mercoledì 23 dicembre 2020

Il Gorgia: retorica, giustizia, bene. Platone cala gli assi della sua filosofia…(e ancora ci sfida a giocare le nostre carte)

 


Il Gorgia è un importante dialogo della prima maturità di Platone, composto verosimilmente attorno 387-85 (Dodds), più o meno all’epoca del suo primo viaggio in Sicilia (389-388). Accanto a Socrate, esso vede avvicendarsi tre personaggi. Il primo è il noto e longevo (480/5-380) retore e filosofo sofista Gorgia di Leontini, autore del famoso Encomio di Elena e dell’altrettanto importante scritto Sul non essere. A lui è dedicata la parte iniziale del dialogo, quantitativamente la più esigua, ma importante in quanto imposta il problema oggetto e filo conduttore della discussione: qual è il senso dell’arte retorica, il suo rapporto con la giustizia e più in generale con il valore etico? Una volta avviata la conversazione, sarà il giovane retore Polo, anch’egli siciliano di Agrigento, a portarla avanti con impeto giovanile, ma con minor rigore teorico. Mentre con Gorgia, Socrate deve convenire che vi deve essere una qualche relazione tra la retorica e la giustizia, con Polo può esprimere quella che appare realmente la sua opinione: la retorica è una tecnica di seduzione essenzialmente amorale, che non dà né potere né felicità. Però nei tribunali, essa potrebbe essere posta al servizio della giustizia per liberare, mediante la pena, l’ingiusto dalla sua colpa. In questo caso potrebbe avere una certa utilità. L’ultima e più cospicua parte del dialogo vede Socrate incrociare le armi con l’agguerrito Callicle. Di lui non si sa niente eccetto quello che lo stesso dialogo ci dice - apparteneva al demo di Acarne, a nord di Atene; aveva una relazione con Demo, figlio di Pirilampi, fratellastro di Platone; aveva altri amici noti ad Atene. La sua presenza esclusiva nel Gorgia ha portato alcuni a pensare che Callicle sia un personaggio fittizio, cosa ben strana in un Platone non uso a introdurre simili stratagemmi letterari nelle sue opere, normalmente popolate di personaggi storici e ben conosciuti. In ogni caso, Callicle è il più radicale degli interlocutori di Socrate e arriva a sostenere la tesi nietzschiana secondo cui la legge è lo stratagemma dei più deboli per imbrigliare i più forti e la moralità è una forma di pensiero meschino. Questo per sostenere una più profonda legittimità della retorica, proprio in quei punti che invece Socrate considerava più problematici: la possibilità di argomentare indifferentemente per il giusto e per l’ingiusto e le sue virtù seduttive in grado di trascinare le persone, ingannandole, dove il retore o il politico desiderano condurle. Di fronte a ciò, Socrate argomenta invece a favore di una netta distinzione tra il bene e il piacere e della superiorità del primo. A tale superiorità è connessa una nuova perorazione della giustizia, che riprende l’argomento secondo il quale è meglio subire ingiustizia che commetterla. Si tratta di un punto di vista di fondamentale importanza per una più precisa elaborazione e argomentazione dei principi etici della filosofia platonica, in chiave fortemente anti-sofistica. La retorica, coerentemente con tale posizione, si può salvare solo se legata alla giustizia e al bene, che sono elementi assai diversi dal piacere e dalla soddisfazione del desiderio. Socrate anticipa che non crede molto alla possibilità che di fatto tale disciplina venga così interpretata e sviluppata da coloro che la praticano. Tuttavia, alla fine del dialogo, lascia aperto uno spiraglio, proprio in funzione della sottolineatura, contro Callicle, del primato della virtù che, quando presente, redime anche discipline di per sé ambigue. Analogamente alla definizione di giustizia come ordine, armonia e misura sia tra gli uomini sia tra le parti dell’anima, anche il mito escatologico sul destino delle anime dopo la morte, trattato in conclusione, contribuisce a fare del Gorgia un testo che anticipa temi fondamentali della complessiva filosofia di Platone, che saranno sviluppati e approfonditi nella Repubblica (dove è da notare anche l’evidente parallelismo tra la figura di Trasimaco e quella di Callicle, cosa che evidenzia il medesimo intento polemico contro lo spregiudicato amoralismo dei sofisti).

È inutile sottolineare quanto i discorsi del Gorgia ancora coinvolgano la nostra sensibilità. Siamo oggi collocati, nostro malgrado, nella società e nel tempo della postmodernità liquida, orientata al godimento superficiale e al piacere transeunte. Callicle ci fa notare che è necessario assumere tale orientamento in maniera radicale e coerente. Se bisogna essere amorali, lo si sia fino in fondo … se godimento deve essere, lo sia in modo profondissimo; se piacere deve essere lo sia fino alla propria consumazione: questa grandezza ha colto Nietzsche. Siamo a mille miglia dal pensiero deboluccio della fluttuazione insulsa tra i luccichii delle vetrine del centro: le passioni hanno un massimo e ti sfidano a praticarlo…vediamo se ne hai il coraggio, dice Callicle. D’altro canto, ciò vale anche per la virtù: essa non si applica da sola, ha bisogno di uomini per i quali non sia importante vivere, ma come si vive! E non vuole moralisti d’accatto che appellano alla presunta autoevidenza dei valori…ma dell’intelligenza attenta di coloro che li abbracciano con consapevolezza e profondità intellettuale … tutte cose di cui oggi si sente grande mancanza. Sembrerà strano, ma quest’epoca di uomini e regimi senza qualità mette d’accordo le prospettive più distanti: sembra infine che Callicle e Socrate stiano dalla stessa parte quando per loro mezzo si afferma la valenza primaria che in ogni decisione vitale hanno l’equazione personale, la consistenza esistenziale e morale, lo stile di vita, il tipo di persona che si è e che si vuole essere.

