I fondamenti
La gastronomia soffre oggi di due
malattie:
1) la porneia televisiva che espropria il gusto e l’odorato in favore
della vista e dell’udito; che riduce l’arte della cucina, e la sua esigenza di
tempi, attenzione e dedizione sereni, in
competizione sguaiata dove prevale l’ansia da prestazione e la necessità della
sua misurazione quantitativa … dove c’è classifica e non classe;
2) l’edonismo crasso, ignorante e
materiale che insegue il piacere dei sensi come godimento aleggiante
sull’abisso di un nulla di valori, di cultura, di distinzione spirituale. Il
cibo rilucente, iper elaborato, raffinatamente scarso, stucchevolmente decorato
e impiattato dipende dall’appeal sociale
e lo mescola con l’illusione della funzione emancipatrice e terapeutica
dell’abbondanza, oppio dell’angoscia, morfina del pungolo psichico, anestesia
del senso interno.
Di fronte alla deriva dello chef stellato e stellare che pretende di
guarnire la propria pochezza con misere salsine colorate, bisogna ricorrere
all’arma della critica. Intanto si potrebbe notare che la grandezza dell’uomo
in cucina si avverte non appena esce dalla cucina. L’uomo fa grande il cuoco e
non viceversa. E nella grandezza dell’uomo sta quella dose di umile
consapevolezza che gli fa esercitare il potere derivantegli dalle sue abilità
con misura, temperanza e saggezza. Ovunque nella vita - insomma - egli cerca lo stile, sapendo che mai nessuno
può dire di possederlo veramente … poiché ciò è indice della sua mancanza.
Di fronte alla corsa al lusso e
alla moltiplicazione delle ricercatezze, si dica che l’esclusività che ciò implica
è il contrario del principio del nutrimento e della varietà. Un modo di
prelibatezze è meno prelibato di un mondo dove le prelibatezze convivono con la
quotidiana semplicità del cibo e della bevanda che si limitano a calmare la
fame.
Di fronte all’esclusivismo
alimentare che travalica i confini delle incapacità e dei disturbi fisiologici,
bisogna affermare che l’unica nutrizione etica è quella che accetta tutto
quello che viene messo nel piatto, come san Francesco comandava ai suoi
seguaci: dai biscottini di donna Jacopa fino alla minestrina sciapa
dell’ospedale, tutto accolto con gratitudine, tutto buono per chi ha fame.
Rispettare chi ha fame è l’unica etica che si addice all’uomo che ha smesso di
patirne i morsi.
Eppure bisogna godere. Una vita
dedita all’intelligenza senza un po’ di piacere nessuno la sceglierebbe, dice
Platone. Ma i piaceri senza intelligenza caratterizzano “la vita di un
mollusco, non di un uomo” (Platone, Filebo
21c). E il piacere è piacere, benché possano a buon diritto essere distinti
piaceri naturali, necessari, non naturali, non necessari (Epicuro), o piaceri
veri e piaceri falsi (Platone), o piaceri catastematici, calmi sereni regolari,
e cinematici, intensi, violenti, imprevedibili (Epicuro), benché la vita
estetica sia pur’essa ricca di seducenti sfumature, contrappunti, variazioni. A
tavola non vale l’ascesi, come a calcio non valgono le mani: è una regola del
gioco.
Eppure bisogna godere
disattivando la rincorsa della sensazione, l’abbaglio della ripetizione, la
promessa della liberazione. La sobrietà del godimento non sta però nella
diminuzione della sua intensità e durata ma nella disattivazione della sua
pretesa di centralità. Non ci sono “ricette”, ma forse è possibile
marginalizzare la cucina nella forma del capriccio, del divertissement, dell’occasionale, della leggerezza svolazzante
allegra nelle periferie della nostra vita.
Come l’arte si è emancipata dal
dovere della bellezza, snaturandosi nella capricciosa insensatezza
dell’happening o nella povertà estetica del mezzo pubblicitario, così la gastronomia
si deve liberare dal dovere di rappresentanza di un certo (dis)valore: la
competizione, la distinzione sociale, la fama, il consumo, la democrazia,
l’ecologia, la modernità e chi più ne ha più ne metta … rinunciando a essere
portatrice di significati che la sovrastano … per fare kenoticamente spazio a
ciò che sta più in là e più in alto. L’arte tornerà grande smettendo di rinunciare a sé, la gastronomia sarà arte
solo rinunciando a sé, alle sue illusioni, decostruendosi come disciplina e
reinventandosi come gioco (perciò questo è un manifesto semiserio). Un gioco
che esce dalla sensatezza verso il non-senso del piacere senza interessi e
ideologie, che proprio essendo uscita dalla sensatezza la presuppone e la
implica.
La cucina come pretesto per
altro. La cucina come metafora che si costruisce sulla sostanza più vera del
reale. La cucina come linguaggio della diversione. La cucina come differanza.
La cucina ermeneutica del marginale. La cucina come vocazione perimetrale.
