martedì 16 aprile 2024

Spirito o intelligenza artificiale? La sfida dell'IA alla soggettività umana

 


"Umano poco umano" di Mario Crippa e Giuseppe Girgenti è un testo di esercizi spirituali che ci vuole aiutare ad affrontare la realtà. L'esercizio spirituale è un allenamento che ci permette di attivare la mente, così come l'esercizio fisico attiva il corpo. Si tratta di abituarci a riflettere sui temi fondamentali della nostra vita, per coglierne un senso profondo e per ispirare una prassi consapevole ed efficace. Esso è antico quanto la filosofia, anzi ancora di più, quanto quella sfera originaria e innata che coincide con il sacro e la religione. Sin dagli albori della nostra civiltà l'esercizio spirituale fu concepito come una pratica di iniziazione. Iniziazione significa una serie di azioni, di gesti, di prove che introducono alla vita piena. In campo religioso si tratta di formare un fedele consapevole, un credente compiutamente educato alla vita dello spirito, cosciente, attivo, in cui è operante un’autentica intelligenza della fede. Nel più vasto ambito della società, l'iniziazione perfeziona la partecipazione alla vita civile, fatta di ruoli da incarnare, compiti da svolgere, scelte da compiere, responsabilità da portare, dignità, onore e reputazione da detenere e difendere.

In tutti questi campi l'esercizio spirituale è una pratica riflessiva, è un'attitudine a capire, ad approfondire, ad affinare il nostro sguardo per affrontare l'esistenza da persone autentiche e pienamente umane.

L'epoca moderna e la nostra civiltà pongono sfide importanti e talvolta in grado di metterci profondamente in questione. Una di queste è data dal ruolo onnipervasivo della tecnica. Essa non è solo progresso verso il comfort generalizzato (pur con tutti i suoi problemi), ma anche la propensione a considerare la natura, il mondo, gli altri come oggetti a disposizione di un universale meccanismo di trasformazione e manipolazione. Il punto più alto del movimento manipolativo della tecnica è rappresentato dal tentativo di entrare nell'interiorità umana, decidendo le forme del pensare e del comprendere, per sottoporle alla schiavitù dell'uniformazione, della produzione seriale, della semplificazione che espone le nostre facoltà intellettive a processi sempre più pervasivi di consumo e di controllo. Da un lato si consumano storie preconfezionate, slogan ideologici, retoriche pubblicitarie, dall'altro c'è la tendenza a controllare tutte le attività umane, compreso il pensiero, per determinare l'uomo a una dimensione, docile al potere e sottomesso alle logiche degli apparati economico-politici dominanti. In ciò l'intelligenza artificiale ha un ruolo non secondario. Il libro ne espone, in modo preciso e al tempo stesso fruibile dal grande pubblico, i rischi e le implicazioni etiche e filosofiche, con un excursus assai efficace sulla nostra quotidianità ormai sedotta dalle prospettive della costruzione artificiale di prodotti spirituali. È la sfida della tecnica ma di una tecnica enormemente più raffinata e penetrante che induce a domandarci se l'interiorità e la relazionalità così come noi le abbiamo intese, e seguiamo a considerarle sul piano etico, potranno mai resistere a un tentativo di sostituzione della soggettività vivente con una sua imitazione algoritmica. Il libro di Crippa e Girgenti accoglie questa sfida che, se trascurata, ci vedrebbe tutti condannati alla prigionia di un infantilismo tecnologico disumano e antiumano. Lo scopo è quello di ogni iniziazione spirituale: una vita fiorita, più ricca, più adulta in cui l'esercizio di un'intelligenza etica, emotiva ed estetica ci restituisca, contro ogni artificialità che reifica e mistifica, alla nostra più vera e autentica natura.

martedì 9 aprile 2024

Riconoscersi, trascendersi legarsi. Un contributo teologico alla consulenza filosofica. Conversazione con mons. Pierangelo Sequeri


Pubblicata originariamente in “PINC” 1(2007), pp. 65-73, presento nuovamente questa intervista, un piccolo gioiello in cui mons. Sequeri affronta temi ancora attuali con grande acume e profondità teoretica

A cura di Massimo Maraviglia

Sbrigativamente si è decretato il venir meno della capacità ecclesiale di fornire orizzonti di senso alla vita dei singoli e della società. Qual è secondo lei la situazione reale? Non è forse, al di là della retorica del ritorno del religioso, qualche altra ‘agenzia di senso’ (Stato, intellettuali, scuola) in crisi ben maggiore?

In prima battuta, a caldo, forzerei ancora di più la dialettica che lei pone, dicendo che l’agenzia di senso più in crisi è certamente la famiglia. La crisi ha due facce. La prima è quella per cui il lavoro famigliare di umanizzazione è rimosso e poi svilito dalla società. La società liberale e mercantile, che ispira il modello ideale dell’individuo autoreferenziale, attore sociale che definisce in modo autonomo e razionale la sua identità, non sarebbe in grado produrre accesso alla qualità umana – e alle qualità umane – per nessun individuo. Le istituzioni civili e la cultura intellettuale, che approfittano di questo lavoro, scaricando sulla famiglia gli oneri più alti della provvista di senso, fanno poi valere parametri di identificazione largamente estranei a quel lavoro.