Per le notizie qui riportate e per la traduzione italiana del dialogo mi sono riferito all’ottima edizione curata dallo stimato collega Paolo Scaglietti e alla sua pregevole introduzione (Platone, Gorgia, P. Scaglietti (cur.), La vita felice, Milano 2013).

 

 

Socrate-Gorgia

Socrate si è attardato con Callicle e Cherofonte in piazza e non ha fatto tempo a sentire un discorso di Gorgia. Ma Gorgia si esibirà nuovamente a casa di Callicle, così Socrate potrà rivolgergli delle domande, in particolare sull’efficacia della sua arte e su che cosa sia ciò che egli professa e insegna. Gorgia, una volta a casa di Callicle, invita a fare domande, dichiarandosi in grado di rispondere a tutto. Socrate chiede a Cherofonte di domandare a Gorgia chi egli sia. Gorgia afferma che nessuno gli ha mai fatto una domanda il cui contenuto è per lui una novità. 

Si intromette Polo, dicendo che, siccome Gorgia è stanco, è disposto a rispondere lui stesso alla domanda. La domanda è la seguente: “In che tipo di arte è esperto Gorgia?”. Ci sono infatti molte arti che procedono dall’esperienza. L’arte potrebbe essere interpretata come una sorta di organizzazione razionale dell’esperienza che promuove e orienta una vita condotta non a caso. Gorgia possiede l’arte più bella. Questo dice Polo, che tuttavia viene accusato da Socrate di aver risposto da retore, senza esaudire la problematica sollevata dalla domanda, perché non ha detto in che arte Gorgia sia esperto. Sì, è la più bella, ma quale?, dice Socrate. Gorgia interviene sostenendo di essere un buon retore è anche un buon insegnante di retorica. Socrate allora gli propone di non tenere un discorso lungo ma uno breve e di rispondere alle sue domande per approfondire che cosa significhi essere retore. Gorgia accetta, anche se sottolinea che alcune argomentazioni richiedono discorsi più lunghi. Tuttavia, egli è bravo anche nei discorsi concisi. Infatti, la retorica è scienza dei discorsi. Ma quali?, obietta Socrate, anche perché tutte le scienze in generale usano discorsi.

 Per Gorgia la retorica prescinde dall’attività e dall’oggetto delle singole arti, per esempio medicina o ginnastica, e si concentra sull’efficacia verbale. Ci sono infatti arti che fanno uso sistematico della parola, ma non si risolvono nella parola stessa, bensì hanno un oggetto specifico, come per esempio il pari e dispari per la matematica o la salute per la medicina, o gli astri per l’astronomia. La retorica, invece, si risolve essenzialmente nella parola, e i suoi discorsi hanno per oggetto quelle che Gorgia chiama le più grandi fra le cose umane e le più nobili. Socrate obietta che anche la medicina o la ginnastica possono rivolgersi a oggetti e contenuti importanti. Qual è dunque il grande bene di cui la retorica è artefice? Esso, dice Gorgia, è “la causa per cui gli uomini sono liberi e al tempo stesso per cui ciascuno riesce a dominare gli altri nella propria città”. Insomma, si tratta della persuasione in campo pubblico e politico, nelle assemblee in cui, per mezzo della parola, si tengono in schiavitù tutti gli altri, anche il medico, anche il maestro di ginnastica e tutti gli esperti nelle diverse arti. Allora Socrate domanda che cosa sia la persuasione e su che cosa verta. E poi: la retorica è la sola arte in grado di produrre persuasione? Gorgia conviene all’osservazione di Socrate che anche l’aritmetica persuade sul pari e il dispari, e così le altre arti relativamente ai propri ambiti di studio e e ricerca. Come si differenziano allora dalla retorica? Gorgia dice che la retorica persuade nei tribunali e nelle altre adunanze di folla e che tratta in modo privilegiato i temi del giusto e dell’ingiusto. 

