mercoledì 7 luglio 2021

"Non è democratico eccellere". Thomas Molnar e il futuro della scuola

 


“Non è democratico eccellere”: “non ci occorrono cervelli, ci occorrono buoni cittadini”. Ecco le frasi di alcuni studenti di Thomas Molnar, docente universitario, filosofo e saggista ungherese emigrato negli Stati Uniti, dove principalmente svolse la sua attività professionale. Il testo che le riporta è del 1961 ed è, fin dal titolo, “Il futuro della scuola”, profetico sotto molti punti di vista. Il libro è stato recentemente ripubblicato da Oaks, con l’interessante introduzione di Marco Cimmino. Molto opportunamente il professore bergamasco riconduce le riflessioni ivi presenti all’ambito italiano e contemporaneo, facendo un gesto assolutamente naturale. Infatti, Molnar nel 1961 ci parla effettivamente di quel futuro che è diventato il nostro presente: elaborando una critica circostanziata e potente al sistema scolastico statunitense, coglie una serie di gravi questioni con le quali noi oggi ci stiamo confrontando.

Le due frasi iniziali ne sono la migliore sintesi: la scuola ha abbandonato lo scopo di mettere in contatto i giovani con “le grandi menti del passato”, con quella tradizione umanistica, letteraria, filosofica, artistica e religiosa che “dobbiamo impegnarci seriamente a studiare”, sorvolando sugli “interessi pratici immediati”, perché lì sta “il nostro infinito vantaggio”. Dimenticando in sostanza la cultura, essa dimentica l’ideale della “padronanza di sé, del ‘superamento di sé’ che implica ‘l’imposizione di uno stile, una costrizione, una forma al proprio io’” (Nietzsche). Se si tralasciano tali fattori, si rinuncia anche all’ideale di una certa distinzione, di una certa superiorità legittima, in una sana competizione, di chi cerca l’eccellenza a beneficio proprio e degli altri. Ma, appunto, c’è qualcuno che suggerisce che “eccellere non è democratico” e, benintesi, l’affermazione non è l’estemporanea buotade di un ragazzo, ma la dichiarazione tragicamente inconsapevole di chi pure ha assorbito fino in fondo gli orientamenti che gli sono stati impartiti a scuola. Spesso i migliori sono le vittime predeterminate dell’ideologia perché, essendo più sensibili, l’assorbono più facilmente. L’ideologia dominate è precisamente il pragmatismo volgare di chi sostiene che la scuola sia un “centro sociale ricreativo di adulti come di bambini” finalizzato a promuovere “l’uomo medio ideale”, ossia il cittadino perfettamente omologato di una supposta “società ideale”.

Di che cosa ha bisogno il sistema capitalistico contemporaneo? Soprattutto di tecnici bene integrati che svolgano mansioni correlate con il buon funzionamento dell’apparato produttivo, amministrativo e istituzionale. A tal fine è necessaria una specializzazione in misura inversamente proporzionale alla visione d’insieme. La visione d’insieme, infatti, è di lenta e difficoltosa acquisizione, non è spendibile nell’immediato e distrae dal più urgente problem solving. La specializzazione, invece, fa funzionare cose e, nel mondo della produzione sempre più legato a quello altrettanto fondamentale dell’intrattenimento e dello svago, è bensì importante che tutto funzioni.

Ecco, dunque, il senso della seconda frase dello studente di Molnar: ci servono buoni cittadini, quello che conta è la società, quello che serve è l’inclusione (per usare un termine molto alla moda) dell’individuo nel gregge sociale, perché l’apparato si riproduca al meglio e senza intoppi. La scuola deve già essere la società, perché la transizione dalla vita scolastica alla vita economica sia il più possibile indolore e senza rischi.  Bisogna tenersi il più possibile lontani dai pericoli della cultura: “I vecchi sistemi educativi, per quanto fossero ben organizzati e ben studiati per la distinzione dell’individuo (o proprio per questo, n.d.r.), non potevano mai garantire che l’allievo diligente di oggi non diventasse il ribelle, l’eretico o il riformatore di domani”. Per evitare tale problema, oggi, dice Molnar, si elimina la cultura, il suo valore intellettuale ed etico sotto il “disarmante slogan del servizio alla comunità”. Ma questo oggi è molto più vero adesso che negli anni Sessanta del Novecento, o meglio: è diventato una realtà in pieno dispiegamento solo ora, nel nostro XXI secolo post-moderno.