La seconda faccia della crisi riguarda appunto l’indotto di rassegnazione, impotenza, disinteresse, a riguardo del lavoro famigliare di ominizzazione. Incerta a riguardo del suo valore, trafitta dal sospetto assillante di condizionamento, prevaricazione, dirottamento delle potenzialità esistenziali e culturali del singolo, la famiglia è profondamente in tensione. La scuola, la cultura intellettuale, le istituzioni civili, risentono, infatti, largamente degli effetti di una sconsiderata semplificazione, secondo la quale la maturità della cittadinanza dipende dall’emancipazione di ogni cultura della generazione e della fraternità. 

L’orizzonte ecclesiale della fede, che tiene fermo il vincolo della verità di Dio con la destinazione della generazione del Figlio per la fraternità degli umani, lavora oggettivamente – già solo esistendo – in controtendenza con le due spinte opposte dello scotimento epocale. Da un lato gli effetti destrutturanti di un’istituzione dell’umano che rimuove il riconoscimento del senso spirituale attivato dai legami primari. Con tutti gli effetti di smarrimento generati dalla considerazione funzionale e libidica di tutti i rapporti. Dall’altro il ritorno vendicativo del rimosso, che prende la forma di un arcaico ritorno alle forme tribali dei legami di sangue, di razza, di clan. Con tutta la carica di violenza interna che se ne sprigiona, a dispetto di ogni civilizzazione e di ogni religione. L’assimilazione soggettiva di questa sua funzione epocale – voglio dire, socialmente creativa e intellettualmente smaliziata – è nel cristianesimo ancora debole. Ma la polarizzazione oggettiva di un mondo umano irrinunciabile, irriducibile all’economia libidica dell’autorealizzazione, lascia emergere la sua funzione strategica per la costituzione di un umanesimo prossimo venturo. Non solo la questione religiosa, ma anche la questione morale e quella educativa, hanno oggi rilievo di questioni fondamentali del senso, dell’uomo e della donna, della vita e della morte, della generazione e della destinazione dell’umano, proprio perché possono essere articolate in rapporto all’effettività della forma ecclesiale del pensare e del comunicare l’umano. Non esisterebbero semplicemente – e difatti non esistono – né avrebbero peso determinante nel discorso pubblico, in altro modo, nell’odierno contesto. L’indice di crescita economica, la tecnologia della manipolazione chimica e biologica, il riflesso culturale degli eventi dello spettacolo, sarebbero probabilmente le occasioni più elevate della conversazione pubblica quotidiana intorno alle questioni di senso. 

La fede può avere due tipi di ricaduta psicologica: da un lato la consolazione fornita dalla speranza ultraterrena, dall’altro la critica che utilizza il criterio della giustizia del Regno per promuovere un atteggiamento attivo nei confronti del reale. Quale dei due ritiene maggiormente operante oggi?

Certamente il primo, anche se considerato culturalmente più convenzionale e socialmente meno visibile. Il secondo è più nominato, ma è meno operante di quanto non appaia teorizzato, anche dai teologi. Sul primo motivo la teologia è stata indubbiamente meno generosa di riflessioni forti, ponendo più slancio di rinnovamento sul secondo. Non si deve infierire. Non è neppure questione di alternativa secca, dopotutto. Inoltre, si deve tener conto del fatto che, nel contesto della ripresa di iniziativa culturale del cristianesimo, dopo il Concilio, era fortissima la pregiudiziale negativa che rinchiudeva l’immagine della religione in quella di un’ideologia politicamente conservatrice e individualmente consolatoria. Rimane il fatto che, nel frattempo, l’aggiornamento culturale del capitalismo neo-liberistico è stato abile ad incunearsi nel solco della critica all’ideologia del sistema di costrizione della libertà, indirizzandone l’offensiva anche nei confronti del legame sociale, del diritto, dell’etica condivisa. La funzione consolatoria nei confronti delle aspirazioni, del desiderio di realizzazione e di elevazione del singolo è stata trasferita nell’orizzonte libidico dei beni di consumo, che include anche i “prodotti” culturali e le “tecniche” del benessere spirituale. L’efficienza del principio di realtà è trasferita al dominio dell’economia e della tecnica, che “rispettano” la religione e l’etica, ma regolano i limiti della loro rilevanza pubblica rinviando alle loro “molteplici” elaborazioni “private”.

 Il singolo, per fronteggiare la crisi della complessità, ha soltanto la fede nella destinazione dell’esistenza ad un riscatto che sta oltre la morte, e la persuasione che le pratiche ispirate all’incondizionato della giustizia ne decidono il compimento. E il presentimento indistruttibile, infine, che la dignità di ciò che è degno, nell’esperienza della qualità umana, deve essere decisa dallo stretto legame che sussiste – fin dalla creazione del mondo, e prima – tra la fiducia in quel riscatto e la pratica della giustizia. Questo tema è diventato privato, ossia irrilevante per la sfera pubblica dell’essere sociale. Questo tema, invece, è la forma condivisa dell’umano, che vi iscrive tutte le qualità della sua naturale differenza dalla natura. Su questo tema, secondo il quale la qualità morale delle affezioni e la qualità religiosa del divino hanno indissolubile fondamento nell’intenzione che genera il  Logos di Dio e ne definisce lo Spirito, il cristianesimo incalza anche la religione e l’etica. In nome di Gesù Cristo, che sottrae l’ospitalità di Dio agli arcaici vincoli dell’etnìa come ai moderni vincoli dell’economia, rendendola radicalmente universale, per tutti i singoli, i vivi e i morti.

