lunedì 27 febbraio 2023

La lezione normale

 


La chiamano oggi “lezione frontale”, ma è la lezione tout court. Si svolge da secoli con un maestro che parla e alcuni uditori che si disciplinano all’ascolto, che cercano di comprendere, che fanno domande a se stessi, agli altri, al maestro. È una situazione di scambio, dove si lavora con la parola, con lo sguardo, con la penna e il foglio. Qui l’attenzione e la memoria sono chiamate in causa. Qui ci si sforza e si lavora. Non mancano possibilità di esercizio, di azione. C’è sempre una teoria, una prassi e una poiesi: pensare, comportarsi, produrre risultati in questo esatto ordine. La classe dove si svolge la lezione è un microcosmo di anime, relazioni, vite che si incontrano e si scontrano, non a caso, non secondo una lotteria assurda della vita e dell’ordine alfabetico, ma secondo la ragione del fine, dello sforzo per un obiettivo di crescita. Lo scopo esistenziale, la formazione della figura umana eticamente delineata, si raggiunge mediante la cultura e nella cultura. Ci sono altri modi per crescere? Sì, ma la lezione è quello che privilegia la cultura, perché la cultura coltiva. Le piante selvatiche crescono lo stesso, ma in modo disordinato, sparso, irrazionale, raramente bello… Certo la foresta ha una sua bellezza, ma il giardino è l’endecasillabo della natura e dell’uomo. I cieli suonano, ma il compendio della loro musica è in Bach e Beethoven. Quindi: teoria, prassi poiesi.

La lezione è un theorein che avviene anzitutto nella traduzione della parola pensata in parola espressa, e nella ritraduzione della parola ascoltata in parola pensata. Induzione e generalizzazione, deduzione e particolarizzazione, analogia, similitudine, confronto, rappresentazione, immaginazione. Non semplice comunicazione, ma appello all’insieme dell’anima perché faccia funzionare le sue facoltà, che sono chiamate a lavorare all’unisono per cogliere il senso di un discorso, afferrarlo e abbracciarlo con la propria interiorità. E dentro si reagisce, mentre non si capisce qualcosa, mentre si approva, si disapprova, si cercano ragioni e ci si stupisce di trovare nel dialogo dell’anima con se stessa mondi imprevisti e inesplorati, che si fanno via via più chiari, man mano che le nebbie della complessità si diradano fino alla massima chiarezza possibile, fino all’assenso catalettico con cui la mano dello studente si chiude in un pugno di possesso. O si reagisce con la rabbia per qualcosa che rimane esterno, pietrificato, morto nelle parole che cadono rumorosamente non centrando il bersaglio, e vanno in frantumi insieme alla magia della comprensione. La relazione con il maestro è sempre emotiva e insieme razionale e passa dall’essere una risposta davanti alla persona all’essere una risposta davanti alla cosa. Nella lezione ci si dirige alla cosa stessa mediante la persona e si impara a rivedere la persona e se stessi mediante la cosa stessa. Zu den Sachen selbst, verso le cose stesse: un senso del mondo che non è soggettivo ma che coinvolge il soggetto. Perché il soggetto è lì davanti a te, insieme a te: quello impegnato nel porgerti la materia del sapere, perché tu sappia dar la sua forma e quello impegnato con te nell’impresa di conoscere e riconoscere.

La teoria è anche una prassi: ascoltare non è solo capire ma obbedire, cioè saper rinunciare al proprio capriccio mettendo davanti gli altri, le altre cose, l’altro mondo in cui ti è chiesto di entrare, piuttosto che la comoda ripetizione del tuo. Obbedire non si può senza udire. È un’ulteriore forma di ritraduzione della parola, ma non più in sole rappresentazioni, bensì in rappresentazioni e comportamenti. Già si accede dal bene compreso a quello realizzato: subito, lì, nella compagnia che è la classe, nella universitas della comunità dei discenti e dei docenti che forma la classe. Si ascolta, si capisce, si obbedisce, ci si comporta immediatamente con gli altri. Essere è mit-sein, con-essere. Nella lezione la parola circola, attraversa più anime che però stazionano nello stazionare dei corpi l’uno accanto all’altro, nel loro giacere, nella loro stessa compostezza reciproca, che determina una forma riflessiva e consapevole di relazione umana. Ci sono i discenti, che sono compagni di classe, c’è il docente che ha una relazione con tutti e ciascuno e c’è la postura attraverso la quale la parola viene comunicata e recepita e la postura non è un caso, ma è un ethos. La classe abita nella sua postura, come nel bene che permette il fiorire dell’anima di ciascuno e come nel bello di un ordine interno che permette all’azione spirituale dell’insegnamento di realizzarsi mediante i corpi e le presenze fisiche.

