Cristo della storia e Cristo della fede
Il tema teologico del rapporto Cristo della storia-Cristo
della fede mi è sempre risultato ostico. Mi è sembrato un artificio ermeneutico
subdolo. Contro l’assurda pretesa cristiana di un Dio che entra nella storia,
lo studioso moderno lo risospinge ai margini buttandogli addosso gli abiti di
una fede pura e lasciando al secolo solo l’immagine impallidita di un maestro
arguto. Ho amici cattolici, della cui sincerità e profondità teologica non
posso dubitare, che invece hanno ormai digerito l’intera questione e si sono
anzi dedicati anima e corpo al Cristo storico. Al contrario per quanto mi
concerne non mi convincerà mai tale visione schizofrenica e tendenzialmente
nestoriana che separa le due nature del Figlio in due persone diverse, appunto
il Cristo storico e il Cristo mistico. Non mi convince perché attribuisce ai
primi cristiani un’ingenuità esagerata, quasi che la loro fede innocente e
bambina – quindi vera, potente e intelligente - fosse prigioniera di un
irrimediabile infantilismo nel credere che Lui era veramente risorto,
che i suoi miracoli erano tali e quali i suoi discepoli e apostoli li avevano
raccontati, che sarebbe infine tornato qui su questa terra a fondare il suo Regno dopo un tempo di indicibili tribolazioni. Oggi facciamo una gran fatica a
credere evangelicamente come bambini (e non come adulti infantilizzati) perché
il mondo ha perso il suo incanto. L’ermeneutica secolarizzante della teologia
liberale è solo un sintomo. David Strauss, Ernst Renan e le loro vite di Gesù
non hanno fondato niente, ma sono l’effetto di una svolta epocale impressa
dall’illuminismo alla cultura della modernità. Questa diviene luogo di un
tramonto nel quale si spezza definitivamente l’equilibrio tra mondanità e sacro
che il cristianesimo aveva saputo mantenere per più di un millennio e mezzo.
Perché se è vero che i cristiani sono atei rispetto ai pagani - e sia benedetto
l’ateismo che desacralizza il cosmo restituendo allo spirito la sua purezza
dalle contaminazioni naturalistiche, che si portano dietro uguali esiziali
commistioni storico-politiche – essi pongono il mistero e la trascendenza non
alla periferia, ma al centro della vita, perché la vita e il mondo – semplici
creature - possano uscire dall’ombra della morte e sostare in eterno alla luce
dell’Onnipotente. Il problema è oggi se questa centralità è ancora possibile.
Soggettivamente possibile, si intende. Perché la modernità ha eroso
propriamente l’innocenza della fede, costringendoci a essere cristiani adulti,
vale a dire a non essere più cristiani.
Martini, Bultmann e la teologia liberale: demitizzazione
e storicismi
Ho grande ammirazione per il cardinal Martini, uomo d’altri
tempi, maestro di stile e di sapienza. Egli è a mio parere un combattente per
la verità che ha optato per una ritirata strategica: fare proprio il metodo
storico-critico nato per distruggere la fede umanizzando strutturalmente il
Figlio, e con questo metodo preparare il contrattacco della verità stessa,
nella fiducia che la verità storica non può mai diventare un argomento contro
la fede nella Verità.
Il guaio sono le
miriadi di presupposti che tale metodo implica e che tutte convergono in un
grande contenitore falso, la demitizzazione. Operare cioè una selezione
sulle cosiddette “rappresentazioni” del Nuovo Testamento, perché possano “parlare
direttamente e senza difficoltà agli uomini d’oggi”, come dice Bultmann,
caratterizzati dal primato di un soggetto libero dal giogo delle forze cosmiche
e responsabile di una salvezza ottenibile per via eminentemente morale. Tale
propensione allo svilimento soggettivistico del Mistero implica di necessità un
concetto di storia proprio della teologia liberale che, pur rifiutata dallo
stesso Bultmann, analogamente esclude a priori e in modo radicale ogni
comunicazione di dimensioni, ogni apertura, ogni via mistica, e lo fa prima di
mettere in moto i processi di conoscenza del suo oggetto, indossando una sorta
di occhiali che accecano selettivamente laddove il mondo offre le sue
possibilità di re-ligarsi, cioè di riconnettersi alle sue origini mistiche…
Queste ultime sono mito, un residuo di incanto del mondo, che la fede
moderna deve escludere per accedere a un Totalmente altro che non può essere
Cristo, il quale non volle propriamente essere il Totalmente altro.