A questo punto Socrate sostiene di voler proseguire nell’indagine con un ulteriore approfondimento e comincia a domandare se Gorgia ritiene che sapere sia lo stesso di credere o se ci sia una diversità tra scienza e credenza-convinzione. Gorgia ammette che la scienza è diversa dalla convinzione, perché non può essere vera o falsa, a differenza della convinzione, benché entrambi - sia quelli che credono sia quelli che sanno - ritengono di essere persuasi. Allora c’è una persuasione che produce scienza e una che produce convinzione. A quale delle due fa riferimento la retorica nei tribunali e nelle piazze? Socrate risponde che la retorica produce credenza e non sapere, cioè non la conoscenza del giusto e dell’ingiusto ma una illusione circa i due suddetti concetti. Questo perché il retore non ha competenze specifiche per le scelte veramente importanti della città. Gorgia, tuttavia, ribatte che i retori consigliano sulle scelte oggetto della politica e i politici non sono tecnici. Insomma, la retorica sarebbe superiore alla tecnica perché orienterebbe le decisioni al di là della tecnica. Infatti, il retore, conferma Gorgia, è più persuasivo del competente di fronte a una folla, benché egli sia chiamato ad un uso oculato della retorica, cioè a non approfittare ingiustamente di tale superiorità. Del cattivo uso di un’arte, d’altro canto, non si possono incolpare i maestri di quell’arte. In particolare, compito della retore non è spogliare i medici e gli altri professionisti del credito di cui godono, ma servirsi con giustizia della retorica per persuadere le folle meglio di chiunque altro. Quindi, conclude Gorgia, è giusto bandire, uccidere, odiare chi della retorica faccia un uso distorto, non chi l’abbia insegnata. Socrate ribatte che in una discussione c’è il rischio che si ritenga che l’interlocutore sia animato solo dalla voglia di vincere e non dalla ricerca della verità. Se Gorgia ritiene che Socrate voglia solo vincere, si smetta di discutere, se no, si vada avanti con la confutazione socratica delle affermazioni di Gorgia, se il pubblico ovviamente, come appare, approva la prosecuzione della discussione.

 Quindi Socrate rileva che il retore persuade davanti a gente che non sa, mentre davanti a chi sa è più persuasivo il tecnico, cioè, si direbbe, l’esperto in una certa disciplina/arte (tèchne). Se si nega ciò, si deve ammettere che la retorica non ha bisogno di conoscere le cose come stanno, ma solo di trucchi per convincere, senza realmente sapere. Insomma, per Socrate il retore, pur non sapendo, escogita un trucco per apparire agli ignoranti più sapiente di coloro che sanno. L’alternativa sarebbe che il retore invece sappia ciò di cui parla e abbia cognizione di causa. Gorgia ribatte che sui temi del giusto e del bene, chiunque non li conosca, andando da lui li conoscerà, e finisce per ammettere che è comunque necessario, per esercitare bene la retorica conoscere il bene e il giusto. Ma, osserva a sua volta Socrate, se chi conosce la retorica deve essere giusto, com’è possibile che uno si serva della retorica in modo ingiusto, come prima affermava il suo interlocutore? Infatti, il retore, se deve conoscere il giusto, non può agire ingiustamente e quindi servirsi male della retorica. Questa è la contraddizione in cui cade Gorgia: prima ammettere che bisogna servirsi della retorica in modo giusto, e bandire coloro che se ne servono in modo ingiusto, e poi affermare che per esercitare la retorica bisogna conoscere il giusto, e quindi implicitamente sostenere che è impossibile per il retore agire in modo ingiusto. Qui finisce il dialogo con Gorgia, con il tentativo, riuscito da parte di Socrate, di riassorbire e annullare l’arte del persuadere nella conoscenza del giusto.

 

Socrate-Polo

Inizia il dialogo con Polo. Polo accusa Socrate di intrappolare le persone con le sue domande fino al punto di diventare scortese. Socrate dice che è disposto a farsi interrogare a patto che Polo accetti suo metodo delle brevi domande e risposte. Quindi Polo comincia col domandare che definizione Socrate darebbe di retorica. Per Socrate non è un’arte (tèchne) ma una pratica (empeirìa) che provoca attrattiva e piacere, come la culinaria non è l’arte del cibarsi, bensì di rendere piacevoli cibi. Insomma, è una forma di adulazione che non richiede vera sapienza ma solo esperienza ed esercizio. Inoltre, appare essere una sorta di spettro di una parte della politica, cioè una sua degenerazione.

Approfondendo, Socrate comincia un discorso sul corpo e sull’anima. Sia il corpo sia l’anima possono apparire sani senza esserlo. L’arte che sanifica l’anima egli la chiama politica, quella relativa al corpo può distinguersi in due parti, la ginnastica e la medicina. In generale, nella politica la legislazione corrisponde alla ginnastica, mentre la medicina corrisponde in politica alla giustizia. La contraffazione adulatoria di tutte le arti e tecniche avviene quando esse prendono di mira il piacere al posto del bene. E questo accade, per esempio, quando la culinaria produce una contraffazione della medicina, non indicando i cibi migliori per il corpo, ma quelli più piacevoli. Allora essa diventa non un’arte ma una prassi irrazionale, così come la cosmesi, quanto al corpo, appare una prassi irrazionale che produce, mediante un abbellimento solo esteriore, la contraffazione della ginnastica. Ora, nel campo politico, la contraffazione della legislazione è la sofistica; mentre la contraffazione della giustizia è la retorica, benché retori sofisti a volte si confondano gli uni con gli altri. Nella confusione per lo più si affermano facilmente le contraffazioni. Se i retori sono esperti in questa arte della contraffazione, essi nella città non acquisiscono veramente potere, tenendo presente che il potere è la capacità di fare il bene. Anzi i retori, come i tiranni, non fanno ciò che vogliono ma ciò che a loro sembra migliore (senza esserlo). Se il potere è il bene di chi lo possiede, il loro non è potere e ciò è dovuto al fatto che la loro azione è irrazionale e non guadagna alcun bene.

