sabato 12 dicembre 2020

I diritti umani, infranti e lacerati: un punto di vista schiettamente liberale sulla “proliferazione dei diritti”

 


Pablo De Lora, “The Objective”, 12/12/2020 https://theobjective.com/elsubjetivo/los-derechos-humanos-rotos-y-descosidos

C'è qualcosa di parodistico, quasi schizofrenico, nel tipo di appoggio - a volte isterico- che una buona parte della cosiddetta sinistra offre all'ideale dei diritti umani, la cui proclamazione siamo tornati a celebrare questa settimana a motivo del settantaduesimo anniversario della «Dichiarazione universale dei diritti umani» (DUDH).

Esiste, in primo luogo, una delirante invocazione di «nuovi diritti umani» che, come gli enti che si dovrebbero tagliare attraverso il rasoio occamiano, proliferano in una generazione incessante.

In Colombia e Bolivia si è discusso se la rielezione per gli incarichi politici - per esempio quella del presidente Evo Morales - sia un «diritto umano» che, pertanto, le rispettive costituzioni starebbero conculcando nel limitare il numero dei mandati.

In Spagna un'alta rappresentante politica della Comunità di Valencia, membro del partito Podemos e professoressa di diritto del lavoro  (Adoración Guamán) ha difeso il «diritto alla città», che suppongo sia quello che devono reclamare gli abitanti della «Spagna vuota» ( o svuotata – cioè coloro che vogliono trasferirsi dalla campagna agli agglomerati urbani, determinando perciò lo svuotamento o spopolamento delle zone rurali n.d.r.), benché esso implichi, temo, conculcare il diritto - immagino non meno umano - alla libertà di residenza di coloro che preferiscono continuare a vivere nella città in cui risiedono, se risultasse che sono obbligati a soddisfare il diritto alla città di coloro che vivono in quattro case (per timore di non poter sopravvivere alle minacciose “townships”, per tale motivo il Sudafrica si astenne dall’approvare la DUDH).

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani Emergenti, dell'Istituto dei Diritti Umani della Catalogna, include un «diritto alla monumentalità, alla bellezza urbanistica e al traffico ordinato».

 Un alto funzionario cinese arrivò a sostenere che celebrare le Olimpiadi a Pechino era ugualmente un «diritto umano» (dei diritti civili e politici in Cina non segnalò nulla, non fosse che …); impedire lo sfratto per morosità «piantando i propri corpi» davanti alla polizia- come fece il deputato di Podemos Isa Sierra, essendo condannata per questo - è stato descritto come una sorta di esercizio mediato del diritto umano alla casa; certamente la modificazione a piacere del sesso nel Registro Civile è, sorpresa delle sorprese, un diritto umano che stiamo conculcando ogni ora che passa senza modificare la legislazione in materia. E tutto questo per non parlare dei «titolari» dei diritti umani che sono pure entità inanimate come le montagne, i fiumi o la stessa Madre Terra (di nuovo Guamán dixit).

Dei perniciosi effetti di questa sovrabbondanza e abuso della retorica dei diritti umani nel discorso politico, ci avvertirono qualche anno fa Francisco Laporta e Liborio Hierro, ai quali dobbiamo sicuramente le più brillanti pagine scritte in spagnolo su questo ideale etico rappresentato dai diritti umani. La loro diagnosi è più che mai valida, ma ad essa si aggiunge Il deliberato logoramento dello spirito liberale e individualista su cui si fonda e motiva l’affermazione secondo la quale gli esseri umani, per la pura appartenenza alla specie umana godono di certi diritti – non riconducibili a qualsiasi richiesta politicamente giustificabile - assoluti, universali e inalienabili, opponibili di fronte a tutti, in particolare di fronte ai poteri pubblici.

I diritti umani «sul serio», se mi si permette la facile parafrasi della celebre opera di Ronald Dworkin.

Il 9 di maggio del 2020, data che coincide con la celebrazione del giorno dell'Europa, il presidente del Parlamento europeo, signor Sassoli, celebrò una sessione con i rappresentanti di alcune ONG che lavorano per la solidarietà nel Continente. Tra quelle figurava l’influente attivista spagnola Yayo Herero, leader importante del cosiddetto «eco- femminismo» e nota anticapitalista.