La poiesis è infine il risultato. Il risultato non si determina mediante un semplice prodotto esterno (a volte anche), ma attraverso il sapere. Sapere è un verbo che andrebbe declinato senza sostantivizzazioni. Forse un gerundio per indicare il divenire di qualcosa, il suo svolgimento, il suo dipanarsi dalla potenza all’atto; forse un congiuntivo per indicare l’obliquità di un’azione labirintica, di un viaggio nella complessità, ma anche una dimensione utopica, ottativa ed esortativa. Sapere è un sapendo e un sapessi. Perché ogni lezione è sempre un processo che si interrompe sul più bello, è sempre troncata, ma è sempre capace di alludere all’al di là da sé, al mondo che sta oltre e che sarà oggetto della lezione successiva.

Una lezione non ha dunque bisogno di essere completata se non da un’altra lezione. Nessuna falsa esperienza, nessun banale fare, che rimane sempre l’esecuzione di una compito nell’ipocrita veste di una “libera” attività. Nessuna fantasia e creatività che non si insegnano e all’ombra delle quali si propongono strategie da altri preparate per credere di scoprire ciò che altri hanno già scoperto. Nessun lavoro applicativo da prevedere: la lezione non è funzionale a nulla se non alla forma.  Solo forma, solo dare un ordine a sé e alle cose perché quest’ordine lo si riceve nel profondo e dopo averlo ricevuto si diventa capaci di criticarlo. L’umiltà della forma, che ha un suo peso, che rimane attraverso la fatica del governare sé, i propri impulsi, i propri desideri mediante il continuo indefesso e impegnativo esercizio della ragione.

La lezione è una celebrazione fiduciosa e festante del logos, discorso, pensiero, ragione. Anche quando è venuta male, anche quando lo studente non ascolta o l’insegnante balbetta, anche i suoi tentativi falliti testimoniano la grandezza a cui tende, come il lapsus del linguaggio rivela profondità autentiche, benché incapaci di trovare espressione.

Non c’è alternativa alla lezione. Non la lezione frontale (come fosse un banale e dannoso incidente: non ce la contate mai giusta, cari pedagoghi del nulla!), ma quella secondo la sua norma alta. La lezione normale.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

5 commenti:

  1. Nella postura del docente c è anche quella delle due labbra e dell'apparato mascello-mandibolare, in altri termini la manducazione della parola.

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  2. Interessante, ma non sono troppo d'accordo. Ho fatto superiori più o meno normali, ma che ho interrotto presentandomi a maturità da privatista per seconda e terza classico non solo per problemi di agibilità, ma anche per una certa insofferenza proprio sulla metodologia didattica. Dopo di che ho fatto giurisprudenza, economia e commercio, un master di diritto aziendale, recentemente e per svago un dottorato di ricerca in filosofia, e nel frattempo sono passato dall'altro lato della cattedra, sempre in ambito universitario, per lo più in master di secondo livello ma anche per un corso nella biennale/specialistica di scienze politiche, economiche e sociali. In questo percorso, è stata davvero frustrante, e infatti immediatamente abbandonata a favore di uno studio puramente libresco che non mi ha impedito di ottenere le mie lodi, l'esperienza di un emiciclo con 400 studenti e un tizio su un podio con un microfono che ripete tediosamente e pressoché verbatim il contenuto del libro di testo da lui stesso scritto - il che poi è quello a cui si riduce la famosa "lezione" di cui si parla qui. Rispetto a questo, penso che negli ultimi cento anni sia di gran lunga più comodo e produttivo compulsare semplicemente il libro stesso, e piuttosto affiancarlo con altre fonti o riflessioni personali, e negli ultimi dieci o venti - se sei un analfabeta di ritorno - guardarsi semplicemente e navigare avanti e indietro il video in cui può essere registrata la lezione suddetta la volta che è venuta meglio. Come docente, cerco così nei limiti del possibile di evitare sistematicamente le "lezioni" nel senso sopra descritto, che tra l'altro non sono *affatto* tradizionali, dalla maieutica platonica alla didattica della scuola di Bologna, dell'educazione tramite precettori alle esercitazioni militari alla formazione interna negli studi professionali e negli ospedali o nella bottega dell'artista.