La tavola come occasione: è
risaputo quello che conta è la relazione umana. Magari anche la sapienza … che
è sempre dialettica, cioè nasce nel dialogo. Il dialogo a tavola è deipnosofia …
e non è sapienza leggera e frivola, ma si nutre della leggera frivolezza del
gusto per liberare l’intelligenza dai pesi della vita e consentirle l’accesso
ai grandi spazi e all’aria pura.
Alcune note tecniche
Del condimento e della grassezza.
Il grasso in cucina è fondamentale. Necessario non è vivere ma ingrassare. Il
grasso è nei cibi la relazione, la proteina la sostanza, il carboidrato la
materia e, purificato e digerito come zucchero, la forma.
Ora, data la necessità di un equilibrio tra tutti, cosa che però è di competenza
dei nutrizionisti, il grasso è la civiltà della cucina perché condisce - cioè
mette in relazione pietanze diverse, attenuando le asperità, sciogliendo,
sfumando talora ed esaltando talaltra i sapori – e cuoce, cioè comunica il
calore, ricevendo a sua volta con il calore i principi saporiti e redistribuendoli
nella pietanza con equilibrio e giustizia. Cuocere senza grassi è come far
correre un magnifico cavallo con l’handicap
… il più delle volte si perde la gara, ma se vinci sei davvero bravo, perché
significa che hai raggiunto con l’arte ciò che normalmente è ottenuto dalla
natura.
Della quantità e della qualità.
In cucina sono entrambi indispensabili. Bisogna opporsi in tutti modi ai
piattini striminziti che fanno solo venire la voglia senza soddisfarla. Sono
donne seducenti che lasciano il vuoto. Sono spiriti senza carne. Sono
evanescenze ingannevoli. Sono kallopìsmata
òrfnes: ornamenti dell’oscurità. Lasciamoli ai pretenziosi, ai ristoranti
di classe ma senza classe, agli "addio
caro", agli "r gorgés" e alle puzze sotto il naso. Per favore fateci mangiare –
benissimo – ma fateci mangiare! Il popolo ha fame, e bisogna riempire la sua
pancia, se anche lo facciamo con le brioches
nessuno si scandalizzerà, purché lo facciamo. Sulla quantità in solitudine
possiamo sorvolare… l’umanità è infatti naturale nemica della pasta in bianco!
Della modalità. Est modus in
rebus. La mamma insegna a stare a tavola, ascoltarla. Quindi su le mani.
Impugnare bene le posate. Bocca chiusa. Niente gomiti sul tavolo. Vino alle
signore. La scarpetta solo in rarissimi casi, quando cioè il sugo lo chiede
imperiosamente ed è peccato mortale lasciarlo nel piatto (in questo caso è
meglio ubbidire a Dio che agli uomini). Finire quello che c’è nel piatto: si
ricordi che l’avanzo è sempre della mala creanza. Non fare gli schizzinosi.
Conversare. Non essere né troppo lenti né troppo veloci. E se si è a conoscenza
di qualche debolezza in questo campo, ascoltare le mogli!
Nazionalismo e internazionalismo.
In cucina, come dappertutto, è cosa buona l’orgoglio nazionale. Ma nemmeno
stonano la consapevolezza regionale e financo il campanilismo locale. Noi siamo
sempre in quanto apparteniamo. Tuttavia la gastronomia è il regno del gusto e su
tutto il gusto domina. Esso è come la musica per la poesia: se la musica qui ha
sempre ragione, là il sapore trascende ogni altra considerazione. Quindi … dall’hamburger
al kebab, dal sushi alla tempura, dall’adobo alla cheesecake, dal bratwurst alle
moules: tutto va bene quando sia fatto bene. Ogni piatto, per quanto umile, se
sia ben eseguito tende alla bontà e adorna la nostra vita.
Disposizione transitoria e finale
Vogliamo dire basta alla
volgarità della recensione: “Cibo fresco, ben cotto, ottimo servizio, prezzo
onesto, da provare!”. Credi di dire tutto e non dici niente. E magari
dimentichi anche qualche apostrofo, litighi con i congiuntivi e fai sterminio
di accenti. Basta! Per descrivere l’esperienza di una buona mangiata, bisogna
in qualche modo elevare le cose dello stomaco e dell’intestino alle altezze del
palato e del cervello. Se no rimane una mangiata. Il buono del gusto è in sé
già un tropo. Dunque per descriverlo è necessario l’uso di immagini, di
metafore. Ci deve essere la qualità estetica di un piccolo racconto. Non si può
dimezzare la lingua. Se la usi per gustare, devi imparare a usarla per parlare.
Non si può assaporare qualcosa senza un linguaggio per descriverla, perché ciò
finirebbe per scindere piacere e intelligenza. Quindi recensire un ristorante o
raccontare un’esperienza gastronomica deve essere oggetto di cura ed esigere
sapienza. La recensione veloce e funzionale è semplicemente sottomessa alle
esigenze di velocità e funzionalità del mercato, che tutto trasforma e rovina
nella logica del consumo e del profitto. Questa è un’autentica, ributtante e
nauseante schifezza. La recensione volgare è l’unico caso che in gastronomia legittima
la parola schifo!
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