Concludendo a sua allocuzione, ella affermò che se oggi leggessimo il Preambolo della Dichiarazione dei diritti umani dal punto di vista della «eco- dipendenza» e della «inter-dipendenza», bisognerebbe parlare così: «Tutti noi esseri umani nasciamo vulnerabili e indifesi nel seno di una Madre e arriveremo ad essere liberi e uguali in dignità e diritti sempre e quando riceviamo una quantità ingente di attenzioni, premure e  che devono essere proporzionate alle donne e agli uomini delle altre generazioni , in una missione civilizzatrice senza la quale la nostra specie non può vivere».

Questo accento privilegiato sulla nostra fragile condizione, questa insistenza sulla nostra dipendenza è sottile ma eloquente e, mutatis mutandis ricorda quel genere di lamenti che, di fronte alla «falsa etica dell'umanismo» impugnarono celebri rappresentanti della tradizione giusnaturalista cattolica spagnola o del pensamento reazionario come Ramiro de Maeztu. L’ «orgoglio dell’uomo»; «questo povero piccolo che crede di essere nato libero»; la dimenticanza della nostra «condizione di peccato»; l’elevazione della nostra «personalità individuale» a «sacrario intangibile e valore assoluto», dice Maeztu nel suo La crisi dell'umanismo, tutto ciò nasce per la nostra rovina, per rendere impossibile l'assoluta organizzazione delle cose umane. Laddove ciascun individuo si sappia dipendente, sia cosciente di essere in realtà uno strumento, assolva alla funzione che oggettivamente gli corrisponde e badi alla realizzazione di valori eterni «…non si continuerà a discutere dei diritti del sovrano, né di quelli dell’individuo … perché in questa società nessuno avrà altro diritto che è quello di compiere il proprio dovere», ribadisce Maeztu.

Si confronti tutto ciò con la definizione che solennemente diede Pico della Mirandola di noi come  «scultori di noi stessi», con l’imperativo kantiano del trattare ciascuno e l’umanità  intera come fini in sé e, infine, con la reiterata proclamazione della nostra libertà, dignità e uguaglianza che si compie nel Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, testo nel quale si dichiara come l’«aspirazione più elevata dell'uomo» sia  l'avvento di un mondo in cui, «liberati dal timore dalla miseria» godremo della libertà di parola e di credenza. È per tale ragione che non trionfarono gli emendamenti sovietici relativi alla libertà di espressione e di credenza e alla libertà di stampa che subordinavano  l'esercizio di tali diritti alle leggi del Paese, ai dettami della moralità pubblica o all’imperativo della lotta alla propagazione del fascismo, ed è per questa ragione che dobbiamo essere sospettosi di fronte alle rivendicazioni e ricostruzioni dell’ideale dei diritti umani che subordinano i diritti ai doveri e che non pongono come primo obiettivo il valore della libertà e dell’autodeterminazione degli individui. Attenti: può essere che in una confezione di lusso vi stiano rifilando un bidone. 


Ecco un’apologia dell'orgoglio quale antidoto alla proliferazione dei diritti. Sembra che i diritti, moltiplicandosi, finiscano per implicare l'idea di un uomo come essere bisognoso di attenzioni e coccole, e distruggano la sua libertà...che invece è appunto l'affermazione dell'orgoglio dell'individuo contro il potere. Pochi diritti si legano dunque all’elevazione dell’umano, troppi diritti alla sua degradazione: è forse un caso di marxiana trasformazione della quantità in qualità? E i miei amici reazionari sarebbero troppo simili alle eco-femministe, che a loro volta sarebbero sovraniste sotto mentite spoglie?  Mi sembra questo un interessante punto di vista schiettamente liberale... più radicale e provocatorio di quello di Harouel, perché Harouel, nel difendere i diritti classici da quelli nuovi, pur elaborando una convincente e genealogia della nuova "religione dei diritti" (la contraffazione gnostico-millenaristica della speranza cristiana), non aveva tracciato una chiara distinzione concettuale e sistematica.