Gnòthi sautòn, come i cristiani possono interpretare questo slogan manifesto della grecità da Socrate all’ellenismo?

L’antica tradizione cristiana, com’è noto, ha nutrito una speciale predilezione per l’antico motto apollineo della “conoscenza di sé”. Lo ha sottratto però – più o meno consapevolmente – alla declinazione socratica, che accentuava la cura di sé come psicho-logia, in alternativa alla faticosa e incerta impresa di “decifrazione dei miti”, ossia della teo-logia. Ne ha enfatizzato i due lati della tradizione originaria, che Platone stesso restituisce al suo più corretto intendimento (come Reale ha ben dimostrato). Sia traendone l’invito allo svuotamento della ybris che insedia al posto della conoscenza di sé, nutrendo quello che noi chiameremmo un falso sé, illusorio e distruttivo. Sia sviluppando la ricerca delle più intime potenzialità di trascendimento del sé autoreferenziale, che riconosce le proprie qualità più alte precisamente mediante l’esercizio dell’uscita da sé, nei modi dell’amare e dell’essere amato. E’ qui la dimensione del riconoscimento della propria tangenza – anzi della propria sovrapposizione – con il modo originario dell’essere divino. Il significato preciso della scritta “conosci te stesso” del resto, secondo l’unanime consenso degli studiosi, era un invito di Apollo – dio della felice riuscita di armonia – a riconoscere la propria limitatezza e finitezza, cercando senza arroganza e con animo grato l’accordo con il dio. “Dunque – chiosa Giovanni Reale – a chi entrava nel tempio di Delfi veniva detto quanto segue: ‘uomo, ricordati che sei un mortale e che, come tale, tu ti avvicini al dio immortale”. L’esperienza dell’affinità della ricerca di sé con il movimento dell’incarnazione del Figlio, precisamente attraverso il corpo agito come medio ospitale e relazionale di agape, è il sigillo specificamente cristiano di questa rilettura. Non è forse un caso che i luoghi più intensi dell’applicazione cristiana dell’invito al dialettico riconoscimento di sé come “creatura mortale” e “imago Dei”, compaiano nella tradizione esegetica – del resto particolarmente rigogliosa lungo tutta la tradizione medievale e fino all’età della mistica, che inaugura la modernità – del commento al Cantico dei Cantici. Da Origene ad Ambrogio. Da Gregorio di Nissa a Basilio e Agostino. Per non parlare dei Vittorini e di Bernardo. Disincagliare il progetto della conoscenza di sé dalla sua post-moderna piega autoreferenziale, fatalmente nichilistica, è la forma dell’attuale provocazione umanistica del cristianesimo. L’unico grande racconto in grado di scuotere la formula dell’autocoscienza dall’incantamento narcisistico – libidico e anaffettivo, asociale e autoditruttivo – della ricerca di sé.

 

Quali sono le conseguenze antropologiche della teologia trinitaria e dell’introduzione mediante essa del concetto di persona?

A dire la verità il rapporto non è così immediato. Il vantaggio dell’antica opzione, con funzione esplicativa della verità trinitaria di Dio conseguente alla compiuta acquisizione della rivelazione cristologica, fu visto nel fatto che essa fissava il concetto di identità senza requisirlo dentro l’idea di sostanzialità individuale. Dio rimane uno e unico, in tre persone uguali e distinte. L’incomparabilità del mistero divino confessato dalla fede cristiana ha suggerito per lo più una linea di cautela nello svolgimento delle analogie. Nella teologia recente, proprio a partire dal fatto che quella cautela ha pure “allontanato” la specificità trinitaria della comprensione cristiana di Dio dall’approfondimento della sua ricaduta sulla comprensione della creaturalità umana “a immagine e somiglianza”, ha preso l’avvio un percorso di rivisitazione della radicale possibilità di pensare l’umano – come qualità personale e al tempo stesso come legame condiviso. Gli spunti attualmente più interessanti, a mio avviso, sono due. Il primo è la possibilità di pensare che la qualità personale e la relazione intersoggettiva possono – e forse devono – essere pensate allo stesso livello di originarietà, ossia come reciprocamente costitutive. Esplorare in chiave fenomenologica, ontologica e culturale, il carattere originario di questa correlazione, senza pregiudizio per l’irriducibile singolarità della persona, la sottrarrebbe alla presunta migliore coerenza con la comprensione e la pratica autoreferenziale del sé. Il secondo elemento consiste nella vigorosa riacquisizione – anche qui, in sede fenomenologica e ontologica simultaneamente – della forma di agape (inclusiva delle virtualità affettive di eros e di philia) alla costituzione trascendentale dell’umano: proprio così, e proprio per questo, compiutamente definito nella irriducibile qualità personale della sua intimità, che fa la differenza dell’umano tout-court.

 

Si può concepire la persona fuori dal riferimento al Dio cristiano, al di là dei tentativi operati in tal senso dall’illuminismo filantropico / umanitario?

