Non uccidere… l’innocente
Qual è il senso profondo del comandamento non uccidere?
Nella storia si sono date innumerevoli interpretazioni. Il Catechismo, nel
solco della vivente tradizione della Chiesa cattolica, dice: “La vita umana è
sacra perché, fin dal suo inizio, comporta l’azione creatrice di Dio e rimane
sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il
Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno in nessuna
circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un
essere umano innocente” (2258). Credo che l’ultima parola sia qui
particolarmente importante. Non uccidere si riferisce anzitutto all’innocente.
Ne consegue che la vittima non va difesa genericamente, ma in quanto innocente
e innocua. L’innocente è colui che non ha procurato male a nessuno,
l’innocuo è colui che non minaccia di procurare alcun male. In una società dove
essere vittima sembra rappresentare uno status privilegiato, avere buona
volontà non costituisce invece alcun motivo di distinzione. Allora vittime sono
tutti, vittime sono coloro a cui non sono stati garantiti i cosiddetti
“diritti”, vittima è qualsiasi soggetto che si “senta” tale e quindi chieda
agli altri una considerazione speciale. Insomma, essere vittima sembra fornire
un passaporto per la pietà e un viatico al privilegio, a prescindere da quello
che si è e da quello che si è fatto.
Sì, perché il misericordismo non distingue: siamo
tutti bisognosi e tutti oggetto di una qualche ingiustizia, quindi tutti
vittime nella legittima condizione di pretendere da chi è più fortunato di noi.
Ma chi lo è, appunto, dato l’assunto che attribuisce a tutti lo status
di potenziali vittime? Lo decide il soggetto, è sempre il sentimento soggettivo,
privato e ingiudicabile, di un patimento ingiusto a determinarlo, e il
patimento ingiusto finisce per coincidere con una qualsiasi privazione in
relazione a una qualsiasi dotazione altrui. La ricerca del riconoscimento della
condizione di vittima si fonda e al tempo stesso alimenta il potente vizio
dell’invidia sociale che dissolve i legami, ferisce le relazioni, distrugge la
convivenza. Ma quel che è più grave è il male radicale che da ciò prende le
mosse: il disgusto della giustizia e il disprezzo dell’innocenza. Con la scusa
che nessuno è senza peccato – verità generale che non può diventare generica – si
pongono l’innocente e l’aggressore sullo stesso piano, sacrificando a un
egualitarismo straccione la difficile ma indispensabile arte del discernimento
che non guarda al peccato in astratto, ma a quello che ciascuno compie, alla
valutazione delle azioni concrete e degli accadimenti nella loro genesi e negli
effetti sugli altri … che distingue il peccato dal reato … che guarda al bene
comune e agli attentati che esso subisce da parte dei singoli … che ha a cuore
il bene intoccabile della vita umana che non nuoce. Perché, malgrado la malizia
che attraversa il genere umano, è sempre possibile e, quand’anche complicato, deve
essere sempre possibile distinguere in re, cioè nelle diverse
circostanze della vita, chi minaccia e chi è minacciato, chi opera il male e
chi lo subisce, chi lascia intatta l’umanità altrui e chi la distrugge, chi
manifesta una buona volontà e chi una cattiva.
Certezza del diritto e della pena
Allora quello che è il fondamento della nostra civiltà
giuridica, l’idea che il diritto deve essere certo, ha un peculiare corollario.
La condizione della certezza del diritto è la legge: Nullum crimen, nulla
poena sine lege[1]:
non vi è crimine e non vi è pena senza una legge. La legge definisce il
comportamento criminoso nella maniera più precisa possibile e al tempo stesso
in una forma universale che non fa differenze tra categorie di uomini. La sua
formula deve essere: “Chiunque compia o non compia X…”: mentre il soggetto deve
essere “qualsiasi essere umano”, l’“X” deve essere determinato nella maniera
più precisa possibile, facendo uso di concetti chiari, su cui la possibilità di
equivoco deve essere ridotta al minimo. Una volta definito il contenuto della
legge, è necessario che essa implichi una sanzione per i trasgressori. La legge
positiva si distingue da quella naturale, cioè da quella consapevolezza in
certo modo innata di ciò che è bene e di ciò che è male che possediamo in virtù
del possesso della ragione, per contenere la minaccia di una pena per coloro
che compiono l’azione proibita od omettano quella comandata. Tutto ciò deve
essere evidentemente conosciuto in anticipo. Tutti devono sapere chiaramente
che cosa è vietato o comandato, altrimenti la possibilità di comminare sanzioni,
cioè pene, sarebbe consegnata al puro arbitrio della forza. Il diritto ne risulterebbe
demolito dalle fondamenta.
Ma una demolizione altrettanto radicale si otterrebbe se
non fossero tenute in debito conto le implicazioni logiche del suddetto brocardo.
Se è vero che senza una legge non vi può essere né crimine, né pena, con la
legge è definito il crimine ed è prevista la pena, senza residui e senza
ambiguità: totum crimen, tota poena cum lege. Infatti, se la legge non
definisse ciò che è vietato e non lo sanzionasse adeguatamente, verrebbe meno
la sua funzione e la sua vigenza. Il risultato sarebbe la totale inconsistenza
del diritto positivo, e la permanenza a mo’ di residuo solo di vaghe leggi
naturali, ridotte al rango di consigli ed esortazioni che presto rimarrebbero
soffocate dalla generale indifferenza in una società fatalmente consegnata alla
guerra di tutti contro tutti.