E in entrambe le situazioni storiche il motore dei processi dissolutivi nella scuola sono i pedagogisti, quella setta di organizzatori che non è priva del fanatismo di chi pensa di riformare il mondo e condurre l’umanità alle sue magnifiche sorti e progressive ... che sono lì a portata di mano, a patto che qualcuno faccia il pizzico di lavoro che manca. Nel dopoguerra come nel secondo millennio, essi pongono tutta l’enfasi possibile sulle virtù emancipative del metodo: se la scienza moderna è tutta nel metodo scientifico, questo deve valere in generale per l’istruzione; la scienza, intesa in senso banalmente positivistico, copre infatti lo spettro di ciò che si deve sapere, dunque il sapere è essenzialmente metodo e mai contenuto. Per questo gli educatori “ne hanno fatto un feticcio. Con John Dewey, essi sostengono che gli strumenti di ricerca (metodi e macchine) determinano in realtà l’oggetto e la portata del nostro sapere”. Di qui alla pedagogia delle competenze il passo è brevissimo. E, come se Molnar avesse già previsto le stupidaggini della cosiddetta “educazione digitale”, al primato del metodo si accompagna con perfetta attualità il predominio di “tecnici dell’educazione e uomini degli aggeggi”. Gli stregoni dello Strumento che dovrebbe evitare ogni sforzo e promuovere l’assimilazione facile e poco dispendiosa di una materia altrettanto facilitata e semplificata, diventano importantissimi. Se si blocca lo Strumento si blocca la scuola… al docente si può facilmente rinunciare, se lo Strumento è sufficientemente sviluppato ed efficiente … e forse, tutto sommato, è meglio rinunciarvi in nome della maggiore neutralità e affidabilità della macchina.

Al fianco degli uomini degli aggeggi si trovano sempre più spesso altre figure professionali che tendono con i primi a espropriare complessivamente la docenza. Anzitutto vi sono gli psicologi per i quali “il fallimento intellettuale e morale è ora definito in modo nuovo come sintomatico di un trauma infantile; la mente critica è solo la manifestazione di un’amarezza nascosta, inconfessata; e il desiderio di emergere è un caso non risolto di frustrazione infantile”. Con la psicologia si compie definitivamente l’eliminazione della vita interiore: “Non si può capire niente della civiltà moderna se prima non ci si rende conto che è una congiura universale per distruggere la vita interiore”, dice Bernanos. Quest’ultima, chiosa Molnar, viene sostituita con una “fantascienza dell’anima”: la psicologia, perfettamente adeguata agli scopi della società. Nonostante la sua debolezza epistemologica, essa prende piede perché in grado di dare conto e di ulteriormente alimentare la matrice edonistica del vivere comune. La banalizzazione e la schematizzazione dell’interiorità, il meccanicismo del desiderio che conduce direttamente alla schiavitù della merce sono solo alcune delle conseguenze della diffusione popolare di una versione semplificata del freudsimo, che a scuola, tra l'altro, ricopre un ruolo rilevante nei disgraziati e sempre più diffusi processi di medicalizzazione del fallimento scolastico.

Insomma, il brave new world della la società del godimento inizia in quella comunità locale che è la scuola nella quale “il baby sitting psichiatrico” va di pari passo con l’”imperialismo dei servizi personali e delle attività studentesche” che “lotta per dominare la vita privata e sociale dello studente” e non solo. Questo prendersi cura della persona, con le sue seduzioni e le sue assicurazioni, nel momento in cui si sostituisce all’essenziale compito culturale e formativo dell'istituzione scolastica, finisce per chiedere il pagamento di un prezzo salatissimo. La libertà è il prezzo di questa nuovo “assolutismo a bassa intensità”, come lo chiama Molnar, che si esprime nella scuola e nel sistema politico e sociale corrispondente: assolutismo e totalitarismo della coccola, aggiungiamo noi, o “cocco-comunismo”, secondo l’azzeccata espressione di Richard Millet. Il Welfare ti offre tutto, chiedendoti solo…l’anima, ma per un buon fine: la costruzione di una società armonica. Tuttavia “Goethe scrisse una volta alla signora von Stein che è possibile costruire un’armonica società universale purché gli uomini siano disposti a pagare il prezzo di divenire pazienti volontari in un ospedale di dimensioni mondiali”. Anche qui Molnar è profeta e anticipa le riflessioni di Illich sulla medicalizzazione della società di cui recentemente, complice la pandemia, molto si è discusso.