Insomma bisogna demitizzare e storicizzare, il che
significa anche recidere i legami tra Bibbia e liturgia - a meno che anche
quest’ultima non diventi spettacolo profano per minoranze disperate – quindi
tra teologia e prassi e quindi condannare l’esistenza cristiana ad una
strutturale insignificanza, che è il preludio per il finale consegnarsi ad
un’altra più radicale e finale forma di disperazione: la teologia politica, la
teologia della liberazione, cioè un nuovo pelagianesimo sociologico che chiude
definitivamente gli orizzonti di Dio e dello spirito. La scommessa di Martini,
nobilissima e colta, ardita e consapevole, è destinata ad essere persa, nonostante
un’ormai consolidata tradizione cattolica di matrice storico-critica possa
offrire oggi una grande quantità di notizie erudite su Gesù, un’eraclitea multisapienza
che non appare in grado di offrire alcuna corroborazione agli sforzi di chi
dentro la modernità laica si arrabatta per continuare a credere
Credere di credere e di non credere
Malgrado si possa ben avvertire la gravità di queste
derive, bisogna ammettere che ci siamo dentro fino al collo. Forse il processo
ci ha coinvolti in modo tale da farci dubitare oramai della nostra capacità di
credere autenticamente... perciò ci arrabattiamo e forse, come dice
Vattimo, possiamo solo credere di credere.
Non so come i più affrontino tale situazione. Io spesso mi
trovo a pensare, guardando quel residuo di popolo che assiste alla Santa Messa:
“Ma chi di loro crede? E chi solo crede di credere? E chi invece non crede in
nulla ma non sa rinunciare?” Confesso che talora mi sono sentito parte, di
volta in volta, di una di queste categorie. A volte credente, a volte credente
illuso altre infine credente disilluso.
La figura di San Manuel Bueno Martir mi è stata compagna
nei momenti peggiori: il prete senza fede che annuncia la necessità morale
della Chiesa e della fede perché è l’unica speranza di un’umanità perduta: non
si può negare al popolo la consolazione di credere in un altro mondo, però a
questa favola noi non crediamo più. Poi, come dice Unamuno, penso che Dio Nostro
Signore, per non so quali sacri e imperscrutabili disegni, mi ha fatto credere
incredulo. Penso che morirò credendo di non credere, o meglio temendolo e
perciò credendo in una condizione di desolazione attiva e rassegnata. Colpito
al cuore: tutto vero. Solo che questa idea della Chiesa come istituzione
dell’inganno sistematico a buon fine non riesco a digerirla. No, quest’idea
grand’inquisitoriale non mi attrae perché forse è il ruolo al quale lo spirito
dei tempi vuole condannare l’istituzione
voluta da Gesù. Questi la fondò perché fosse un baluardo: non praevalebunt!
(Mt 16,18). Non perché si adeguasse, anche con le più nobili intenzioni a beneficio
(quale?) del popolo (quale?). E baluardo significa che se smetti di credere in
Cristo ma credi nella Chiesa, allora stai ancora credendo in Cristo. Perché se
credi nella Chiesa credi nella possibilità della presenza di Cristo nel mondo
mediante il rito eucaristico. Perciò la sua conservazione è essenziale: non
tocchi l’uomo ciò che Dio ha istituito.
Il baluardo liturgico
Con la Chiesa-baluardo rimane dunque la forma liturgica
come unico vero ponte, e questa deve mantenersi incorrotta, cioè intoccata e
inalterabile dalle mutevoli volontà umane (subito immagino l’obiezione: quante
volte la liturgia si è modificata?! Sì, però lo ha fatto quasi per forza e
sempre malgrado la giusta e naturale resistenza al cambiamento che costantemente
si dà nelle cose che ambiscono all’eterno). Noi ci dobbiamo aggrappare a questa
forma perché è l’unico modo per rintracciare il contenuto, solo nella prassi
liturgica fatta di carne e di simboli rimane libero un corridoio metafisico che
la teoria e i tempi hanno dimenticato. Solo lì c’è comunicazione tra il tempo e
l’eterno, che nel tempo vi è chi vorrebbe eternamente interrotta.