Per dimostrare questo Socrate parte dall’idea che gli uomini vogliono compiere una determinata azione sempre in vista di un fine. Ciò che si vuole realmente non è mai l’immediato oggetto dell’azione ma il fine ultimo, cioè il bene che si consegue con l’azione. Vero oggetto del volere è il fine ultimo. Le cose volute sono buone o cattive, cioè i beni o i loro contrari. E generalmente le cose neutre, come il sedersi, il camminare, il correre, il navigare, le pietre, i legni (o strumenti di questo tipo) si vogliono in vista del bene. Tuttavia, è possibile scegliere qualcosa che pare opportuno ma in realtà risulta essere svantaggioso. Se uno fa ciò che risulta essere svantaggioso, non fa ciò che vuole in vista del bene. E non facendo il bene, non ha potere. Insomma, se uno può fare qualcosa scegliendo il mezzo sbagliato rispetto al fine buono che egli vuole, non persegue il fine voluto, ma un mezzo scelto che lo allontana dalla meta. Quindi, quando vogliamo mezzi sbagliati, non li vogliamo veramente, ma semplicemente scegliamo ciò che solamente sembra opportuno. Ma in questo modo non si fa il bene. Quindi volere in senso pieno significa volere consapevolmente il bene. Per tale motivo chi non fa il bene, ed è ingiusto, non può essere oggetto di invidia, infatti il più grande dei mali è commettere ingiustizia (469 d).

Il potere di fare è tale se è potere di fare il bene, se no, non è nemmeno potere. Se si consegue un vantaggio, il potere di fare è un bene altrimenti no, anzi non è un potere. L’esempio dei tiranni – che operano il male e che sono felici -, come Archelao di Macedonia, non funziona se non si vaglia la loro educazione e giustizia. Polo chiede se Archelao, che da schiavo è diventato tiranno, sarebbe stato più felice rimanendo schiavo. E aggiunge che, se Socrate avesse ragione, egli dovrebbe essere triste per le ingiustizie commesse e invece non lo è. Il metodo di Polo di portare la testimonianza di Archelao, per dimostrare che non è vero che sia meglio subire ingiustizie piuttosto che commetterle, è sbagliato. Infatti, i testimoni falsi non dimostrano nulla. La verità è veramente convincente per mezzo di un ragionamento che è invece ciò che importa e dimostra veramente le tesi. Essa si stabilisce in un contesto dialettico e non dipende dall’accumulo di prove, ma dalla loro articolazione in un discorso appropriato. Il retore accumula prove, il dialettico costruisce un discorso razionale. Ora, alla luce della razionalità, l’unico modo per l’ingiusto di essere felice è quello di essere punito per la sua ingiustizia. Se la testimonianza a favore di tale affermazione fosse portata direttamente dall’interlocutore, in questo caso sarebbe credibile. Anche Polo, allora, ammetterà che commettere ingiustizia è peggio che subirla. In realtà Polo non lo ammette e dice che in generale è peggio subirla anche se, moralmente parlando, è più brutto commetterla. Ma, dice Socrate, se è bello significa utile e piacevole e brutto significa dolore e male, allora nel commettere ingiustizia c’è dolore-male e tra i due prevale il male perché chi commette ingiustizia soffre meno delle sue vittime, quindi per lui c’è meno dolore. Tuttavia, se prevale il male nel commettere ingiustizia, allora questo è peggio che subirla. Perché, quando prevale il male, ciò significa che “è peggio”. Quindi non solo è più brutto, ma appunto è moralmente peggio. Ma, dice Socrate, “né io né tu né nessun altro preferirebbe commettere ingiustizia piuttosto che riceverla giacché si tratta di una cosa peggiore”. Ma siccome pagare una pena per un’ingiustizia significa essere giustamente puniti, e siccome il giusto è bello e all’azione dell’agente corrisponde il subire del paziente, pagare una pena e bellezza sono corrispondenti e proporzionali. Siccome chi subisce soggiace a un’azione della medesima qualità di quell’operata dall’agente, se l’agente opera bene, il paziente subisce bene; se l’agente opera giustamente, il paziente subisce giustamente. E se subisce giustamente la pena, vuol dire che subirla giustamente è bello: bella è l’azione compiuta giustamente, bella è quella subita giustamente. Siccome poi il bello corrisponde al buono, chi viene punito riceve un bene, perché chi viene punito si libera da un male e ne trae giovamento. Il male più brutto è, invece, l’ingiustizia che porta dolore e danno insieme. La pena degli ingiusti è allora la loro medicina che, liberando gli ingiusti e gli intemperanti per mezzo della giustizia, come l’arte degli affari libera dalla povertà, produce ciò che è veramente più bello, quindi più utile e più piacevole. Quindi, essendo la giustizia il valore supremo, è meglio non essere malvagi, ma, essendolo, è meglio essere liberati dalla malvagità dai giudici per mezzo della pena: la giustizia è la terapia contro la malvagità e utilizza lo strumento della pena.