Mentre il ragionamento di Pablo de Lora Deltoro, docente di Diritto pubblico e Filosofia del diritto all’ Università autonoma di Madrid e autore del testo Memoria y frontera: el desafío de los derechos humanos (Memoria e confine, la sfida dei diritti umani), Alianza Editorial, Madrid 2006 è suggestivo e provocatorio. La mia posizione critica nei riguardi del complesso dei diritti umani, fondata sul ragionamento "si comincia con Locke e si finisce alle drag queen", ne risulterebbe scalfita. Lungi dall’essere poste in un continuum logico, ci sarebbe, infatti, un salto di qualità tra un’umanità virile che assume il diritto soggettivo come argine da opporre a un potere arbitrario e decadente - che vorrebbe limitare la sua voglia di fare da sé nella conquista del mondo e della propria vita -, e un altro tipo di umanità, quella del godimento isterico ed effeminato che reagisce come un adolescente viziato ogniqualvolta la realtà non corrisponde ai propri desideri. Come se fosse il passaggio dalla libertà alla schiavitù. E i contemporanei che vogliono più diritti sono anzitutto schiavi dei propri godimenti, per poi costruire una società di schiavi, dove un apparato straordinariamente ramificato e oppressivo, nell’offrire una pletora di servizi e prodotti che solleticano la sensualità di ciascuno, ciascuno sottomette alla propria logica di dominio. Si conferma così l’adagio  protego ergo obligo, il cogito ergo sum della politica, diceva Carl Schmitt.

 Però io credo che, valutando bene De Vitoria e la genesi tomistica del concetto di diritto soggettivo, si possa pensare a un altro modo di giustificare la libertà, che restituisca al potere – l’imperium che per nulla dispiaceva alla scuola di Salamanca - le sue prerogative, evitando la deriva anarchica in cui sguazzano i poteri di fatto. Cioè in sostanza evitando il liberalismo, per il quale esistono solo individui, senza legami, senza appartenenze, senza storia e per il quale lo Stato ha una genesi contrattuale, cosa che equivale a pensare che esso non sia mai nato, che non abbia una realtà umana, ma sia una sorta di flatus vocis sovrastrutturale, rispetto alla società e alla sua economia. Perché è vero che coi diritti si difende l'individuo, ma poi si finisce per impedire allo Stato di difenderlo, quando altri - potentati economici che animano lobbies culturali e producono oggetti, soddisfano voglie ma generano anche pericolosi e soffocanti conformismi mediatici di massa (cfr. Toqueville)  - lo minacciano gravemente.

Sembrerebbe inoltre che per Pablo de Lora la forma che prende l’oppressione sia quella del dovere. Molto interessante, perché la società del godimento è al tempo stesso una società puritana che chiede tantissimi sacrifici: il pensiero, il buon senso, la ragione, la natura, l’evidenza, la tradizione, il senso di giustizia, l’amore di sé, l’etica comune… e ti concede solo il benessere, welfare per il wellness! Nel mondo del welfare per il wellness ci sono regole ferree e la libertà non è un lusso, è un ostacolo.

Tuttavia il dovere è anche la libera determinazione della volontà, cioè appunto la libertà. Così dice Kant, modello dell’orgoglio individuale ... ma la libertà non è stata scoperta da Kant… virtus propter se servanda, sosteneva sant’Anselmo, modello di umiltà. La libertà è liberazione e la liberazione è stata scoperta dal pensiero cristiano. L’uomo bisognoso di redenzione è quello che viene liberato, liberandosi: dialettica della libertà e della grazia. Nulla di quella stolida sottomissione che rappresenta il fantoccio illuministico della religiosità cristiana. La stolida sottomissione che pretende invece la società dei diritti…

Ma nemmeno l’anarchismo liberale, con la sua ipertrofica coscienza di classe e la sua brama inesausta di potere ed egemonia sociale può andare bene. Tale anarchismo ci ha offerto il primo piatto: vita, libertà, proprietà … e sembrava una splendida entrée, ma poi è arrivato il secondo: la Rivoluzione francese e il Terrore, e infine il dolce: il postmoderno con lo zucchero obbligatorio dei diritti politicamente corretti e dell’uniformità globale. Tutto previsto, come in un menu completo, il cui cuoco è sempre lo stesso, per quanto si sforzi di variare. 


                                                                       Massimo Maraviglia

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