La punta incandescente della nozione di persona, secondo il mio parere (ma in fondo, anche dal punto di vista della storia della nostra teologia e filosofia) è la costituzione di una qualità individuale che si definisce da ultimo per rapporto alla facoltà di “fronteggiare” Dio stesso, in tutta coscienza e libertà. Di più, in termini di dignità e di autonomia, non è possibile pensare. Un celebre teologo protestante, Wolfhart Pannenberg, si è cimentato in modo interessante con la valorizzazione storico-culturale di questa relazione, rileggendo i dati dell’antropologia culturale in chiave di illustrazione del valore fondante che la relazione religiosa con Dio ha per l’istituzione dell’autocoscienza in chiave di dignità personale. Il riconoscimento “ideale” delle qualità tipiche dell’essere personale, come noi ora esplicitamente lo concepiamo, si sarebbe formato nella pratica di una relazione con il “divino” che ha suscitato la percezione del carattere determinante dell’interiorità responsabile del singolo, in termini eccedenti la semplice omologazione dell’affinità biologica e la conformità con il gruppo sociale di appartenenza.

In ogni modo, da Paolo al Concilio di Trento, la qualità personale dell’atto di fede è una singolarità cristiana teologicamente fuori discussione. Semplicemente, ora, possediamo anche le categorie mentali per articolarne il valore antropologico. Il cristianesimo insiste in questo punto esatto, nel quale il vangelo “riabilita” la stessa forma religiosa della fede, ricomprendendola come atto d’amore, ossia come adesione responsabile e libera alla manifestazione e all’intenzione nella quale Dio si raccomanda come alleato e custode della felice destinazione individuale. Il primato della forma personale della fede sigilla la singolarità religiosa della rivelazione evangelica. L’eccellenza della denotazione del singolo individuo umano come persona, così come l’inviolabilità che ne consegue, è per così dire blindata in quella figura. In quanto principio fontale e risolutivo dell’irreversibilità di tale costituzione, l’atto creatore di Dio precede e fonda ogni altra modalità di riconoscimento che concorre – persino creativamente – ad istituirne la consapevolezza e l’effettività.

In questa prospettiva, è custodita la convinzione che la qualità personale non è “prodotta” dall’affinità biologica della specie o da un qualche principio di “cooptazione” dell’umano nei confronti del proprio simile. Una simile convinzione sottrae la qualità personale tanto alla forma della contrattazione come a quella della donazione intersoggettiva. E precisamente in questo modo ne conferma anche soggettivamente l’irriducibilità, oltre che custodirne la proprietà inviolabile. Sino ad ora non è stato possibile trovare, in alternativa a quello religioso, un fondamento adeguato per questo principio di uguaglianza nell’indipendenza che costituisce il presupposto in cui la vita umana del singolo è già originariamente ricevuta come degna di essere condotta all’appropriazione effettiva di sé. Sembra dunque che la funzione radicale della testimonianza cristiana – nell’ambito dell’umanesimo come della religione – abbia titolo per essere considerata un bene rigorosamente comune. In cui è appunto tutelata la dignità di credenti e non credenti, oltre ogni appartenenza.

 

Il rapporto fede / ragione è da sempre oggetto di analisi e approfondimenti e soprattutto oggi si situa (anche per merito di Benedetto XVI) al centro del dibattito filosofico-antropologico. E gli affetti?

Da quando la modernità ha isolato e privilegiato la funzione di verità – o almeno di certezza – della ragione che combacia con il puro spettacolo di un’evidenza anaffettiva e amorale, anche in riferimento alla coscienza affettiva e morale dell’uomo, il rapporto tra fede e ragione ha subito una trasformazione inedita e profonda. Gli affetti si sono trovati spinti dalla parte della fede, in quanto dimensione ulteriore rispetto a quella del logos: sia nel senso di momento extra-razionale della coscienza, sia nel senso di orizzonte dell’irrazionale. La fede cristiana – e specificamente quella cattolica – non ha apprezzato, a quel punto, una simile consegna. La ragione è ovvia. Il logos del razionalismo moderno nutriva l’ambizione di polarizzare non soltanto la sfera del sapere incondizionatamente degno di affidamento, ma anche quella del discorso degno di universale apprezzamento, politicamente legittimato alla definizione del dominio cognitivo che regola la soglia dell’argomentazione ammessa alla costruzione sociale del senso. Con questo logos il cristianesimo aveva lunga dimestichezza, e, quanto alla sua elaborazione culturale, poteva vantare qualche credito non piccolo. Lo aveva eletto come interlocutore – proprio il logos filosofico greco, quello temprato nella critica del mito religioso, in nome dei diritti della ragione e dell’autodeterminazione etica – della cultura cristiana nascente, a preferenza della logica spiritualistica, ermeneutica, giuridica, delle grandi tradizioni religiose. Il logos universale dell’umana ragione era stato individuato come l’ambientazione più compatibile per una religione non esoterica, la quale, in controtendenza con l’estetica del mito e lo spiritualismo della gnosi, puntava sulla qualità umanistica e sulla dignità creaturale della conoscenza di Dio. La fede cristiana non intendeva svilupparsi – né religiosamente, né culturalmente – mediante l’opposizione al logos. E a nessuna delle sue filiazioni, ragione compresa.