Il ruolo dello Stato nell’applicazione della legge
Affinché la legge viga e sia efficace è tuttavia necessaria
un’altra condizione. La legge non si applica da sola: c’è sempre la necessità
di un’auctoritatis interpositio tra ciò che accade, l’essere, e la
legge, il dover essere. Siccome la legge è una statuizione concettuale che
mostra un’esigenza, ma di per sé non contiene alcuna forza attuativa, affinché
l’esigenza della legge trasformi lo stato di cose, cioè la realtà, secondo
quanto esigito dalla norma stessa, ci vuole qualcuno, un soggetto reale, che si
preoccupi di attuare lo stato di cose suddetto, rendendolo conforme al concetto
della legge. A questo fine il soggetto deve possedere autorità e potere. Colui
che possiede detti requisiti ed è in stretta correlazione con il diritto è lo
Stato: “Il senso dello Stato consiste quindi nel suo compito di realizzare il
diritto nel mondo e di agire su quest'ultimo in questa direzione. Il motivo per
cui esso è il potere supremo è una conseguenza di questo compito; il
motivo per cui esso debba essere il potere supremo risulta dalla
direzione del suo compito, poiché l'agire sul mondo dei fenomeni ha come
presupposto una potenza di fatto. Il concetto di Stato in rapporto al diritto
riceve così una posizione del tutto analoga a quella che il concetto di Dio,
che sorge dalla necessità di realizzare ciò che è morale nel mondo reale,
assume riguardo all'etica. Solo lo Stato porta l'imperativo del diritto. Alla
norma giuridica risultano per sé estranei un effetto su qualcosa, un'azione in
qualche direzione, già secondo il concetto. Il carattere giuridico di una norma
non ha quindi nulla a che fare con la sua coattività o con una tendenza alla
coattività. La coercizione o la tendenza ad essa si riferiscono al mondo
empirico reale, all' essere; esse hanno di mira una condizione concreta della
realtà, la cui produzione tramite i mezzi reali è il loro scopo. Poiché, però,
lo scopo, nel senso di un tale render reale, è estraneo all’essenza del diritto
in quanto norma, la tendenza alla coercizione non appartiene al lato del diritto,
ma a quello dello Stato, come mezzo del diritto”[2].
Perciò è essenziale la volontà politica dello Stato e dei
suoi poteri affinché la legge sia realizzata e sia comminata la pena a chi ha
commesso un reato.
La magistratura e la sua doxa
E qui lo Stato deve esibire una comunione di intenti,
un’omogeneità e unità di indirizzi che la rigidità della distinzione dei poteri
potrebbe ostacolare. Perché se è vero che l’indipendenza della magistratura ne
garantisce la terzietà, essa non può diventare terzietà rispetto allo Stato, di
cui la magistratura è parte integrante. La magistratura non può diventare
autoreferenziale. Il passo dall’indipendenza all’autoreferenzialità è breve ed
esiziale per la vita civile. Perché in questo modo si distrugge l’unità
politica di un popolo, si frantuma la volontà generale, si trasforma un potere
dello Stato in un parassita che succhia il sangue delle sue strutture senza
rendere alcun servizio alla collettività. Ogniqualvolta un magistrato viene
corrotto, non tanto dalle normali tentazioni del potere, ma anche solo dalla
sua particolare doxa, dalla sua individualità irrelata e dimentica del
rapporto che le sue azioni devono mantenere con la vita del tutto,
ogniqualvolta il servizio alla legge diventa pretesto per l’affermazione di sé,
lo Stato muore, la sua volontà si nullifica, le relazioni sociali si ammalano e
deperiscono, perché la legge rimane lettera morta, mancando il tramite della
sua applicazione alla realtà.
Questo è il caso di quell’interpretazione estensiva della
cosiddetta “funzione rieducativa della pena” che dall’articolo 27 della
costituzione costantemente cade nella prassi giuridica con tonfi pensatissimi,
le cui vibrazioni fanno tremare l’edificio istituzionale. Lo abbiamo prima
sottolineato: se la pena non viene applicata, la legge non ha senso. Il diritto
perde certezza. Disattendere una legge è infatti eliminare la legge. Il che
significa eliminare il crimine e la pena senza tuttavia aver eliminato il danno
e la colpa. Anche in questa situazione non vi è certezza del diritto, perché
manca il diritto stesso e non si può essere certi di niente, nemmeno di poter
vivere: bellum omnium contra omnes, la guerra civile permanente delle
mafie sociali.
La funzione rieducativa della pena: una tautologia
Ma che cosa è la funzione rieducativa della pena? È una
tautologia in cui si dice qualcosa di ridondante e si prescrive qualcosa che
già c’è. La pena, che manualisticamente potremmo intendere come “la sofferenza
(patimento, afflizione) inflitta all’autore di un fatto illecito attraverso la
privazione o la diminuzione di un bene di sua pertinenza”[3],
per essere pena è già una forma di rieducazione. Agli albori della nostra
civiltà lo avevano capito. Il peggiore dei mali è l’ingiustizia e, come la
medicina libera dalla malattia, la giustizia libera dall’ingiustizia e dalla
malvagità, in che modo? Attraverso la pena: “Lo scontare la giusta pena non ci
è parso essere la liberazione da questo male? […] Pertanto, commettere
l’ingiustizia è, per gravità, il secondo dei mali; ma compierla senza poi
scontare la pena è il primo e più grave di tutti”[4]
…e come i medici privano di alcuni cibi e bevande corpi malati che altrimenti
peggiorerebbero le loro condizioni, così la pena priva dei desideri malvagi,
corrotti, disordinati e intemperanti anime che altrimenti ne verrebbero ancor
più danneggiate. Ma “privare l’anima di ciò che desidera, vuol dire punirla”[5]
e la punizione è la pena. Le parole di
Platone sono chiarissime: la pena è sempre qualcosa che contrasta le ragioni
della dismisura interiore che ha condotto alla trasgressione della legge. Essa
parte dall’esterno, interviene sui corpi e sui beni desiderati, ma compie la
sua opera internamente e in questo senso re-indirizza l’anima verso l’ordine
perduto, ri-educandola.