Allora coloro che non vogliono scontare la pena sono come dei malati che non vogliono guarire il loro corpo con la medicina. Ma ciò è più grave perché la malattia dell’anima è superiore in sciagure a quella del corpo. Se scontare la pena è la miglior cosa per l’ingiusto, la retorica, qualora nei tribunali difendesse metodicamente l’ingiusto, non sarebbe affatto utile all’ingiusto stesso. Al contrario quest’ultimo deve essere il primo accusatore di se stesso e dei propri familiari e per questo deve usare la retorica affinché, una volta messe in luce le proprie colpe, si possa liberare dal male più grande, l’ingiustizia (480 e) Quindi qui Socrate sembra concludere, come aveva concluso Gorgia prima, che la retorica va bene solo se alleata della giustizia. Tanta è l’insistenza sull’assoluta preminenza della giustizia che si arriva ad affermare che la peggior vendetta nei confronti di un nemico (ingiusto) è quella di non fargli scontare la pena, magari usando la retorica. Se, invece, la retorica aiuta a far scontare le pene giuste, essa appare utile. Ma per chi non ha in animo di commettere ingiustizia, la sua utilità sembra proprio limitata. Così si conclude il dialogo con Polo (481 b).

 

Socrate-Callicle

A questo punto entra in scena Callicle. Egli sostiene che l’errore di Gorgia sia affermare che è in grado di insegnare la giustizia a chi va da lui senza conoscerla, ammettendo che la giustizia va necessariamente affiancato alla retorica, e quindi che il retore deve conoscere il giusto. Ma chi conosce il giusto non può non praticarlo. Dunque, se il retore conosce il giusto, la retorica non può essere un discorso che ha per contenuto sia il giusto sia l’ingiusto. Polo ha invece sbagliato concedendo a Socrate che commettere ingiustizia è più brutto che subirla (474 a). Da qui ha dovuto ammettere che brutto significa male e il male, quando prevale, è peggio, pertanto commettere ingiustizia è peggio che subirla e la retorica, quando difende l’ingiusto nei tribunali, impedendo la sua guarigione per mezzo della pena, fa il suo male perché commettere ingiustizia è il più grande male e la pena ne è l’unica cura. Quando fa questo discorso, secondo Callicle, Socrate confonde apposta legge e natura per ingannare l’interlocutore. Infatti, in natura ciò che è brutto è anche peggiore. Ma in natura peggiore è patire ingiustizia, quindi più brutto. Per la legge, invece, lo è commetterla. Accettare il subire ingiustizie è, per natura, cosa degna di uno schiavo. Nondimeno i deboli hanno stabilito la legge per spaventare e imbrigliare coloro che naturalmente sono più forti. Perciò la legge dichiara che è vergognoso cercare di librarsi sopra gli altri e ciò viene chiamato ingiustizia. Al contrario, per natura è giusto che chi vale di più abbia la meglio su chi vale di meno. La legge, sotto tale profilo, è una semplice convenzione umana che si aggiunge alla statuizione naturale e divina. Secondo quest’ultima, chi, essendo forte, prevale, lo fa in base ad una legge naturale. Mentre la legge civile è un trucco per domare i forti e renderli più deboli, dicendo che non bisogna avere più degli altri e che questo è bello e giusto. Invece l’uomo forte spezza queste catene facendo risplendere il diritto di natura.

Alla verità di natura si accede abbandonando la filosofia, che va bene da giovani ma, se coltivata anche in età matura, fa perdere il contatto con la realtà e rende incapaci di reagire ad un’ingiusta accusa (si noti il riferimento postumo a Socrate). Contro l’impotenza filosofica, vanno pertanto benissimo la ricchezza, la fama e la ricerca di altri beni.

Socrate replica facendo appello alla franchezza e all’amicizia di Callicle, e al fatto che egli dovrebbe essere disposto a riconoscere gli esiti del discorso sinceramente. Dopo tale appello, Socrate fa notare che se, secondo natura, è giusto che il forte si appropri dei beni e prevalga sul debole, allora, se migliore e più forte coincidono, la massa, che è più forte del singolo e quindi migliore, dovrebbe produrre leggi che sono giuste per natura. Ma allora le leggi dei molti sono le leggi dei più forti e potenti e quindi le leggi più belle. Però in molti sono a favore dell’idea che la giustizia sia equivalente a una certa uguaglianza perché è più brutto commettere ingiustizia che subirla. Dunque, questo non è solo una verità pattuita per legge umana, ma anche una verità di natura. Callicle replica che per lui più potente è la stessa cosa che migliore e ciò che dice un’accozzaglia di schiavi, che sono preponderanti solo per la forza fisica, non può avere valore di legge. Socrate lo incalza sostenendo che allora gli schiavi non sono migliori perché più forti. Dunque, migliore non significa più forte come prima aveva affermato il suo interlocutore. Callicle allora ripiega dicendo che migliore significa colui che vale di più. Socrate chiede se questo può significare più intelligente. Alla risposta positiva di Callicle, Socrate deduce che più intelligente significa dunque più potente e quindi al più intelligente spetta il comando. Pertanto, il migliore deve avere più, come dovrebbe essere in natura. Ma allora i migliori sarti, contadini, calzolai, dovrebbero, proprio in quanto migliori nella loro arte, avere di più.