Si comprende dunque che il cristianesimo non volesse diventare il rifugio religioso dell’irrazionale, né regredire alla forma di una opzione sentimentale, per quanto apprezzabile, estranea alla vita razionale della coscienza. Non lo ha voluto nemmeno nei momenti di maggiore tensione, quando cioè la ragione moderna – sotto forma di scienza e di politica – è andata definendosi non più soltanto come interpretazione filosofica della coscienza religiosa, bensì come costruzione razionale e vincolante del senso, definita formalmente dall’espulsione dei temi e della testimonianza della religione. Nel corso della vicenda moderna di questa tensione, il cattolicesimo ha perciò trattato con un certo distacco anche gli sviluppi intenzionalmente religiosi della dimensione affettiva della coscienza, che rappresentavono l’emergere dell’istanza di reintegrazione della qualità umana del logos (nell’arte, nella letteratura, nella spiritualità, nella liturgia). Il tema della costituzione affettiva della coscienza, cioè, luogo di una vera e propria logica dei sensi spirituali che restituisce l’integrità del logos umano, è rimasto congelato dall’impegno spasmodico di non perdere il contatto con l’egemonia razionalistica della politica, della filosofia, delle scienze.

L’extra-razionale e il sovra-razionale della fede teologale sono stati definiti, pur nell’ovvia necessità di custodirne la trascendenza rispetto ai limiti del semplice costrutto umano della verità e del senso, in termini non antitetici né sostitutivi alla ragione umana. E’ rimasto impensato, tuttavia, il loro rapporto con le dimensioni affettive della coscienza: che istruiscono praticamente e discorsivamente – già nella sfera del logos umano – l’irriducibilità della coscienza razionale al rispecchiamento del mondo e all’ottimizzazione del calcolo. Questa lunga parentesi di ritardo del pensiero rigoroso degli affetti, in cui l’intelletto impara a ragionare in termini di giustizia dei legami, di qualità etica degli affidamenti, e di trascendenza della destinazione, va ora ricuperata. La ricerca della conciliazione diretta della ragione e della fede, in assenza di un pensiero rigoroso dell’esperienza affettiva del senso e della destinazione trascendente dei legami, è destinata a generare surriscaldamento delle tensioni accumulate dalla storia di una separazione ostile. La sollecitazione del papa Benedetto XVI, che ha introdotto nella problematica la necessità di riconsiderare l’originaria correlazione teologale di eros e agape, come ambientazione originaria del Logos divino, cristianamente immanente al progetto della creazione, di cui l’incarnazione, la risurrezione e l’ascensione orientano e istituiscono il compimento, inaugura la svolta che si attendeva. La teologia stessa, per prima, non potrà più svolgere l’orizzonte di questa connessione della ragione e della fede, senza l’elaborazione della principialità e della trascendentalità di agape. La logica degli affetti viene allo scoperto, e occupa a buon diritto la prima linea della riflessione sulla ragione e sulla fede. Riconquista lo spazio ontologico del fondamento, ritrova la dignità di argomento cardine per la filosofia prima e la teologia fondamentale. Un gesto di “rottura” e di “liberazione” che inaugura una nuova stagione del cristianesimo e assumerà rilievo epocale. Non c’è dubbio.

 

Quale è la differenza tra una rivalutazione teologica degli affetti e lo sterile sentimentalismo che attraversa molte espressioni della religiosità contemporanea?

Il rimosso ritorna, fa saltare il tappo, si vendica di un troppo lungo misconoscimento e avvilimento. Ora, infatti, la critica del razionalismo anaffettivo e dispotico, che sacrifica le parti affettive della coscienza al culto di una combinatoria materiale dell’esistenza insensibile alle ragioni del sentire umano, è un impulso generale. Tuttavia, non disponendo di un pensiero alto, maturo, adeguato alla complessità del rapporto fra pathos e logos, improvvisa i suoi argomenti pescando alla rinfusa nei luoghi trascurati della sua elaborazione moderna: l’arte dell’età umanistica, la mistica dell’età cartesiana, l’erotica della reazione romantica. Quanto alla religione, poi, gli elementi di integrazione sono cercati proprio nello spiritualismo e nell’esoterismo della gnosi orientale, quella precisamente che è stato oggetto della presa di distanza dalla quale ha potuto svilupparsi l’umanesimo religioso della nostra civiltà. La rivalutazione teologica e religiosa degli affetti, che si cerca in termini di compensazione o di sostituzione del razionalismo, di fatto rischia semplicemente la perdita del logos. Non rappresenta dunque un superamento, bensì una sostanziale regressione. Perde la singolarità cristiana, compromette la riabilitazione del sentire come struttura convergente con la qualità umana del logos: principio indispensabile alla coscienza riflessiva della libertà e alla qualità umana dell’esperienza di relazione. Il contraccolpo di questa evaporazione emozionale e sentimentale dell’ordine degli affetti insidia il superamento del razionalismo assai più della resistenza aggressiva delle scienze dure. Personalmente, mi muovo con molta più cautela nella perorazione di una logica metafisica dei sensi spirituali e del valore strutturante dell’esperienza estetica, proprio a motivo di questo risucchio. Parlo preferibilmente di intenzionalità, affidamento, attaccamenti e legami, scambio e donazione, trascendentalità dell’etico: queste sono le figure strutturanti dell’ordine degli affetti. Non è questione di emozione e di feeling, o di cuccia calda. L’ordine degli affetti è luogo di confronto fra le potenze che muovono il mondo. E’ il campo ontologico delle tendenze e delle forze. Si definisce per rapporto alla grazia e al peccato, alla giustizia e alla libertà: gioco delle forze, dalle forme sfuggenti e inafferrabili, in cui si decide la destinazione del singolo, della storia, e di ogni cosa. Un campo del quale la filosofia sa pochissimo, ora; e la teologia non sa di sapere. E’ questo, in ogni caso, il suo livello di esercizio, irriducibile alla chiarificazione degli aspetti “psicologici” dell’emozione e dell’innamoramento.