L’inutile ragione
Non c’è alcuna salvezza, per il resto, nelle pratiche
retoriche, talvolta neanche disdicevoli, che cercano di lavorare sul piano
dottrinario, qualcuna per trovare compromessi, in cerca di un essenziale che
sempre, inevitabilmente sfugge, qualcun’altra per rivendicare tradizioni che
nella loro compiutezza immacolata diventano feticci morti. D’altro canto la via
razionale, in epoca di dissoluzione e disseminazione del logos, pare
sbarrata, non perché in sé malvagia, ma perché si è perso il gusto della
ragione dirimente e del pensiero che obbliga in coscienza. Quello post moderno
è per sua natura un logos disimpegnato, frivolo e liquido. Impossibile
costruire le grandi cattedrali del pensiero, come in passato, con questo
materiale di risulta. Soprattutto niente argomento ontologico, niente cinque
vie: grandi salti mortali di un pensiero fortissimo che tuttavia presupponevano
una sua dimensione già intimamente sovrannaturale (non intenderete se non
crederete)… esso che pure qualche difetto lo aveva, per esempio dimostrare il Dio-essere ma non il Dio-amore, il Dio unitario del monoteismo e non quello
trinitario di Nicea.
L’opinione dei mortali
Mancando la via che è, ossia quella del pensiero
direttamente e orgogliosamente teo-logico, ed escludendo quella che non è
(ossia quella del pensiero debolmente a-teo-logico, come abbiamo appena fatto),
rimane quella delle opinioni dei mortali. Dialettiche che non si
autofondano, ma che, in quanto ombre delle idee, possono gettarsi nelle tenebre
o nella luce.
A maggior ragione non c’è salvezza in loro, lo ripeto, ma
non bisogna disprezzare il tentativo di ricostruire sentieri che portano a
soglie dalle quali si può decidere se spiccare un salto, con l’unica forza
della grazia, oppure, in alternativa, senza grazia, fermarsi e tornare
indietro. La fede è un salto che un pensiero, anche il migliore, non può
produrre, che è possibile solo se è Dio a venire incontro. Però per giungere
alla cima bisogna prima arrivare ai piedi della montagna o in un campo base
dal quale attaccare la vetta. Per questo è necessaria una guida logica (Dio, a
volte, come disse padre Sommavilla, è una sfida logica).
La via agapica
Ora, una prospettiva di ricerca, tra le tante, per pensare
all’ombra della luce potrebbe dare per acquisite le tematiche ontologiche, e
optare per indagare quelle agapiche. “Dio è amore” (1Gv 4,16); “Se
parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei
come un bronzo che rimbomba o come un cembalo che strepita. E se avessi il dono
della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se
possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità non
sarei nulla…” (1Cor 13, 1-2). Del tutto consequenziali i passi di Giovanni e
di Paolo: non avere l’amore significa non avere Dio, e quindi non poter essere
niente.
Ma che cosa significa questa apodittica affermazione di
Giovanni, così appassionatamente corroborata da Paolo? Che cosa è l’amore?