Questa sua funzione rieducativa la pena svolge quando
ovviamente è proporzionata al tipo di male commesso, in termini moderni alla
gravità del reato. Questa proporzionalità ha un carattere retributivo:
retribuire, cioè restituire a chi ha commesso un certo atto, una certa
contropartita equivalente al danno arrecato. Il crimine lede l’ordine
complessivo della vita individuale e sociale sconvolgendo l’equilibrio nelle
relazioni personali, la pena lo ristabilisce. Per questo essa, agli occhi di
Platone, può risanare. Aristotele parla, a proposito di ordine, di un rapporto
equilibrato tra ciò che è dato e ciò che è ricevuto (giustizia correttiva)[6].
Kant esprime icasticamente questa necessità assoluta di ristabilire
un’integrità perduta con il crimine, riconducendo la pena dalla sfera giuridica
a quella più strettamente morale: “Anche quando la società civile si
dissolvesse col consenso di tutti i suoi membri (se, per esempio, un popolo
abitante un’isola si decidesse a separarsi e a disperdersi per tutto il mondo),
l’ultimo assassino che si trovasse in prigione dovrebbe prima essere
giustiziato, affinché ciascuno porti la pena della sua condotta, e il sangue
versato non ricada sul popolo che non ha reclamato quella punizione: perché
questo popolo potrebbe essere considerato allora come complice di questa violazione
pubblica della giustizia. Questa uguaglianza tra la punizione e il delitto che,
secondo lo stretto diritto del taglione, non è possibile che per mezzo di una
sentenza di morte, si chiarisce da ciò che questa sentenza è il solo modo di
punire tutti i criminali in modo proporzionale alla loro malignità interna”[7]
.
Ora, tralasciando la questione della pena di morte, che ci
porterebbe assai lontano[8],
è importante insistere sul tema dell’uguaglianza tra punizione e delitto e
sulla punizione proporzionale. Su tale fondamento, a differenza di
quanto prospetta la dottrina dominante, l’idea di retribuzione e quella di
rieducazione paiono strettamente connesse, e riconducono il tema della
rieducazione dentro l’alveo del sentimento comune della giustizia. Esso, si
dirà, è fondato su una rivisitazione più o meno urbanizzante della lex
talionis e su questo abbiamo poco da dire, se non notare il fatto che senza
il fondamento di tale innata convinzione che a un male vada contrapposto un
male (che, tuttavia, in tale opposizione diventa a sua volta un bene) e a un
bene vada associato un bene, non vi sarebbe alcuna percezione della giustizia.
Anche il suo superamento evangelico, infatti, conferma la legge del taglione
perché quest’ultima ne rappresenta il trampolino logico-etico.
Peraltro, le teorie più o meno utilitaristiche di difesa e
prevenzione sociale[9] eludono
il tema della proporzionalità e quindi appaiono sostanzialmente ingiuste e
affidate all’arbitrio della percezione di un certo vantaggio sociale cui viene
sacrificata la persona del reo e l’entità del suo agire.
Pur avendo nondimeno un senso - poggiante sulla finalità di
protezione dei cittadini dalle possibili reiterazioni dei reati – dette teorie sono
carenti sotto il profilo della giustizia e la giustizia è una certa uguaglianza
come dice Aristotele[10].
Quindi è corretto assicurarsi che, per esempio, il criminale non torni a
commettere reati, ma la sicurezza di ciò, in termini assoluti data evidentemente
solo da una detenzione perenne, deve essere commisurata alla proporzionalità
retributiva della pena. Lo stesso dicasi per le funzioni di deterrenza, che
hanno un ruolo e un senso solo se collegate al medesimo principio, altrimenti
permetterebbero sotto il profilo squisitamente logico, un pena illimitata,
quanto sono perenni e illimitate le giuste esigenze di sicurezza dei cittadini
onesti. È significativo, dunque, che la dimensione retributiva, che serve a
Kant per giustificare la pena di morte, che egli non considera sproporzionata, appaia
al contrario nella luce di una forma di garanzia del reo, proprio mentre essa
insiste sull’irrinunciabilità della pena. Tale garanzia, come abbiamo visto in
Platone è commisurata alle esigenze dello stesso criminale, che deve essere in
qualche modo liberato dal male che ha commesso. Egli deve essere allora rieducato
attraverso la pena. Vista sotto il profilo educativo, la pena può quindi essere
considerata l’extrema ratio dell’educazione stessa, quando tutti gli
altri mezzi si sono rivelati fallimentari.
La pena:
farmaco o veleno?
Il fatto che la giustizia, anche quando commina una
sanzione, agisce nell’interesse delle persone è un’altra delle questioni
fondamentali sollevate da Platone. La pena libera il colpevole e quindi non
costituisce un male, come il farmaco che produce un positivo sconvolgimento dei
ritmi naturali con lo scopo di ristabilirli non è un veleno. Certo esiste una
vicinanza concettuale e una facile possibilità di rovesciamento sia nel pharmakòs,
sia nella pena come pharmakòs. Nondimeno è bene distinguere: separati da
una pur sottile linea divisoria, farmaco e veleno, da un lato, male e pena,
dall’altro, vanno chiaramente differenziati. Ripeto: nell’un caso ciò che viene
somministrato è nell’interesse del somministrante, nell’altro è nell’interesse
di colui che riceve la somministrazione. Se ciò è vero, nella giustizia si
esprime la preoccupazione per l’altro. Che l’ordine della vita sia stato
infranto dal crimine non è un fatto puramente oggettivo: ha a che fare con la
carne e il sangue degli uomini, non solo delle vittime ma anche dei carnefici,
e con il loro destino. In questa logica l’unica preoccupazione che possiamo
avere per il criminale è che il suo atto lo ha profondamente degradato.