 

E’ stato autorevolmente affermato che la forma dell’esercizio spirituale ha un’origine filosofica (stoico-epicurea, cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 2006, soprattutto pp. 29-86). Lei crede nella praticabilità qui in occidente di un esercizio spirituale senza fede cristiana? Percorrendo una strada simile non si corre il rischio di spiritualizzare la filosofia introducendovi surrettiziamente elementi mistici e perdendo la differenza tra i due ambiti (che invece il cristianesimo, prima di superare, istituisce e salvaguarda)?

Capisco il senso dell’affermazione di P. Hadot, del quale ho grandissima stima. In realtà l’esercizio spirituale è antico quanto la religione. In verità, anzi, la forma di esercizio spirituale che include e definisce sinteticamente la differenza specifica dell’ominizzazione è l’esercizio spirituale dell’iniziazione. Il punto nel quale viene simultaneamente definito il passaggio all’integrazione a pieno titolo con il gruppo, e simultaneamente l’assunzione di identità singolare della responsabilità, è appunto segnato dall’esercizio riflessivo dell’integrazione personale della cultura e nella cultura umana di riferimento. L’interiorità di questo processo, marca la differenza spirituale – cosciente, voluta, creduta – rispetto ai semplici processi mimetici di adattamento e addestramento (alla caccia, alla coltivazione, alla guerra, alla procreazione e alla cura). Il contatto con questo grembo spirituale dell’iniziazione – impossibile senza l’individuazione di un regime di fine, e non di semplice mezzo comunicativo, della parola e dell’affetto – va mantenuto in ogni ambito di articolazione del discorso e della relazione umana: filosofia, politica, arte, scienza, lavoro e cura. La filosofia, nondimeno, consiste nella scoperta della possibilità / necessità di instaurare una distanza critica nei confronti dei propri pensieri e dei propri attaccamenti, per ricuperarne la qualità veritativa e la giustificazione intersoggettiva, che vanno altrimenti perdute nella deriva di autoreferenzialità che insidia il puro abbandono a loro consumo interiore. (Del resto, anche nell’ordine pratico degli affetti, la sollecitazione ad abbandonare la casa paterna e materna, per allacciare nuovi legami, impone la mediazione di analogo processo di presa di distanza, che corrisponde a specifici dispositivi di iniziazione). La custodia di questa differenza è stata apprezzata dal cristianesimo come un elemento necessario per la lealtà intellettuale della testimonianza pretesa veritativa del Logos e per la dignità della pretesa universalistica iscritta nella sua incarnazione (irriducibile all’autoreferenzialità storica e culturale, religiosa ed etnica del suo insediamento).

Un esercizio spirituale che, nella cultura occidentale, prescinda dall’istruzione cristiana sulla qualità discorsiva e affettiva del logos umano (quindi dalla conciliazione intersoggettiva e dalla destinazione creaturale dello Spirito), dovrebbe inevitabilmente essere pensato in termini di estraniazione nei confronti dell’irrevocabile sigillo personale dell’ethos umanistico di cui vive l’intera modernità. E in termini di rimozione della conquistata dignità di un tratto interlocutorio e dialettico con il divino medesimo, che con quel sigillo della qualità dell’essere personale fa tutt’uno. L’esercizio spirituale, da noi, non può più essere sottratto al tema della dignità del medio corporeo degli affetti più sacri e più cari, né coltivato al di fuori della dignità interlocutoria in cui si decide la destinazione – e non la sola iniziazione – dell’esercizio spirituale della libertà.


mercoledì 7 febbraio 2024

Idee, lotte e libertà. Momenti della storia del Movimento Operaio/1 Georges Sorel


 di Simone Elia

Sorel è stato, certamente, uno spirito eretico, incline anche al paradosso pur di essere se stesso…dunque uno spirito in linea con quella che mi appare l’esigenza sempre attuale di ogni “movimento verso qualcosa”: l’autonomia. Ecco perché, in primo luogo, tornare, almeno un po’, a pensarci su, con riferimento specialmente alle Riflessioni sulla violenza.  

Quanto all’ereticità del nostro ingegnere di ponti, il suo percorso politico-intellettuale non tradisce le attese che si possono nutrire per uno spirito libero: vario fino all’incoerenza, almeno in superficie.

Dapprima marxista ortodosso, sebbene mai incline al determinismo volgare, ma piuttosto attento alla difesa del materialismo storico posta in essere da Antonio Labriola; poi, in pieno Bernstein-Debatte, simpatetico nei confronti del revisionismo, apprezzato per il tentativo di riunire teoria e prassi, per la visione del socialismo come ideale etico e la critica spietata verso il determinismo kautskyano; pochi anni e scrive le Riflessioni sulla violenza e la Decomposizione del marxismo: siamo al Sorel classico, propugnatore del sindacalismo rivoluzionario. Seguiranno ancora una breve intesa con l’Action française di Maurras, l’opposizione alla Grande Guerra e, infine, l’entusiasmo assoluto per Lenin e il possibilismo verso il fascismo, ancora movimento.