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  3. La lezione è un modo di interpretare la relazione pedagogica. Un modo immediato, economico, tradizionale, razionale, fondato su relazioni, corpi, sguardi, e soprattutto un modo che pone al centro il contenuto del sapere e richiede uno sforzo linguistico, ermeneutico, intellettuale, morale. Sotto questo punto di vista non è superabile. Almeno sotto il profilo delle alternative adombrate dalla pedagogia contemporanea, la lezione non teme confronti. Infatti la lezione è contrapposta al saper fare, all'"episodio di apprendimento", alla rapsodia dei pretesti di addestramento alle competenze, al nursing costruito attorno al nulla delle soft skills, al degrado culturale delle pedagogie democratiche dell'indottrinamento di gruppo, al egualitarismo straccione del debate e dell'insegnante facilitatore, al neo calvinismo della sostituzione del sapere con la militanza morale, all'emotivismo della scuola-spa del benessere e del massaggio intellettuale. La lezione è l'alterità radicale da tutto ciò. Poi uno può avere esperienze negative. La ragione è semplicemente questa: non c'è un metodo che risolve tutto. Il bene della lezione è proprio quello di non essere concepita come la chiave che apre tutte le porte, ma di lasciare in ultimo la parola all'uomo e al suo sapere. La radice antropologica della cultura affonda nella terra della lezione, il resto è sistema, collettività, organizzazione, efficienza, meccanismo al cui orizzonte si staglia il mostruoso nichilismo di qualcosa che vige perché vige...

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  4. Se invece del ricorso a dubbi sperimentalismi della pedagogia contemporanea però ti sottoponessi il metodo platonico? Almeno in alcune circostanze può essere adottato benissimo anche oggi, ma è solo un esempio, eh, ce ne sono anche altri. Per esempio, in molti campi la didattica orientale mantiene più della nostra la tecnica consistente nella immediata imitazione e ripetizione di ciò che l'insegnante fa o dice davanti a loro. Il modo di studiare retorica, diritto o persino teologia nel rinascimento consisteva in parte significativa nell'assegnazione di temi da parte del docente e nella critica più o meno costruttiva del modo in cui lo studente riuscisse a produrne uno svolgimento, talora difendendolo contro un altro studente o un docente diverso - un fossile di questo sistema lo conserviamo ancora, almeno teoricamente, nella tesi di laurea o di dottorato...

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  5. La dialettica platonica è certamente una grande risorsa. Ma questo non significa che la lezione non possa essere dialettica. Effettivamente il metodo delle università medioevali integra il momento della lectio con quello della disputatio che riprende esattamente la forma della discussione dialogato degli antichi. I medievali disputano secondo il "sic e il non" (cfr. Pietro Abelardo) che è l'attualizzazione dei dissoi logoi sofistici, ampiamente ripresi da Socrate e Platone. Ma come Platone si preoccupa di trasformare la disputa sofistico-socratica in metodo metafisico, allungando il discorso e dimenticando la polemica con Protagora, i medievali si piccano di determinare un contenuto del confronto dialettico al di là della provocazione estemporanea, perché esso è estratto da un fondamento vero, la Scrittura o i Padri (la cosa ti piacerebbe perché saresti portato vedervi una sistematica decostruzione del logos religioso: dal brano della Bibbia o dei Padri alla sua interpretazione infinita secondo proposizioni disgiuntive argomentate nel contraddittorio dialettico ... solo che poi il maestro risponde risolvendo la lotta e dando ragioni anche per la parte avversa). Come Platone presuppone la synagoghé (diremmo la visione intuitiva dell'essenza) alla diairesis propriamente dialettica (cioè l'articolazione dicotomica delle idee per opposizione e contrarietà, così come è realizzata, per es., nel Sofista e nel Politico), anche i medievali cercano di superare il metodo per il metodo, offrendogli un fondamento nella Rivelazione, e al tempo adesso uno sbocco di verità (l'intelligenza della fede). Il problema in sostanza è che la discussione deve essere discussione su "qualcosa" e attorno a "qualcosa". E il momento elenctico (la confutazione della tesi avversaria) non può essere fine a se stesso, come nella sofistica (e nell'Accademia scettica), ma dev'essere funzionale alla determinazione della realtà nella sua totalità articolata. E proprio perché la realtà è una totalità articolata, essa è dialettica e si dice dialetticamente. Ma se la discussione nei dialoghi platonici contiene diverse lezioni, allo stesso modo la lezione implica la discussione, senza che vengano meno tutti gli elementi sottolineati nel testo. D'altronde è esperienza quotidiana ad indicare le lezioni meglio riuscite in quelle aventi carattere dialettico. Dialettico per la complessità dell'esposizione, per la profondità della ricezione, e infine per l'espressione di tale complessità nella possibilità di una discussione che esplicita e risolve più o meno definitivamente (ma mai del tutto) il sic et non del discorso sulla cosa stessa.

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