Infatti, come rileva Platone piantando un seme fecondissimo in tutta la cultura
occidentale, “commettere ingiustizia è peggio che ricerverla e sfuggire al
castigo è peggio che subirlo”[11].
Se dunque amare è bene velle cioè volere il bene oggettivo dell’altro[12],
non c’è altro modo che la giustizia per esprimere il comandamento dell’amore,
l’altro grande pilastro d’Occidente. Non c’è altro modo di preoccuparsi di chi
ha sbagliato se non quello di fargli scontare la pena.
La falsa opposizione di giustizia e amore
Contrapporre la giustizia all’amore è, invece, una delle
più grandi mistificazioni in cui cade l’epoca contemporanea. Dall’originaria
unilateralità dell’eresia marcionita[13],
che contrappone il Dio giusto dell’Antico Testamento e il Dio buono del Nuovo –
contro la prospettiva della Chiesa per la quale Jahvé e Cristo sono l’unico
Dio, e dunque la giustizia e l’amore sono la stessa cosa - nascono tutti i fraintendimenti dell’odierna cultura
della scusa. Infatti, «rinnegando il Dio giusto e l'Antico Testamento, Marcione
rinnegava la giustizia, l'ordine sociale, il matrimonio, la famiglia, la
nazione. È anche un tratto generale della gnosi, che disprezzava la giustizia e
la morale, aborriva la procreazione, condannava la proprietà e tutte le regole
che reggevano la vita sociale. La dottrina di Marcione era ugualmente
caratterizzata da una predilezione per tutte le devianze. Il rifiuto del Dio
giusto si accompagnava al rifiuto di quelli che seguono la sua morale. Marcione
affermava che quando Gesù scese agli Inferi non liberò nessuno dei giusti dell’Antico
Testamento. Per contro, aveva liberato i dannati. Ha liberato Caino,
l'assassino di suo fratello Abele che fu invece lasciato all'inferno. Il Dio
buono preferisce gli assassini alle loro vittime. Come pure preferisce i
violenti agli uomini virtuosi. Ha liberato i sodomiti, gli abitanti di Sodoma
che, presi da una violenta pulsione, avevano assediato la casa di Loth,
pretendendo che consegnasse loro i due bei giovani - due angeli - che aveva da
poco accolto sotto il suo tetto. Questi sono coloro che, secondo Marcione, Gesù
avrebbe strappato agli Inferi, preferendoli ai giusti della Bibbia come Noè,
Abramo o Mosè. Dall'amore senza giustizia, Marcione trasse la predilezione per
gli assassini e i violentatori. E anche per i nemici, perché aggiungeva che
Gesù avesse ugualmente liberato dagli Inferi gli egiziani, cioè i nemici del
popolo ebraico. Nel nome della legge dell'amore puro, Marcione operava una
completa inversione dei valori, con il risultato che i cattivi diventavano
buoni”[14].
Vedere la giustizia senza amore e di conseguenza l’amore
senza giustizia: è questo il grande errore etico che fonda un atteggiamento
molto diffuso oggi. La tradizione illuministica ha consegnato questa esigenza
di contemperare la severità della giustizia, intesa come rispetto di un rapporto
esclusivamente oggettivo e quasi matematico, con l’amore che avrebbe la
funzione di addolcire le risoluzioni esclusivamente “giuste”. Ma se alla fine
la giustizia nella sua purezza è considerata disumana, non ci si può accontentare
di moderarla con l’amore. L’amore dovrà prima o poi trionfare, e con esso la
pienezza dell’umano, sui residui di crudele barbarie, ancora legati alla
riparazione giusta, ridotta artatamente a pura vendetta. Ecco perché la società
contemporanea, vittima di questo fraintendimento marcionita, tende sempre più a
rincorrere il criminale, limitando la portata della pena, e al contempo a
dimenticare la vittima innocente. Il risultato è che, credendo di interpretare
lo spirito di una tradizione cristiana, adeguatamente laicizzata e depurata dai
suoi residui oscurantisti, essa ne risulta essere la più decisa
contrapposizione, perché si rende colpevole di quello che Cristo ha
precisamente denunciato con la sua croce, cioè il sacrificio ingiusto
dell’innocente.
L’inferno degli innocenti
Oggi, nota J.-L. Harouel, “la cosa più importante è il
riscatto dei criminali, la loro redenzione terrena. Il criminale è la pecora
smarrita, e solo lui conta veramente. Molto più delle sue vittime, molto più
degli innocenti […]. La società perdona e porge l'altra guancia anche troppo
facilmente. Ciò genera ingiustizia, pericolo, sofferenza. L'amore verso il
criminale - verso la pecorella smarrita che si vuol credere ritrovata - genera
un inferno per molti innocenti”[15].
Sì, perché innocente non è solo la vittima diretta del crimine, ma tutti coloro
che erano a lei legati da vincoli di parentela, amicizia, amore, lavoro etc. A
loro vanno aggiunti tutti gli altri che potrebbero identificarsi con la vittima
perché disarmati, come vuole la legge, e fiduciosi nella protezione dello Stato
cui offrono obbedienza. E quando il reo non è adeguatamente punito e la pena
non è scontata, questi innocenti subiscono un nuovo affronto da chi invece
dovrebbe difenderli. Ciò fa venire meno le relazioni di convivenza civile e
politica in cui è fondamentale il nesso protezione-obbedienza. Di nuovo la
società e il suo ordine si distruggono e risorge la guerra di tutti contro
tutti. Questo potrebbe anche essere uno dei motivi per cui alla riduzione della
severità della giustizia penale corrisponde l’aumento costante della violenza
sociale, ossia per l’appunto l’inferno degli innocenti.