Insomma, non stupisce troppo che i giudizi su Sorel non siano del tutto deducibili dallo schieramento politico dei giudici. Se Lenin lo bolla laconicamente come “ben noto confusionario” (Materialismo ed empiriocriticismo, 1909), Gramsci scrive che “Il rigore e la precisione del ragionamento e l’impetuosità polemica…sono in lui accompagnate da una immediata e limpida intuizione dei bisogni della vita operaia, della sua fresca originalità…è un amico disinteressato del proletariato” (L’Ordine nuovo, ottobre 1919). Dal lato opposto, Mussolini afferma: “È a Sorel che debbo di più”.

 Ora, venendo al cuore di Sorel, che cosa sono Le riflessioni sulla violenza[1]? Beh, per cominciare, nell’ambito della “crisi del marxismo” che caratterizza il passaggio tra XIX e XX secolo, sono l’opera centrale del “revisionismo di sinistra”, che individua nel sindacato – contro il partito -- la vera forza trainante dell’emancipazione proletaria, il solo protagonista possibile dell’azione rivoluzionaria. Come sempre per Sorel, opera asistematica. Tuttavia, si può cogliere una linea di sviluppo che si regge su due perni, uno distruttivo, l’altro costruttivo.

 Il perno distruttivo è rappresentato dal violento rifiuto del socialismo politico, tanto in versione riformista quanto in versione ortodossa, e della bassa morale borghese che lo avvolge, fatta di grettezza, do ut des, come emerge se si guarda al meccanismo elettorale e al cinico sfruttamento che i politici socialisti mettono in atto nei confronti degli scioperi operai: “Il socialismo parlamentare parla tante lingue quante sono le specie di clientele che ha…Nessuna contraddizione lo arresta”; o ancora: “Jaurès è divenuto maestro nell’arte di utilizzare le collere popolari…Bisogna…far credere agli operai che si porta la bandiera della rivoluzione; alla borghesia che si arresta il pericolo che la minaccia”.

Il retroterra filosofico del mondo borghese (che include il socialismo politico) è per Sorel l’ottimismo razionalistico stile XVIII secolo, insomma l’ideale illuministico del progresso. Scrive il Nostro: “L’ottimista è in campo politico un uomo incostante o addirittura pericoloso”. Infatti, se il primo risultato dell’ottimismo acritico è l’attitudine imbelle verso il mondo e la vita – a che pro agire se le cose migliorano da sole? –, il secondo è il “fratello cattivo” dell’inattività, apparentemente suo opposto: la brutalità isterica, del tipo realizzatosi nel Terrore giacobino. Del resto, se il mondo di suo va per il meglio, ma di fatto il bene e l’armonia non regnano, non può essere che per l’incapacità o la malvagità di qualcuno che ostacola il corso delle cose: vada alla ghigliottina. “Gli uomini che versarono più sangue furono quelli che avevano il desiderio più vivo di far godere ai loro simili l’età dell’oro che avevano sognato”. Si tenga presente: l’antigiacobinismo è un tratto costante della produzione di Sorel, che può aiutare a chiarire anche il senso della difesa della violenza da lui avanzata.

 Perché proprio questo è il perno costruttivo delle Riflessioni: “Oggi non esito a dichiarare che il socialismo non potrebbe sussistere senza un’apologia della violenza”. Violenza proletaria che si esprime nello sciopero generale, identificato da Sorel tout court con il marxismo autentico, anzi, di più con il socialismo stesso: esso è “il mito nel quale si racchiude tutto il socialismo”. E ancora: “Grazie a esso il socialismo rimane sempre giovane…in una parola, la scissione [del proletariato rispetto al mondo borghese] non corre mai il rischio di sparire”. Il marxismo, allora, è un mito e il suo centro è lo sciopero generale proletario.

Che cosa intende con “mito” Sorel? In prima battuta, il mito non è l’utopia. Questa è per Sorel una costruzione dell’intelletto, razionale, analitica, indice di un disegno d’autorità, che cerca di adattare tecnicamente il mondo in vista di una qualche utilità. Attraverso il modello dell’utopia si può intervenire sugli ingranaggi dell’ordine esistente per ingrassarli e farli girare meglio: è lo sfondo dell’immobilismo riformista. Tutt’altro è il mito. Il mito è una totalità d’immagini afferrata intuitivamente che muove all’agire creativo. Il mito, cioè, è il motore dell’azione umana che pone un ordine nuovo[2]. Scrive il Nostro: “Noi non saremmo capaci di agire se non uscissimo dal presente, se non ragionassimo su questo avvenire che sembra condannato a sfuggire sempre alla nostra ragione. L’esperienza ci prova che le costruzioni di un avvenire indeterminato nel tempo possono possedere una certa efficacia…allorché siano di una certa natura; ciò che si verifica quando si tratta di miti nei quali si ritrovano le più forti tendenze di una classe, che si presentano allo spirito con l’insistenza degli istinti e danno un aspetto di piena realtà a speranze di azione prossima sulle quali si fonda la riforma della volontà”.

