più poesia che prosa e in questa fede antipositivista che ci accomuna a lui e alla sua gente, forse abbiamo capito qualcosa di più di Pietrangelo, del suo stile barocco, delle immagini della sua pagina vivace e seducente, della sua innata signorilità. Ma ciò abbiamo fatto grazie agl’incontri imprevedibili, imprevisti, con i leonfortesi. Quanto di uno scrittore è spiegato dalla sua appartenenza? Direi che l’appartenenza è qualcosa che ritorna, in generale, come un fine non cercato. Ella “ama quei che non l’invoca, ella ama quei che non lo sa e dona la sua luce fioca a chi per altra luce va”, parafrasando Carlo Michelstaedter. A noi che cercavano lo scrittore è giunto un altro testo, quello del suo popolo, che ci ha lasciato l’impronta di lui che non saremmo riusciti a immaginare. Adesso possiamo capire che cosa vuol dire la luce della Sicilia che abbiamo visto nei paesaggi e negli occhi delle persone, quasi che veramente un “Signore dell’alba” preservi quest’isola dai “mali del creato” e dalla “notte buia quando si addensa” (cfr. Corano, sura CXIII). Adesso, sazi di sole e di bellezza, dobbiamo ritornare, per le inesorabili leggi dell’ermeneutica, con sguardi diversi sulle parole del nostro Autore, che saranno ricche di una felicità in più.

Piovuti a Madrid (aprile 2018)


Scivolare sempre scivolare su marciapiedi troppo lisci…non c’è abitudine allo scroscio qui a Madrid: “No es habitual” avverte l’autista del pullman…e guarda le nubi minacciose al nostro arrivo. Grazie, sole della Meseta che te ne sei scappato proprio quando volevamo salutarti!!! E allora noi…annacquati al Prado… innevati alla Valle de los Caidos… umidi al parque del Buen Retiro… zuppi sull’Avenida grande… devoti alla rana di Salamanca perfettamente a suo agio nei rivoli e negli stagni…a nulla rinunciamo…e ci vendichiamo di tutti gli eccessi di liquidi acquosi…con ripetute immersioni di churros nelle loro piscine di cioccolata…Intanto che scivoliamo di qui e di là…in tutti i caffè…e slalomiamo tra le tapas di San Miguel…Goya ci ha detto di non preoccuparci…ché tutte le oscurità le aveva assorbite lui ed erano lì cutodite nelle sue pinturas…e se qualche raggio passava le nubi era merito suo…Cervantes non era spaventato e pazientemente aspettava la liberazione del sole, compagno di cella…Lope De Vega ci ha invitato all’Accademia dei notturni...ma noi gentilmente declinando abbiamo ballato in strada, di fronte a un pupazzo dell’uomo ragno, un rap divinatorio…danza italiana del sole… e abbiamo dipinto a nostra volta un quadretto danzante…dove lui ci riconosce e ci omaggia della sua luce bianca.

Novembre 2018, torno a salutarti


Nulla mi hai insegnato fuorché il vento tra i capelli a cento all’ora, per sfizio di velocità e maschile sintonia con i cilindri della tua honda four.
Non hai voluto formarmi, tu che la bella forma avevi dentro e fuori, così, senza artificio, solo con la tua sigaretta e il bicchiere, con le tue mani allegramente bucate, mite, scanzonato, giocoso come bambino con cui tutti i bambini vogliono giocare.
Sei stato tutto lavoro e niente apparato, tutto grazia e mai legge, padre capitato lì per ignoto destino, non ti sei scomposto, ma hai provato ad amare.
Amare è da dentro, non superficie; amare è da maleducati, perché non bada alle convenzioni; amare non vuole educare, ma è solo stile che per sua natura si diffonde come la bontà.
Stile di vita: con pochi e sottili tratti, come un sapiente pittore, puoi disegnare un’esistenza. Non servono grandi cose, solo il gusto di offrire, solo la piccolo gioia di spendere senza pensieri, solo ridere per sfottere la vita, solo perdersi e perdere, perché chi vince lo fa per sé, mentre chi perde ti vuol bene e ti lascia andare avanti.
Stile di vita di chi non vuol morire e chiede sempre di guarire, perché un giorno guadagnato è come tutti gli altri che ha faticato, per poter dire che ha senso vivere così, che ha senso un giorno in più, che ha senso sorridere un’altra volta ...ciao papà!