La privazione della libertà…e solo quella
Tutto ciò non significa che il regime di coloro che sono
riconosciuti colpevoli di un qualche reato debba essere reso più duro per
soddisfare il sadismo delle masse in cerca di capri espiatori. Diciamo
chiaramente che non può esserci alternativa alla privazione della libertà come
unica pena compatibile con la dignità umana. E ribadiamo altresì che uno Stato
serio vigila affinché questa sia l’unica pena comminata al condannato, che per
il resto va rispettato anche con la severa sorveglianza dell’ambiente
carcerario, spesso luogo di surrettizie pene supplettive, fuori da ogni legge e
civiltà. Ma, una volta stabilito ciò con la massima decisione, dobbiamo anche
affermare che la pena, di qualsiasi rilevanza, va scontata per intero. In
letteratura “sotto il profilo dinamico, la pena attraversa tre fasi distinte:
edittale, o della comminatoria legislativa (la pena prevista dalla legge per il
reato); giudiziale o della determinazione in concreto (la pena applicata dal
giudice al singolo reo); esecutiva o della espiazione effettiva (la pena
eseguita in base alla condanna)”[16].
Bene, giustizia vuole che tra queste tre fasi non esista differenza e la pena
edittale finisca per essere quella effettivamente espiata dal reo (facendo
salve ovviamente le garanzie processuali e procedurali per la determinazione
della sua colpevolezza, con la valutazione di tutte le circostanze del reato).
Premi?
Tutto ciò che attiene alle forme più o meno premiali di trattamento del colpevole appare da questo
punto di vista un’indebita inserzione dell’amore nel diritto,
laddove il diritto non ne necessita affatto perché già lo contiene. Da esse
altresì traspare un progetto assai ambizioso, per non dire presuntuoso: quello
di condizionare i soggetti umani affinché non commettano più reati. È l’idea,
connessa alla cosiddetta prevenzione speciale[17],
che dovrebbe sapientemente dosare, assieme alla punizione per i comportamenti
che si vogliono evitare, i rinforzi per quelli che si vogliono promuovere. Un
pregiudizio della vecchia psicologia comportamentista crede che l’uomo sia
oggetto di “allevamento” e tralascia come irrilevanti quelle particolarità che
hanno condotto alla devianza, spesso al confine con la patologia psichiatrica,
sempre aventi a che fare con la sostanziale libertà dell’essere umano. Tale
psicologia mette al centro della sua riflessione la cosiddetta “legge dell’effetto”:
“Un’azione accompagnata o seguita da uno stato di soddisfazione tenderà a
ripresentarsi più spesso, un’azione seguita da uno stato di insoddisfazione
tenderà a ripresentarsi meno spesso”[18].
Su tali basi si può costruire il progetto di prevedere e poi anche di
controllare i comportamenti umani, dosando premi e punizioni. Il problema è che
nell’uomo il determinismo di stimolo e risposta non è così facile da
individuare, né consente previsioni affidabili. Se anche statisticamente una
legge fosse in grado di offrire indicazioni di massima sul comportamento, il
caso individuale nell’umanità non risulta mai del tutto sussumibile sotto la
generalità della legge. Questo dai più ottimisti è attribuito a una qualche arretratezza
o imperfezione cognitiva che ha da essere superata con il progresso del sapere,
dai più realisti è considerato qualcosa di connesso alle caratteristiche
intrinseche del soggetto umano e alle sue specificità. Come che sia, gli uomini,
anche ammesso che ciò sia eticamente accettabile, non si allevano e non si condizionano
a piacimento.
Libertà, condizionamento e redenzione
La pena ha per contro il pregio di poter essere liberamente
assunta dal reo, caratterizzandosi come il mutamento di una condizione esterna
che può risuonare internamente solo se viene fatta risuonare
internamente. Essa però è il correlato di un certo atto e non trae la sua
validità sull’effetto che può fare sul reo, benché tale effetto sia augurabile.
Qui rimane assolutamente centrale la libertà umana, quanto al processo di
rieducazione che non può non essere un processo di autoeducazione, solamente
facilitato dalle condizioni esterne. L’alternativa è da un lato la sproporzionata
fiducia nelle capacità condizionanti di una teoria che offrirebbe le chiavi
della redenzione del reo, dall’altra la riduzione di quest’ultimo a semplice
oggetto di intervento, materia malleabile nelle mani degli ingegneri del reinserimento
sociale. Una strategia fin troppo scoperta per chi può trarre grandi vantaggi
dalla dissimulazione e dalla possibilità, da parte di chi ne è sottoposto, di
compiacere i propri demiurghi. Così il rapporto utilitaristico tra lo sconto/concessione
e le dimostrazioni di ravvedimento arriva a falsare tutto il processo, che
cionondimeno, a motivo del compiacimento che si trasforma surrettiziamente in
verifica sperimentale dei presupposti della teoria, si riproduce metastaticamente,
distruggendo alle fondamenta il sistema penale.
Tale distruzione di attua nel fatto di produrre
concretamente l’erosione della pena. Per quanto il giro concettuale sia lungo e
le giustificazioni articolate, il nocciolo effettuale è sempre la ritrosia a
punire e a scontare e la tendenza a scusare, a patto, naturalmente che si
dimostri nel foro esterno un ravvedimento la cui reale presenza nel foro
interno nessuno può valutare se non nella volontà di scontare la pena. Quale
atto esterno può infatti offrire la sicurezza di un mutamento interiore se non
il fatto che da tale mutamento non si vuole in alcun modo ricavare vantaggi?
Per contro in tutti gli altri casi nessuno può avere alcuna certezza riguardo
quello che è avvenuto nel cuore della persona che ha commesso un grave reato,
né sulle sue reali intenzioni relativamente al futuro.
