martedì 7 febbraio 2023

Storie che curano

 


Quando si lavora, si entra spesso nella prosa dei rapporti di produzione ma, pur nella fatica e nell’impegno quotidiano, non mancano la poesia dell’umano e qualche motivo di orgoglio. Ne ho fatto diretta e felice esperienza oggi quando al Gonzaga è arrivata la dottoressa Patrizia Vergani a parlare del delicatissimo tema dell’aborto. Banalizzato, politicizzato, strumentalizzato, l’aborto rimane uno spartiacque di civiltà. È la civiltà che si confronta con una questione di vita o di morte, cioè il dilemma più grande e tragico per l’uomo. Nessun eufemismo è qui ammesso e nemmeno le delicatezze politicamente corrette, spesso farsesche e mai adeguate alle cose grandi (eh già, l’immenso problema dell’uomo vede protagoniste, nel bene e nel male, le donne!). Patrizia Vergani ce lo ha presentato nella sua autentica dimensione. Questa la sua grande, magnifica abilità. Non ha però costruito un discorso concettuale, come avrei fatto io, ma ha messo assieme racconti. La vita che illustra se stessa, sine glossa, con la sola forza di una narrazione che rende effettiva e vivente la nostra straordinaria capacità di empatizzare con gli altri, di rivivere l’altro in noi, fino a commuoverci e piangere dei suoi dolori o esultare delle sue gioie.

Delle tante storie che ho sentito dico quella che meglio ricordo. Potrei intitolarla l’Assurda fede della vita. Due mamme: entrambe sono destinate a veder morire il loro bambino, per una gravissima malformazione. Un dilemma per entrambe: “Abortisco o porto a termine la gravidanza?” Una di loro decide di partorire un bimbo che vive cinque minuti. L’altra abortisce. Costei, tragedia nella tragedia, è afflitta da un handicap che rende molto difficoltose le normali relazioni per mezzo della parola. I parenti, la comunicazione, una serie di circostanze l’hanno condotta alla scelta di anticipare l’inevitabile. Ma poi per una fatalità, le due si incontrano, si “parlano” in qualche modo, si comprendono a gesti. L’una viene a sapere della vicenda dell’altra. Per chi ha interrotto la sua gravidanza il dolore è lancinante. Non ci viene spiegato il perché, ma tutti lo capiamo e nemmeno qui è necessario dirlo. La dottoressa incolpevole viene tirata per il camice mentre passa nel corridoio del reparto: “Perché non me lo ha detto?” sembra voler significare con il suo sguardo disperato. “Perché non ho fatto come lei?”. Non c’è modo di farle capire che la dottoressa ci aveva provato, invano … e non c’è modo di tornare indietro…

Assurdo si direbbe. L’assurda fede della vita: la vita vuole seguire il suo corso, aspira a consumare fino in fondo il suo destino e si ribella quando qualcuno si mette di mezzo, pur con tutte le ragioni e con tutte le raffinatezze di un coltivato esprit de geometrie. In fondo nessuna delle due donne potrà mai crescere il proprio bambino. Che cosa cambia? Scherzi della morale del risultato e dell’utile! Guardare all’utile è razionale ma spesso insensato. Per una donna avere un figlio non significa produrre qualcosa. Essere legati al risultato come l’operaio al pezzo o il professionista alla prestazione. Un bimbo non è una protesi di cui disfarsi se non funziona, non è un violinista malato che per nove mesi si attacca al tuo corpo, parassitandolo, come direbbe la teorica dell’aborto, Judith Jarvis Thomson. Avere un bimbo significa poter amare qualcuno, e amare qualcuno significa realizzare tutte le sue possibilità, cioè tutto il suo bene che è tutta la sua vita. Quindi curare nel più vasto senso del termine. La donna, che non ha avuto suo figlio anche solo per pochi minuti fra le sue braccia, rimprovera l’incolpevole medico di non aver potuto amare e curare la vita che portava nel grembo. Questa è tutta la sua tragedia.

Qui finisce la storia. Non è un fine lieto. Ma esprime fino in fondo la bellezza dell’essere di tutti i suoi protagonisti. Anche nell’errore, nella disperazione, nella rabbia e nell’impotenza, splende la vita oltre ogni ragione. La vita quia absurdum.

Oggi ho ascoltato diversi racconti. Ho visto altre radure illuminate dal sole, pur dentro vicende di dolore infinito. Narrare è efficace, potente e trascinante. Addirittura, è una forma di medicina che si associa a quella tradizionale, quella dei bisturi e dei farmaci. Per sua virtù ci si cura anche dalla tentazione di ideologizzare l’aborto, di farne il pretesto per affermare un a-priori sul mondo: quando libertà, diritti, emancipazione diventano astrazioni roventi sulla pelle dei più deboli. Le donne protagoniste dei racconti di questa giornata importante potranno a loro volta raccontarsi ad altre donne, o ai loro mariti, o ai loro nipoti, in pubblico o in privato. Ci sono luoghi adatti e persone che sanno ascoltare, come la dottoressa Vergani. Noi e loro siamo pazienti che hanno bisogno di trovare “nuove possibili connessioni tra malattia e vita quotidiana, trame di senso per riuscire a rivedersi, ricomprendersi e riprogettarsi in una rinnovata versione della propria storia e della propria identità”, come si dice alle frontiere ancora da esplorare e indagare della medicina narrativa[1]. Per ora sappiamo che per ogni romanzo che recita l’adagio “Io uccido”, ci sono migliaia di trame diverse pronte ad essere raccontate. Ogni donna e ogni uomo, nei drammi dell’esistenza di ciascuno, possono scriverne di grandi. Grandi storie nobili da opporre ai lacci di ogni piccola storia ignobile che ci tenta con le sue seduzioni [2]. Storie migliori, storie belle, storie che curano.



[1] La medicina narrativa è un orientamento recente che intende prendersi cura del paziente in tutte le sue dimensioni, favorendo, mediante la possibilità di ricostruire i propri percorsi biografici, la relazione con i medici, la partecipazione consapevole ai processi terapeutici, l’individuazione del senso della propria vicenda anche attraverso lo sviluppo di attitudini riflessive e metadiscorsive.

[2] Alludo a una canzone di propaganda del cantautore Francesco Guccini. Egli, non senza autenticità di ispirazione, racconta la vicenda “triste” e “ignobile” di un aborto clandestino, dentro il clima di una crudele ipocrisia benpensante e borghese, in cui alla colpevolizzazione moralistica della sessualità e della donna, segue contro di lei la pratica violenta di una procedura in cui ciò che conta sono le apparenze e la reputazione di soggetti che per nulla si interessano di lei e della sua sofferenza. Il problema sembrerebbe qui la clandestinità. Poi si è scoperto che anche le storie di aborti liberi, gratuiti e garantiti dallo Stato sono molte volte piccole storie ignobili.

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2 commenti:

  1. Bellissimo pezzo, Massimo. Soprattutto autentico e profondo il sentimento che l'ispira.

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  2. Grazie Massimo edificante per una visione vera e positiva della realtà. Lo diffondero' ai miei amici.

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