Callicle rifiuta gli esempi di Socrate e cambia la definizione di migliore, ripensandola come colui che è più dotato nella amministrazione dello Stato avendo più intelligenza e più coraggio. Ciò non coincide, come vorrebbe Socrate, con il dominio di sé e la temperanza, bensì con l’atteggiamento contrario: aumentare e lasciare briglia sciolta alle proprie passioni per massimizzarle, cosa che la maggior parte degli uomini ha timore di fare. In conseguenza di tale timore, gli uomini ordinari s’inventano la morale che limita la libertà dei signori. Al contrario, dice Callicle: “La dissolutezza, l’intemperanza, la licenza, quando vengono favorite, costituiscono la virtù e la felicità” (492 c). Socrate loda Callicle per la sua sincerità e oppone il suo ragionamento. Se la passione significa avere continuamente desideri, tremenda sarebbe la vita in preda al bisogno. L’anima sarebbe come un otre forato che, pur ricevendo continuamente liquido, mai si riempirebbe per la sua insaziabilità. Addirittura, il disordine farebbe dell’anima qualcosa di peggio: un otre forato che si cerca di riempire con un setaccio, con un compito non si sa se più inutile o disperato. Il moderato invece si accontenta di quello che ha e non desidera nulla di più. Ma, conferma Callicle, è proprio questo il piacere della vita: continuare a versare liquidi negli otri. Vivere nella felicità è avere tutti i desideri. Socrate allora si propone di portare all’assurdo tale posizione, facendo notare che allora un malato di scabbia, che continua ad avere prurito, sarebbe felice. Callicle accetta la sfida e risponde che, se si grattasse continuamente, sì, costui passerebbe una vita felice. Socrate non sembra replicare se non mediante la sottolineatura dell’inaccettabilità della conclusione del suo avversario, infatti nessuno ha voglia di passare la vita grattandosi. E non si dica che è lui ad aver condotto il discorso a questo punto e su questi poco nobili argomenti, perché in realtà è Callicle che, facendo apologia del piacere tout court, non distingue quelli nobili da quelli cattivi.

Su quest’ultimo tema Socrate ne approfitta per introduce un ulteriore discorso chiedendo a Callicle se per lui il piacere il bene sono la stessa cosa “oppure se ci sono piaceri non buoni” (495a). Alla risposta positiva di Callicle, Socrate porta il suo interlocutore a esplicitare la sua prospettiva con una certa solennità e chiarezza: se il piacere e il bene sono la stessa cosa, viceversa la scienza e il coraggio sono diversi fra di loro e assieme differiscono dal bene. Ciò è esattamente quanto Socrate rifiuta. Di qui parte il discorso che confuterà punto per punto le opinioni di Callicle.

Il maestro di Platone comincia elencando una serie di contrari salute-malattia, forza-debolezza, velocità-lentezza, bene-male, felicità-miseria. Tali contrari si possono ottenere solo alternativamente: o l’uno o l’altro. Invece le cose che si possono acquisire simultaneamente, non possono essere, a differenza di queste, reciprocamente escludentesi. Se avere sete o fame, comporta dolore; bere con la sete, e mangiare con la fame, comporta piacere. Ma quando uno sta bevendo, essendo assetato, prova contemporaneamente piacere e dolore: dolore perché è ancora assetato, piacere perché sta bevendo. Se nondimeno il piacere è bene e il dolore è male ed è vero che bene e male si escludono reciprocamente, non si potrebbe provare al tempo stesso piacere e dolore.

Socrate, dopo le proteste di Callicle per il metodo a suo dire obliquo e ingannevole delle domande e risposte brevi, sostiene anche che, bevendo, si cessa di avere sete e cessano pure i desideri. Ma, allora, osserva Socrate, piacere e dolore cessano assieme. Per i beni e i mali, invece, non può essere così e non è così (se cessa un bene, viene un male e viceversa). A ciò si può associare un’ulteriore riprova della tesi della diversità tra il bene e il piacere. Sembra che tutti provino piacere e/o dolore, sia i buoni sia i cattivi. Callicle ha detto che i buoni sono tali per i beni, cioè per i piaceri; i cattivi sono invece tali per i mali, cioè per i dolori. Ma se buoni e cattivi soffrono e gioiscono con la stessa intensità, allora buono e cattivo sono la stessa cosa, anzi siccome a volte gioiscono con più intensità, significa che i cattivi sono più buoni dei buoni. A questa conclusione assurda Callicle risponde che la corrispondenza buono/piacere e male/dolore non è totale, ma che è ovvio che esistono piaceri buoni e i piaceri cattivi: quelli buoni portano vantaggi e utili cioè qualche bene, quelli cattivi recano danni cioè qualche male. Ma anche la sofferenza può essere buona, se in vista del bene, e cattiva se in vista del male. Dunque, ciò che è piacevole è compiuto in vista del bene e non viceversa, perché ci può essere anche una sofferenza in vista del bene. Insomma, il bene e il criterio del piacevole e non viceversa, ma è proprio questo quello che Socrate voleva dimostrare contro Callicle.