L’analisi del professore ungherese è impietosa, quanto lo dovrebbe essere uno sguardo disincantato sullo stato del nostro sistema dell’istruzione, cui nello specifico provvede Cimmino. Non se ne deve però dedurre un atteggiamento pessimistico. Molnar crede che la civiltà, anche a livelli minimi, esiga una certa dose di cultura umanistica. Su tale ineliminabile necessità si deve lavorare. La tradizione dovrà essere il perno della rinascita della scuola. Essa non è infatti un metodo astratto che si impone a forza sulla realtà, ma è il sostrato e la radice in cui affonda la vita concreta dei popoli europei e americani e pertanto la condizione di ogni loro effettiva crescita civile. Ogni civiltà vive portando alla luce ciò che è implicito nei semi della propria tradizione e questo vale anche per l’Occidente, che prospera quando riesce a trarre linfa vitale dalla classicità mediterranea e dal crogiuolo religioso medio-orientale. “Studiare queste civiltà significa studiare noi stessi; rigettarla o ignorarla significa commettere un suicidio culturale e intellettuale”. Russel Kirk, nella prefazione al nostro libro, nota: “Noi moderni, disse l'antico Dotto, siamo nani sulle spalle di giganti, capaci di vedere tanto lontano solo perché siamo appollaiati in cima all'immensa catasta degli antichi. Però, essendo in grado di vedere più lontano di loro, talora noi nani disprezziamo i giganti e diamo loro un calcio, o aspiriamo a starcene sollevati a mezzaria; e allora precipitiamo in fondo al fossato”.

“Il futuro della scuola” è adesso. Non possiamo evitare di sentire il cattivo odore delle acque stagnanti nel fossato in cui siamo precipitati. Ma un altro futuro è possibile a patto di lavarci nelle acque pure di una nuova umiltà da cui torneremo con la voglia di riappropriarci dei nostri giganti, quelli grazie ai quali potremo uscire dalla caverna nella quale la pedagogia materialista e collettivista ci costringe a vedere ombre, verso la luce del sapere, alla quale sin da sempre, come individui e come comunità siamo destinati.

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domenica 4 luglio 2021

Omaggio e rimprovero a don José Ortega y Gasset: José Antonio Primo de Rivera, gli intellettuali e la politica

 



 

La politica è un compito per intellettuali? A questa domanda, fatta in pubblico, si candiderebbero a rispondere due gruppi di persone.

Il primo gruppo è quelli di coloro che si considerano chiamati in causa direttamente; vale a dire quelli che qualificano se stessi come intellettuali. Di molti di essi sappiamo che parlano di qualsiasi tema con voce pomposa, le sopracciglia aggrottate e l’irresistibile inclinazione a condurre tutte le conversazioni negli angusti limiti di termini tecnici, più o meno adatti alle stesse nozioni tecniche della materia di cui si discute. Degli altri sappiamo che sono molto raffinati: tanto raffinati, tanto raffinati che non si può uscire di casa senza timore che un alito di vento li uccida. Questi si radunano in chiesette semi esoteriche, da cui in punta di piedi offrono ai giochi di parola alcune gocce di bellezza accessibili ai soli iniziati. Se qualcuno domanda del contributo di quelli con la voce pomposa e di questi super raffinati, all'impresa del pensiero umano, arriverà a sapere con stupore che ciò che gli uni e gli altri hanno partorito è solo qualche riga; che molti di essi hanno prodotto cento pagine di scarsa originalità a proposito delle quali nessuno capisce come gli interessati possono essersi formati la convinzione confortante della loro superiorità sopra il resto dei mortali; e che alcuni hanno scritto  diversi inintelligibili volumi con i quali al momento angosciano il volgo dei lettori, umilmente convinto della sua incapacità di penetrare il meraviglioso segreto della sfinge collocata di fronte a loro; fino a che qualche persona dotata di normale salute e libera dal rispetto umano, rivelerà al volgo dei lettori come quel povero simulacro di sfinge non contenga alcun segreto.

Il secondo gruppo è quello che chiamerei degli "aristofobi" (quale posto migliore dove collocare questa parola che qualche riga dedicata a don José): coloro ai quali "dà fastidio" la gente che si impegna a cercare spiegazioni difficili alle cose: "Smettila con gli intellettuali; gli intellettuali non ne imbroccano una; ciò di cui c'è bisogno è gente con onore e buon senso. Con una dozzina di politici decenti, la Spagna sarebbe ricostruita in un paio d'anni...". Così queste persone sono solite formulare in un minuto diagnosi e terapia per i mali della Spagna.

Poiché tra di noi le posizioni estreme si elaborano solo nella dimensione dialettica (perché dopo, negli affari direttamente sociali, tutti finiscono per capirsi e brindare a tarallucci e vino) quelli che non militano nel primo dei gruppi immaginati si arruolano animosamente nel secondo. O sedicenti "intellettuali" o gente che sa a memoria chi sono gli intellettuali e a che cosa servono. È chiaro che né sugli uni né sugli altri bisogna fare affidamento se si vuole dedicare qualche minuto a meditare la seguente questione: la politica è un compito per intellettuali?