La giustizia riparativa
Un’osservazione analoga si può rivolgere al concetto di giustizia
riparativa, recentemente affermatosi in ambito statunitense e poi esportato
nella legislazione internazionale ed europea. Secondo questa visione della
giustizia, il reato “è una lesione altrui e l’obiettivo è, quindi, quello di
porre rimedio a tale lesione, attraverso la partecipazione attiva dei soggetti
coinvolti alla commissione del delitto. Il fine ultimo è la ricerca di una
soluzione, quantomeno, condivisa fra le parti. Tale ultima caratteristica
conferma il fulcro della giustizia riparativa: un sistema partecipativo e
inclusivo”[19].
Insomma, il sistema giuridico dovrebbe favorire gesti e atti da parte del
criminale, finalizzati a compensare il danno prodotto con il suo comportamento.
Le considerazioni che qui avanziamo prescindono dagli ambiti particolari in cui
questa prassi può avere un senso: la giustizia minorile e i casi di lieve o
lievissima entità. Ciò che invece interessa è l’ipotesi di un’applicazione a reati
gravi, dove si misurano i significati ultimi e radicali di una simile
impostazione. Iniziamo col notare qui un’interessante inversione della giurisdizione
islamica, che affida alla famiglia della vittima la decisione sulla pena:
affidarsi al reo affinché ricomponga la frattura provocata con il suo crimine.
In entrambi i casi la tendenza è quella a privatizzare la giustizia, nell’uno
accentuando l’elemento vendetta, nell’altro quello perdono. Il tutto va a
detrimento della ricerca di una oggettività giusta che solo la terzietà
dello Stato può consentire, oltre e al di là di ogni coinvolgimento soggettivo.
Ma è proprio questo che si vuole promuovere nelle parole di
Zagrebelski: “Il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una
società che prenda le distanze dall’idea del capro espiatorio, non dovrebbe il
diritto mirare a riparare quella frattura? Da qualche tempo si discute di
giustizia riparativa, restaurativa, riconciliativa. Studi sono in corso,
promossi anche da raccomandazioni internazionali. Si tratta di una prospettiva
nuova e antichissima al tempo stesso che potrebbe modificare profondamente le
coordinate con le quali concepiamo il crimine e il criminale: da fatto
solitario a fatto sociale; da individuo rigettato dalla società a individuo che
ne fa pur sempre parte, pur rappresentandone il lato d’un rapporto patologico”[20].
Come si vede da tale riflessione, contrariamente alle intenzioni di molti suoi
sostenitori, si tratta qui di una giustizia nuovamente centrata sul reo, che
deve tornare ad essere “incluso” nella società, attraverso una riparazione
da attuarsi nei confronti della vittima e del suo entourage. Paradossalmente,
ma non tanto, ancora il reo è il soggetto, la vittima è l’oggetto. Oggetto di
una richiesta di riparazione che mai può essere compiuta, né mai potrebbe
essere esaudita se non con una nuova intrusione del criminale nella vita della
vittima o dei suoi affetti, questa volta nella veste di aspirante penitente.
No, logicamente, ontologicamente ed eticamente nulla può
essere riparato, perché un gesto non può sopprimerne un altro e nulla, nemmeno
Dio, può cancellare ciò che è avvenuto. Certamente non si vuole escludere che un
processo di cambiamento nel cuore di coloro che hanno subito gravi perdite
possa condurre al perdono, che peraltro è in questi casi concesso gratuitamente.
Nulla, d’altro canto, vieta a nessuno di chiedere scusa e di voler dimostrare
che si è cambiati. Ma la prima prova di tale intenzione rimane quella di non
voler ottenere vantaggi insieme a quella di rispettare profondamente quelli che
sono stati danneggiati, anzitutto nella sfera privatissima e sacra del loro
dolore. Lo Stato, che diventa mediatore in questa impossibile mediazione tra la
vittima e il carnefice, mostra in realtà predilezione per il secondo, che così
potrà essere re-inserito, risanando la ferita sociale del crimine, a danno
della prima, quantomeno nel fatto che essa diviene mezzo di una restitutio
ad integrum che finisce per compiersi in un contesto sociale dove il suo individuale
e specialissimo vissuto ha da stemperarsi e annullarsi sistemicamente.
A prima vista, più che giustizia riparativa, mi pare che si
tratti di una giustizia impudica, che contempla la relazione tra il criminale e
l’innocente come una relazione fra parti, già in qualche modo parificandole.
Mentre lo Stato è terzo tra l’accusa e l’imputato, che rimane presunto
innocente, una volta che quest’ultimo sia stato dimostrato colpevole, non è più
il caso di mediare. Il colpevole e la vittima innocente non sono parti da
avvicinare, sono tra loro incommensurabili. Ogni tentativo di mediazione denuda
l’innocente, chiamandolo al cospetto dello sguardo del colpevole, sotto lo
sguardo dello Stato, colpevolizzando la vittima per la normale volontà di
ritorsione che emerge in modo sacrosanto alla presenza del colpevole stesso.
L’innocente, nudo e immobile nel suo dolore, è chiamato a contenersi di fronte al
criminale che diventa il vero soggetto agente, anzitutto della sua
redenzione. Lo Stato diventa il finto-terzo garante dei tempi, dei luoghi e
delle condizioni in cui questa nuova umiliazione può avvenire, senza rischi per
il colpevole. (naturalmente non si sta descrivendo una situazione, ma una
logica, cioè qualcosa che può succedere perché implicito in un certo orientamento).
Cambiare orientamento
Quello che sarebbe auspicabile è invece un cambio di
paradigma proprio nell’orientamento fondamentale. Perché, impudica verso la
vittima, anche la cosiddetta restorative justice, in molte delle sue
espressioni rimane invece estremamente pudica nei riguardi della pena,
indebitamente ricondotta nell’alveo della vendetta e posta sotto i riflettori
della ricerca in vista di un suo superamento. Siamo ancora invischiati nella
cultura della scusa. Al contrario sarebbe necessaria una presa di coscienza che
l’unica relazione rispettosa verso chi è offeso è la garanzia della punizione
giusta dell’offensore e che ogni altra soluzione che attenui, riduca o elimini
questa possibilità è implicitamente uno schiaffo all’innocente e una carezza al
colpevole.