E allora Socrate può riprendere ricordando ciò che si diceva con Polo sulle arti che puntano al piacere, su quelle che puntano al bene e sulla loro differenza. Tale differenza comporta l’alternativa tra due tipi di vita tra cui scegliere. Le arti sono quelle che rendono ragione delle cose e comportano un bene; le pratiche empiriche sono a-logiche e ricercano piacere sia del corpo, sia dell’anima. Si vedano a questo proposito l’auletica e la citaristica, o la poesia ditirambica e la tragedia: tutte discipline che puntano al piacere. La retorica va compresa tra queste arti adulatorie, a meno che non sia al servizio del bene. Se la retorica ha per scopo il favore popolare e non il bene comune, allora non funziona. Pertanto, esisterebbero due retoriche, una buona e una cattiva? Socrate non ha mai visto una retorica buona perché pochi i retori hanno cercato il bene. Infatti, nessun retore famoso promuoveva la virtù, che significa ordine e buona disposizione in vista del bene. Il retore buono dovrebbe perseguire la giustizia, cioè il bene sia del corpo sia dell’anima, che è diverso dal soddisfare desideri. Infatti, ai malati nel corpo, per il loro bene, si proibiscono cose che si consentono i sani. Nell’anima accade la stessa cosa: non si concede di soddisfare ogni desiderio e la si punisce quando commette un male. Se uno commette il male per piacere, attraverso il contrario del piacere, uscirà dal male. Questa è la ratio della punizione e del contrappasso, cioè la razionalità della pena come retribuzione e redenzione del reo.

Allora il bene rimane diverso dal piacere. Ciò significa che è ammesso il piacevole solo in vista del bene. Il piacere ci fa godere, il bene ci rende buoni. Per essere buoni dobbiamo possedere una qualche virtù che si produce grazie all’ordine e all’arte adatti alla natura della cosa. Da tale arte viene l’armonia e l’ordine che rendono buoni perché ordinare l’anima significa renderla saggia e perciò buona, mentre l’anima cattiva è dissennata e sregolata. L’anima buona è quindi ben disposta verso gli uomini liberi con giustizia, pietà e coraggio. L’uomo saggio persegue, tra i piaceri e i dolori, quelli che debbono essere perseguiti, evita quelli che devono essere evitati e, quando sia necessario, è capace di perseverare e di resistere. Se egli cade in errore, per continuare o per tornare ad essere felice, vorrà essere punito. L’acquisizione della giustizia e della temperanza in vista della felicità devono quindi essere lo scopo del singolo e dello Stato. Ciò implica porre freno alle passioni che impediscono, nella loro sfrenatezza, amicizia e socialità. L’uguaglianza geometrica non è solo la misura del cosmo ma anche la misura dell’etica.

In vista di questo ordine, acquisire giustizia è accettare, anzi volere la punizione per gli errori. Ciò implica la possibilità di giovare a sé e al prossimo. Giova a sé chi non commette ingiustizia e, se la commette, voler essere punito. Infatti, commettere ingiustizia è il primo male, subirla è solo un male secondario e bisogna essere capaci di preservare se stessi e gli altri da tali mali nel loro preciso ordine di gravità. Non vale in questo campo l’assioma che, per non ricevere ingiustizia, bisogna essere amici dei potenti e dei tiranni, perché per essere loro amici bisogna avere la stessa indole e se un tiranno è ingiusto chi lo imita dovrà essere ingiusto, conseguendo in tal maniera il più grande dei mali che consiste nel rendere malvagia la propria anima.

Callicle è in disaccordo perché dice che esiste un potere di colui che imita il tiranno ingiusto e su questo ci si può basare per ottenere vantaggi. Ma Socrate sostiene che se chi rifiuta l’amicizia di un tiranno può essere mandato a morte dallo stesso tiranno o dai suoi amici, ciò non conta. Infatti, non conta quanto si vive ma come. Vivere più a lungo non deve essere l’occupazione principale dell’uomo. A ciò servirebbero, in ugual modo sia la retorica, sia il nuoto sia il pilotare una nave etc. Ma per chi ha un’anima corrotta vivere non vale la pena e le arti che salvano la vita non hanno nessun valore perché non la rendono migliore. Il vero uomo non bada alla vita più lunga, ma si preoccupa di come vivere nel modo migliore il proprio tempo e, di fronte a tale compito diventa anche secondario adeguarsi alla costituzione della propria città e del proprio demo.