Nello specifico la politica non è un compito per intellettuali. Però nient’affatto per le ragioni che adducono gli "aristofobi". Se una politica non è esigente nei suoi fondamenti, cioè rigorosa sotto il profilo intellettuale, probabilmente si riduce ad un batter d'ali sopra la superficie di tutto ciò che è mediocre. Si deve allora ricercare una spiegazione più profonda al reiterato fallimento degli intellettuali in politica. Forse vale la seguente.

I valori nella cui ricerca si impegnano gli intellettuali sono di natura sovratemporale: la verità e la bellezza, in assoluto, non dipendono dalle circostanze. La scoperta di una verità è sempre tempestiva; l'indagine di una verità non ammette vincoli dovuti a considerazioni esterne. Uno dei ritratti più belli della vocazione scientifica risiede in questa abnegazione con la quale gli operai dell'intelligenza si danno da fare a volte per seguire tracce alla cui meta i limiti della vita impediranno di giungere. Legioni di saggi oscuri camminano attraverso deserti verso terre promesse che i loro occhi mai vedranno. Al contrario, la politica è anzitutto temporale. La politica è una partita con il tempo nella quale nessuna mossa si può rimandare. In politica vi sono compiti da portare a termine e bisogna farlo nei tempi giusti. Il binomio di Newton rappresenterebbe per la matematica lo stesso se si fosse elaborato dieci secoli prima o dieci secoli dopo. Al contrario, le acque del Rubicone dovettero bagnare gli zoccoli del cavallo di Cesare in un momento preciso della storia.

Un uomo educato nella ricerca dei valori eterni, vale a dire un intellettuale, può in qualsiasi momento sentirsi chiamato alla politica. Talvolta non è nemmeno morale resistere alla chiamata. Vi sono frangenti di grave turbamento del mondo e della patria, nei quali può risultare mostruoso rimanere sotto la lampada della propria cella. Però se si risponde alla chiamata della politica non lo si può fare a metà. Se non si può flirtare con la scienza - don José lo ha detto - con la politica tanto meno. E non basta prendere una decisione più radicale di quella di un semplice flirt, bisogna rendersi conto che il passo dalla scienza alla politica implica una tragedia, ossia l'assunzione di un nuovo destino e la rottura con quello precedente. Quando si fa carico di una missione politica, l'intellettuale rinuncia alla più cara delle sue libertà: quella di rivedere continuamente le sue proprie conclusioni; quella di conferire alle sue conclusioni un carattere provvisorio. Il metodo filosofico parte dal dubbio: mentre si opera nel campo della speculazione si ha non solo il diritto ma anche il dovere il dubitare e di insegnare agli altri a farlo metodicamente. In politica no: tutta la grande politica trova il suo fondamento al lume di una grande fede. Faccia a faccia con il mondo esterno – rivolta verso il popolo e verso la storia - la funzione del politico è religiosa e poetica. I fili della comunicazione del capo con il suo popolo non sono semplicemente mentali, ma poetici e religiosi. Precisamente affinché popolo non perda se stesso nel magma dell’amorfo e dell’indifferenziato - affinché non perda la sua colonna vertebrale - la massa deve seguire i suoi capi come se fossero profeti. Questa relazione di reciproca compenetrazione della massa e dei suoi capi si consegue con un processo simile a quello dell'amore.

Da qui l'impressionante gravità dell'istante nel quale si accetta una missione di governo. Solo con l'atto di assumerla si contrae l'importante e ineludibile impegno di rivelare a un popolo - incapace di trovarlo da sé in quanto massa - il suo autentico destino. Colui che azzecca la prima nota nella musica misteriosa di ogni tempo non può esimersi dal terminare la melodia. E porta sulle sue spalle l'illusione di un popolo e tiene aperto il conto tremendo di come la amministra. Che cosa non deve essere la responsabilità se, come il poema di Browning, trascina una turba infantile dietro una bugia per seppellirla sotto la montagna dalla quale non si torna.