Ancora il tema dell’innocenza va messo a fuoco in modo privilegiato.
Chi è innocente? Chi non nuoce mai? Chi non minaccia di nuocere? Evidentemente
nessuno. Ma, come detto all’inizio, ciò non può divenire pretesto per non distinguere,
per confondere innocenza e colpevolezza, che sono idee con una chiara
connotazione e descrivono precisi stati di fatto. Rispetto a un accadimento che
ha avuto principio in un soggetto agente[21],
è sempre possibile individuare in questo soggetto una responsabilità. Se il
comportamento ha nuociuto, esso è ingiusto, altrimenti è innocente. E rispetto
alla colpevolezza bisogna sempre preferire l’innocenza: non c’è alcuna
diluizione post-moderna che possa confutare questo principio fondamentale
dell’etica e del diritto. Il diritto afferma una cosa fondamentale: bisogna
essere giusti verso tutti, anche verso i nemici e i colpevoli, e lo Stato di
diritto si assume il fardello di questo compito immane. Ma questo non significa
che la situazione di colpevolezza e innocenza possano essere trattate
ugualmente nella loro incalcolabile differenza. La carne e il sangue delle vite
annientate dalla sopraffazione altrui e di quelle consumate dal dolore gridano
vendetta ogniqualvolta un pensiero debole, vile e indegno colpevolmente lo
dimentica.
[1]
Affermazione riconducibile all’illuminismo liberale tedesco di P.J.A. Feuerbach,
Lehrbuch des gemeinen in Deutschland gültigen peinlichen Rechts, Gießen
1812, p. 22, cit. in F. Bertoldi, L’origine romanistica del principio nullum
crimen, nulla poena sine lege, https://forhistiur.net/2016-10-bertoldi/?l=it#notes_n66,
dall’Autrice appunto ricondotto alle sue origini romanistiche.
[2] C.
Schmitt, Il valore dello Stato e il significato dell’individuo, tr. it.
Il Mulino, Bologna, 2013, p. 60.
[3] G. De
Vero, Corso di diritto penale, Giappichelli, Torino 2020, p. 4.
[4] Platone,
Gorgia, 479d, tr. it., La vita Felice, Milano 2013, p. 209.
[5] Ivi,
505b.
[6]
Aristotele, Etica Nicomachea, V,5 e V,7. La giustizia correttiva “è
capace di portare riparazione nelle relazioni” (V, 5). “Il giusto qui in
oggetto è dunque ciò che è proporzionale, e l’ingiusto ciò che viola le
proporzioni”, cioè che “vuole di più” rispetto a quanto gli spetta nelle
relazioni con gli altri, causando agli altri una diminuzione in ciò che spetta
a loro. Il “giudice cerca di rendere uguale” questa disuguaglianza (V,7).
[7] I. Kant,
Metafisica dei costumi, tr. it. di G. Vidari, Paravia, Torino 1919, p.
177.
[8]
Il discorso di Kant ha una sua immediata comprensibilità perché oppone alla
morte procurata dal criminale, la morte da lui subita per mezzo della
giustizia. È evidente che qui si tratta del medesimo danno e appare a tutti
proporzionato. Ma il diritto non può limitarsi a questa pratica di infliggere
al criminale ciò che il criminale ha inflitto alla sua vittima. Questo
contrappasso infatti assumerebbe a proprio modello le azioni del criminale,
producendo il paradosso che il diritto dipenderebbe dalla sua violazione e
pertanto si annullerebbe come tale. La pratica della giustizia si è allora
correttamente orientata a dar la prevalenza alla pena della privazione della
libertà, accettando la sfida di una maggiore difficoltà a definire la
proporzione tra crimine e pena, data la sostanziale eterogeneità tra ciò che è
inflitto e ciò che è subito. Ma questo è un falso problema, anzitutto sotto il
profilo logico, perché riterrebbe impossibile un’operazione assai comune,
quella di mettere in rapporto di proporzione grandezze diverse in cui al mutare
dell’una muta l’altra in misura corrispondente. Avendo a disposizione una
gerarchia di gravità dei reati, da un lato, e una possibile estensione
temporale della pena, dall’altro, è sempre possibile con buona approssimazione
costruire un sistema complessivo delle pene, certo soggetto a sempre nuove
revisioni e miglioramenti, perché in tale campo i rapporti numerici contemplano
grandezze etiche nelle quali la precisione matematica e l’esattezza, come ha
stabilito in maniera definitiva Aristotele non è ottenibile. D’altro canto, le
prospettive alternative dovrebbero commisurare la quantità della pena all’utile
della società, grandezze non così eterogenee ma aventi il grave difetto di
prescindere dalla persona del reo e dagli atti da lui compiuti: si vedano le
numerose opere distopiche che su tale tema sono state elaborate. In esse la
società individua sempre nuovi sistemi per evitare il crimine, fino all’utilizzo
di condanne preventive prima che questo sia commesso, costruendo castelli in
aria, o meglio inferni sulla terra, sulla base di semplici ipotesi e sulla
testa dei cittadini che vengono sacrificati “per la felicità del maggior
numero”.
[9] Cfr. anche. infra, nota 17.
[10] “Ora, è
opinione corrente che è ingiusto chi viola la legge e chi desidera avere di più
e non rispetta l’uguaglianza; di conseguenza è chiaro che sarà giusto chi
osserva la legge e chi rispetta l’uguaglianza”: Aristotele, Etica nicomachea,
V,2.
[11]
Platone, Gorgia, 474b.