Allora, il punto reale del marxismo è il suo essere un mito, quel mito che è lo sciopero generale proletario, solo questo conta. Ad esempio, Sorel, che si considererà sempre marxista, riconosce apertamente che la divisione marxiana della società in due gruppi profondamente antagonisti – la borghesia e il proletariato – è una “tesi dicotomica spesso combattuta attraverso l’osservazione empirica”. Deve forse dedursene che il marxismo non serve più a nulla perché evidentemente non è una scienza? Al contrario per Sorel, con la tesi dicotomica “Marx intende farci capire che tutta la preparazione del proletariato dipende unicamente dall’organizzazione di una resistenza ostinata e appassionata contro l’ordine di cose esistente”. Che è come dire: il valore della dicotomia è nel suo essere un mito che promuove la rivoluzione, non il suo essere una descrizione, e tanto meno una previsione, scientifica. Il socialismo è tutto racchiuso nel mito, nel senso che il socialismo, nella sua totale opposizione allo stato di cose presente, è figlio dell’azione creatrice che si materializza attorno al mito e per suo tramite.

 Dunque, il socialismo è istituito da un agire creativo reso possibile dal mito della violenza proletaria. Sorel, però, nell’arrischiarsi a elevare la violenza a mito creativo, circoscrive la nozione di violenza. Non è forza e non è brutalità.

Non è forza giacché la forza è intesa da Sorel come propria degli atti d’autorità, non produce novità, non crea, conserva l’ordine gerarchico esistente, può, al massimo, ri-assemblare gli elementi presenti nella società, sostituendo una certa minoranza dominante con un’altra. Così legge Sorel la Rivoluzione francese, influenzato – sembra – dalla tesi del Tocqueville de L’Antico Regime e la Rivoluzione circa la perfetta continuità tra Rivoluzione e Antico Regime nel rafforzamento del potere statale.

La violenza, poi, non è brutalità perché non è un semplice regresso alla condizione bestiale; non ha, infatti, un contenuto né immediatamente né esclusivamente materiale. Certo, essa ha anche un contenuto materiale, ma non è questo a caratterizzarla. Sorel esplicitamente afferma che la violenza proletaria non è un bagno di sangue, non è il Terrore giacobino; dal punto di vista materiale la violenza è tutta una questione di limiti, è il minimo che serva, anche se non è chiarito – né sarebbe possibile data la sua natura di mito – quali siano questi limiti.

Veniamo a quel che la violenza è. La violenza, in opposizione alla forza, è atto di ribellione, non conserva, né assembla, ma distrugge l’autorità e simultaneamente crea l’ordine nuovo. È distruzione creativa, in cui lo sradicamento del Vecchio è l’istituzione del Mondo Nuovo. La violenza è primariamente lo star saldi nel “No!” al compromesso, nella scissione nei confronti dell’ordine borghese; dunque la violenza è in primis un atto psicologico-morale, la fedeltà a sé fino all’estremo, il non fare un passo, qualunque sia la conseguenza: “La violenza, secondo me, è una dottrina intellettuale, è la volontà dei cervelli poderosi, che sanno dove vogliono andare” (Sorel, Lenin, C. Valori, a cura di). Si intuisce qui il senso morale della violenza soreliana: è l’istinto e lo sforzo di stare all’opposto rispetto al do ut des, il coltivare o il custodire la capacità di agire al meglio senza altro scopo che l’agire al meglio, di perfezionarsi sempre senza altro fine, di condurre la lotta continua per essere sempre meglio se stessi. Questa morale di Sorel è tensione eroica, al sublime, che ricorda lo sforzo dell’Io fichtiano. È il disinteresse, che non fa calcoli, che si erge contro il compromesso, a cui sempre devono tornare i conti. La violenza è il custode di questa morale, che Sorel chiama “morale dei produttori”, è ciò che salvaguarda la separazione proletaria e, quindi, la purezza della “morale dei produttori”, la quale è, insieme, titolo di legittimità, dunque prerequisito, della rivoluzione proletaria e suo risultato: “Il progresso morale del proletariato è necessario quanto il progresso materiale delle attrezzature, per portare l’industria moderna al livello più elevato…se il mondo contemporaneo non contiene in sé le radici di una nuova morale, che cosa diverrà?”.

Agli occhi di Sorel la rivoluzione proletaria incombe sull’ordine borghese come “catastrofe morale”, prima, e ben più, che economica. Per Sorel Marx stesso è da considerare soprattutto un pensatore morale, sebbene ciò possa avvenire solo contro Marx, o – ed è quanto sostiene Sorel – almeno contro la sua lettera. In effetti, posta la rivoluzione come fatto morale, non è chiaro quanto consapevolmente Sorel dica Marx, ma intenda Proudhon.

 Infine, per concludere e richiamare brevissimamente quanto si diceva in apertura, poche parole sull’attualità di Sorel. Paradossalmente, ma non troppo, anzi a me pare sia il punto dell’intera cultura umanistica e specie storico-filosofica, essa consiste nella sua inattualità. A noi, immersi nella weberiana “gabbia d’acciaio”, tornati a una sorta d’Antico Regime ideale – l’assenza di un orizzonte altro, che non sia in partenza un puro gioco di fantasia, mera utopia buona per riforme e riformine --, deve giovare sapere che è stato possibile pensare con forza un tale “spirito di scissione”, ricordare che si è saputo che la vita sociale, e quindi sindacale, è un atto creativo. Magari Sorel esagera in questa prospettiva, al modo dell’adolescente che pretende di rifare il mondo, ma almeno è libero di cuore e, poi, si sa melius abundare quam deficere.



[1] Apparse nel 1906 in forma di articoli su Le mouvement socialiste e poi in volume nel 1908.

[2] Scrive Sorel: il mito è “un insieme di immagini capace di evocare in blocco e per mezzo della sola intuizione la massa dei sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal socialismo contro la società moderna”