 

Don José Ortega y Gasset - di cui si festeggia in questi giorni il venticinquesimo anno di docenza - ha udito la chiamata della politica. In quest'ora decisiva chi con ragione potrà negargli la chiaroveggenza critica e chi  la limpidezza morale dei suoi comportamenti?. Egli non dovette esprimere a voce alta il dolore della Spagna - "sono abituato a gridare raramente", ha detto - ma noi, gli uomini della generazione del ‘98, capiamo molto bene il bruciore profondo che la sobrietà castigliana dei suoi gesti nasconde. Forse perché abbiamo imparato a ritrovarla nei suoi libri. Poiché ci sale alla gola la mediocrità di una Spagna senza un'anima comune, che, togliendosi il coturno dell'impero, non trovò modo di camminare se non in pantofole! No, don José non volle fare avere con la politica un flirt, ma si diede per vinto. Quando scoprì che "quello", ciò che era, non era "quello", ciò che egli voleva che fosse, girò le spalle con disincanto. E i capi non hanno diritto al disincanto. Non possono consegnare alla capitolazione l’illusione malconcia dei tanti che li seguirono. Don José fu severo con se stesso e si impose una lunga pena di silenzio; però non era il suo silenzio, bensì la sua voce quella di cui necessitava la generazione che egli lasciò alle intemperie. La sua voce profetica e la sua voce di comando.

 

Qualcun altro forse dichiarerà nulli questi anni di impegno politico. Reintegrarsi nei vecchi ruoli con un "qui non è successo nulla". Don José sa che nulla di ciò che è successo veramente si può dichiarare nullo. I comportamenti tragici - come la militanza politica - sono senza ritorno: o giungono all'altra riva o si stabilizzano nella quotidiana tragedia, meravigliosamente depuratrice, di constatare la frustrazione della più ardente speranza della propria vita.

Però nulla di autentico si perde. Quando un "spirito superiore" si consegna interamente, sino ad esaurirsi in una frustrazione generosa, mai il sacrificio si dilapida. Quelli che vengono dopo hanno già acquisito anche l'apprendistato dagli errori. La critica precorritrice ha sfrondato molto. Altre braccia, con gesti semplici e colpi più forti, porteranno a termine il compito. Infine - forse in un finale non previsto nei momenti della critica precorritrice - quelli che arriveranno avranno un ricordo di gratitudine per quelli che, se non videro del tutto la verità o non ebbero la forza per difenderla, disfecero a coltellate molti spaventapasseri armati di menzogne.

Una generazione che quasi si svegliò all'inquietudine spagnola sotto il segno di Ortega y Gasset ha imposto a se stessa, anche tragicamente, la missione di restituire la colonna vertebrale alla Spagna. Molti di quelli che si arruolarono avrebbero preferito seguire, senza fretta né impeto, la vocazione intellettuale...

Il nostro tempo non dà tregua. A noi è stato dato un destino di guerra nel quale senza mercanteggiamenti bisogna rimetterci la pelle e le budella. Per fedeltà al nostro destino andiamo di luogo in luogo sopportando il rossore delle manifestazioni pubbliche; dovendo urlare quello che abbiamo perseguito nella più silenziosa austerità; soffrendo le deformazioni di coloro che non ci capiscono e di quelli che non ci vogliono capire; detestando noi stessi in questo assurdo simulacro consuetudinario di conquistare "l'opinione pubblica", come se il popolo, che è capace di amore e di collera, potesse essere collettivamente soggetto di opinione ... Tutto questo è amaro e difficile, ma non sarà inutile. In queste nozze d'argento di don José Ortega y Gasset gli si può offrire il regalo di un vaticinio: prima che giunga a termine la sua vita, che tutti desideriamo lunga e che, per essere sua e lunga, deve essere anche feconda, arriverà un giorno in cui al passo trionfale di questa generazione, della quale fu lontano maestro, egli debba esclamare compiaciuto: "Sì, è questo"(1)

                                                                               José Antonio Primo de Rivera

 

 [Haz 12 (1935), in: José Antonio, Textos revolucionarios, Ediciones 29, Barcelona, 1984, pp. 163-168]


                                                                              (tr. it di Massimo Maraviglia)


(1) Il 9 settembre del 1931, in pieno dibattito costituzionale, Ortega Y Gasset pubblicò nel giornale "Crisol" un importante articolo intitolato "El aldabonazo" (Il colpo), in cui manifestava tutti i suoi dubbi sulle derive politiche e culturali della neonata seconda repubblica spagnola, subito avvelenata dai radicalismi delle sinistre socialcomuniste e anarchiche: "Una quantità immensa di spagnoli che collaborarono con l'avvenimento della Repubblica mediante la loro azione, il loro voto o con quanto è di tutto ciò più efficace, la loro speranza, si dicono ora tra l'ansia e lo scontento: 'Non è questo, non è questo! La Repubblica è una cosa. Il radicalismo un'altra!'"


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