[12]
È quello che Tommaso chiama amor benevolentiae, amore pieno,
contrapposto all’amor concupiscientiae (amore che punta a un qualche
utile): “L' amore col quale si ama un essere, volendo ad esso il bene, è un amore
in senso pieno e assoluto (est amor simpliciter), invece l’amore col
quale si ama una cosa per ricavare del bene a vantaggio di terzi (ut sit
honum alterius), è un amore secundum quid” (Tommaso, Summa
Theologiae, I-II, q. 26, a. 4). K. Wojtyla, pur all’interno di una tematica
lontana dalla presente, lo spiega molto bene con questa espressione: “Non ‘Io
ti desidero come un bene’, ma “Io desidero il tuo bene”: Amore e responsabilità,
morale sessuale e vita interpersonale, tr. it. Marietti, Genova 1980, p.
60.
[13]
Marcione è un cristiano eretico vissuto tra il I e il II secolo (85-160 ca.).
Dopo aver fatto fortuna come armatore, trasferitosi a Roma, grazie a una
cospicua donazione, entrò nella Chiesa locale, ma presto ne fu scomunicato a
causa delle sue idee nel 144. Elaborò allora un proprio canone di scritture
sacre, comprendenti dieci lettere paoline (escluse le pastorali e quella agli
Ebrei) e il vangelo di Luca emendato dagli elementi giudaizzanti. Scrisse
inoltre le Antitesi, un testo in cui contrapponeva Antico e Nuovo
Testamento cercando di dimostrarne l’incompatibilità. Tutto ciò fece da base
dottrinale per la fondazione di una Chiesa concorrente a quella cattolica che
ebbe una certa diffusione fino al secolo successivo. Egli “leggendo le epistole
paoline, in particolare quella ai Romani e ai Galati, fu colpito dall’opposizione
tra la Legge e il Vangelo, tra la Giustizia e l’Amore. In questa opposizione
egli credette di discernere la chiave del cristianesimo autentico. Ciò che egli
trovava in Paolo, pensò di ritrovare anche in Gesù: anche Gesù, infatti, aveva
abrogato l'economia della Legge per sostituirvi quella del Vangelo. Traendo le
conseguenze da questa opposizione, Marcione rifiuta l'Antico Testamento,
testimonianza di un sistema abrogato e sorpassato, e annuncia l'esistenza di
due divinità, quella della Legge, cioè il Dio dell'Antico Testamento, e quella
del Vangelo, il Dio d'amore predicato da Gesù. Marcione ammette dunque
l'esistenza di due divinità. Si ritrova in questa idea un certo dualismo,
fondato non sull’opposizione bene-male, ma sull'opposizione Amore-Giustizia,
Vangelo-Legge”: M. Simon-A. Benoît, Giudaismo e cristianesimo,
tr. it., Laterza, Roma, 1997, p. 122.
[14] J.-L.
Harouel, I diritti dell’uomo contro il popolo, tr. it., Liberilibri,
Macerata 2018, pp. 56-57.
[15] Ivi,
p. 63.
[16] AaVv, Enciclopedia
Treccani, sv Pena, https://www.treccani.it/enciclopedia/pena/
[17]
“La teoria della prevenzione speciale considera la pena uno strumento per
impedire che il reo in futuro delinqua. Tale risultato può essere raggiunto o
attraverso la rieducazione del reo, ossia il recupero morale interiore o la
maturazione di una coscienza etico-civile; o mediante l’intimidazione, e cioè
l’efficacia dissuasiva che la condanna o la sua esecuzione possono esercitare
sulla psiche del reo; infine, con la neutralizzazione, ovvero la segregazione
carceraria del reo impedendone materialmente la possibilità di delinquere. La
teoria della prevenzione generale sostiene, invece, che la pena serva a
impedire che i consociati delinquano. La pena svolge, quindi, una funzione
dissuasiva perché intimidisce i consociati con la minaccia di una conseguenza
negativa, e al contempo di persuasione perché la comminatoria di una
conseguenza negativa implica il messaggio che delinquere non è giusto. La teoria
in esame tende a concepire la punizione del reo in chiave meramente strumentale
nel senso che egli non viene punito per se stesso, ma per fornire un esempio
agli altri”: ibidem. Prevenzione speciale e generale costituiscono forme
di interpretazione del concetto di pena alternati a quella classica della
retribuzione, cioè della compensazione del male commesso e del ristabilimento dell’equilibrio
della giustizia fra gli uomini infranto dal crimine, con un’afflizione
proporzionale a quella inflitta dal criminale alla sua vittima.
[18]
E.L. Thorndyke, Animal intelligence, Mc Millan, New York 1911, in C.
Cornoldi, Il Comportamentismo, in P. Legrenzi (cur.) Storia della
psicologia, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 147-176, qui p. 162.
[19] M. V. Maggi, Che cosa si intende per giustizia riparativa?, https://www.iusinitinere.it/cosa-si-intende-giustizia-riparativa-4721; si veda anche, per farsi rapidamente un’idea, M. Scarsi, Mediazione penale: cos'è e come funziona in Italia, https://www.studiocataldi.it/articoli/36653-mediazione-penale-cos-e-e-come-funziona-in-italia.asp; Per un approfondimento di veda F. Reggio, Giustizia Dialogica. Luci e ombre della Restorative Justice, Milano, FrancoAngeli 2010, recensito in modo preciso e profondo da F. Pozziani in “L’Ircocervo. Rivista elettronica italiana di metodologia giuridica, teoria generale del diritto e dottrina dello Stato”, http://www.lircocervo.it/index/pdf/2010_02/recensioni/2010_02_05.pdf
[20] In M.
V. Maggi, cit.
[21]
Aristotele, Etica Nicomachea, III,3.
N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore, mantenendo inalterato contenuto e titolo.
Nessun commento:
Posta un commento