Riepilogando, Socrate ricorda a Callicle che hanno distinto due modi di curare rispettivamente il corpo dell’anima: il primo si occupa di essi avendo come fine il piacere, l’altro il bene. Ma il piacere è vile ed è adulazione, mentre il bene consiste nell’essere migliori ed è il fine cui si deve badare. Chi si prende cura della città e dei cittadini deve anch’egli badare al bene. Se uno deve compiere un’opera pubblica, deve prima valutare le proprie competenze e capire se ha avuto buoni maestri, come accade per le altre arti. Prima di ammettere un candidato all’attività politica, bisogna vedere se egli ha già reso migliore qualcuno. Infatti, compito della politica è rendere migliori i cittadini e per farlo bisogna essere buoni cittadini. Pericle è uno di quelli che hanno reso migliori i propri cittadini? Non sembra, egli ha reso gli ateniesi pigri e incivili, amanti delle chiacchiere e avidi di denaro, avendo introdotto per primo un salario per chi si dedicava agli pubblici uffici. Se Pericle è stato condannato, o i cittadini hanno fatto bene a condannarlo, oppure lo hanno fatto ingiustamente. Ciò significa comunque che egli ha fallito nella sua opera di politico, perché non li ha resi migliori ma peggiori e quindi egli non era un buon politico. Sembra che ad Atene, anzi, non ci sia mai stato un buon politico, perché nessuno ha mai costretto i cittadini a fare ciò in seguito a cui sarebbero diventati migliori. I politici di Atene hanno curato il corpo della città (le mura, le strade, l’esercito), non l’anima (la qualità dei cittadini). Alcuni politici famosi, come Cimone, Milziade e Temistocle, hanno parimenti rimpinzato gli ateniesi, riempendoli a sazietà di tutto quanto desideravano, senza preoccuparsi né della saggezza, né della giustizia, e infatti sono finiti male, cosa che non sarebbe successa se si fossero occupati di rendere migliori i propri concittadini. Ma sia i politici, sia i sofisti che si lamentassero di essere stati trattati ingiustamente dal popolo o dai loro allievi, in realtà dimostrerebbero di aver fallito nel compito di renderli giusti, infatti “come è possibile dire che degli uomini, divenuti buoni e giusti grazie un maestro che li ha liberati dall’ingiustizia, possano, una volta in possesso della giustizia, commettere dei torti proprio con quello strumento che non hanno più?” (519d).

Sui sofisti Socrate aggiunge una riflessione sulla questione del farsi pagare. Sofisti e retori sono della stessa razza ma il sofista è meglio del retore nella misura in cui l’arte della legislazione è migliore dell’amministrazione della giustizia e la ginnastica della medicina. In ogni caso i sofisti non devono rimproverare i propri allievi di ingiustizia se non vogliono autoaccusarsi. Anzitutto, se uno vuole formare uomini giusti, non deve stabilire una paga, ma fidarsi della giustizia dei propri allievi. Un pagamento con tariffa anticipata va bene per tutte le altre arti ma non per chi ha di mira la giustizia.

Di fronte a Callicle, che insiste nella sua convinzione secondo cui non bisogna rendere cittadini migliori ma soddisfare i desideri, Socrate afferma di accettare, per contro, che, comportandosi bene, egli possa anche subire ingiustizia. Tuttavia, chi lo portasse in giudizio sarebbe come un bambino che volesse giudicare l’operato del suo medico. All’accusa di corrompere i giovani egli risponderebbe: “Le cose che io dico sono tutte giuste giudici, e quello che faccio, lo faccio nel vostro interesse”. Socrate, in definitiva, dice di non temere un’accusa ingiusta, ma che qualcuno dimostri che gli è stato ingiusto. Non la morte, infatti, si deve temere, ma l’ingiustizia. Sull’argomento, Socrate racconta il mito escatologico del destino dell’anima dopo la morte e del giudizio cui è sottoposta.

Da tale storia egli conclude che la morte è la separazione del corpo dall’anima. Dopo la separazione, ciascuna parte mantiene pressappoco la condizione in cui si trovava quando l’uomo era in vita e il corpo conserva la sua natura e ha ben visibili i segni delle cure ricevute dei patimenti subiti. Lo stesso dicasi per l’anima. L’anima è però deformata dall’ingiustizia. Le anime ingiuste conviene che siano sottoposte una pena, che è apportata da sofferenze e dolore. Le anime irredimibili servono da monito per gli altri. Tra queste anime vi sono quelle dei tiranni e dei re criminali in buon numero a causa del potere, anche perché coloro che sono solo privatamente ingiusti fanno meno danni. Nulla vieta, tuttavia, che fra i re esistano persone giuste: in tal caso essi sono più meritevoli. L’anima malvagia va nel Tartaro dove sconta la pena. Quella di un filosofo, che ha svolto il proprio dovere e non si è intromesso durante la vita in mille faccende non sue, va nell’Isola dei beati. Bisogna dunque ricercare la giustizia per presentarsi in maniera sana ai giudici escatologici. La vita promossa da Socrate è quindi utile sia qui sia nel regno dei morti.

In conclusione: bisogna evitare di commettere ingiustizia, più che di subirla; bisogna essere buoni più che sembrarlo, non preoccupandosi del disprezzo della gente e fuggendo invece tutte le adulazioni “tanto quella rivolta verso se stessi, tanto quella rivolta verso gli altri, tanto quella rivolta verso pochi, quanto quella rivolta verso molti. Ed è sempre in vista del bene che ci si deve servire della retorica, così come di ogni altra attività (pràxis, 527c).


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