Uno schizzo fenomenologico
Domanda da un milione di dollari, si direbbe. Dunque è
troppo ingenuamente presuntuoso rispondere. Però iniziare a pensare non è
peccato … e allora potrei cominciare ipotizzando che l’amore allude a due
dinamiche inspiegabili e misteriose: la creatività e il legame. Noi esistiamo
per una forza generativa e siamo in questo esistere dei con-esseri, legati
misteriosamente agli altri e al cosmo, che misteriosamente si coinvolgono con
noi e ci tengono in saldi vincoli. No, non pensiamo a nessuna spiritualità new
age, ultima e più bassa emanazione del panteismo spinoziano. È piuttosto
una questione fenomenologica. Il residuo di una generale epoché sulla
realtà e sui pregiudizi che girano sulla sua fondazione è proprio l’idea che
essa deve pur essere scaturita da qualcosa che a sua volta non
scaturisce e, proprio perché è possibile considerarla complessivamente, deve
pur manifestare un’omogeneità e un’affinità interna. Il fattore
fenomenologico è dato dal fatto che, rispetto alla realtà, la coscienza libera
configura necessariamente la domanda circa l’origine e la struttura
e ciò dobbiamo ritenerlo inevitabile effetto dell’incontro della nostra
apertura coscienziale con la totalità del reale che ad essa viene si schiude,
proprio nella forma della più radicale e originaria delle domande. Detto questo
nulla, tuttavia, è stato ancora compreso realmente e tutto va lasciato ad un
autentico approfondimento. Ma almeno le premesse del discorso sono state date e
da tali premesse si può dedurre una conseguenza: la frase di
Horkheimer: “Senza una base teologica, l’affermazione che l’amore è meglio che
l’odio resta assolutamente immotivata e priva di senso” è falsa. Perché l’amore
è il vero e unico centro da cui la radice delle cose e il loro intreccio possono essere pensati. L’amore sembra essere un vero e proprio vestigium Trinitatis
lasciato nel mondo perché noi incontrassimo qui le tracce della sua forma più
sublime e originaria. Esso è perfettamente accessibile all’esperienza comune e
al pensiero naturale che attribuisce a Filia la stessa possibilità di
una permanenza delle cose e a Neikos la loro fine.
L’amore compreso e frainteso
L’amore è lì a nostra disposizione. Lo vediamo, lo capiamo,
lo sperimentiamo da soli, senza bisogno di alcun aiuto (senza una base
teologica). Esso ci ha vincolati a sé: tra gli infiniti vincoli che
determina, noi siamo compresi e avvinti. Lo dimostra e contrario il
numero incomparabile di fraintendimenti cui è stato sottoposto, più alto,
potremmo dire senza bisogno di alcun sondaggio statistico, di quello di
qualsiasi altro concetto rilevante per la vita. Dalle canzonette alla
pornografia, dai romanzi rosa alle telenovelas, dalle ideologie politiche allo
spiritualismo new age… sembra proprio che abbia ragione il Céline del Voyage
quando allude al fatto che con l’amore incomincia una grande impostura,
innanzitutto politica, dice lui: “Quando i grandi di questo mondo si mettono ad
amarvi, è che vogliono ridurvi in salsicce da battaglia... È il segnale... È
infallibile. È con l'amore che comincia”… ma a seguire, mi permetto di dire io, un'impostura generalmente umana, culturale e spirituale. Non c’è bassezza in questo mondo
che non sia stata giustificata dall’amore. Questo mi ha sempre reso sospettoso.
Sono uomo che anche quando possiede buoni sentimenti, li detesta perché teme
l’immediato smarrimento della loro innocenza e la loro trasformazione in mostri
di ipocrisia.
Ma tutto ciò è una dimostrazione. L’amore vanta il maggior
numero di imitazioni. Dunque bisogna fidarsi del marchio originale. Esso è
rivendicato dal Dio cristiano non perché la sua rivelazione sia arrivata per
prima – eccettuando ovviamente il libro della vita – ma perché è Lui ad aver
chiesto di essere totalmente identificato con l’amore, ben consapevole,
possiamo immaginare, dei rischi.
Se esiste l’amore allora Dio esiste
Ancora un’ultima parola: “Se esiste l’amore allora Dio
esiste”. Se esiste l’amore, esiste un mistero insondabile eppure vicino (ciò che
è vicino è anche più difficile da comprendere) che non smette mai di alludere
ad altro e di chiamare l’altro a sé. L’amore trabocca e al tempo stesso attira
e lega. In questa dialettica vi sono tratti inevitabilmente metafisici. Altro
che essere, l’amore è la prima fonte dell’essere; altro che essere, l’amore è
la relazione originaria che genera le cose che sono e che poi unisce e
distingue le cose che sono nella loro identità/differenza. Essere, identico,
diverso, quiete e movimento: i generi sommi non promanano da un Uno
indifferenziato, ma dall’Unitrina relazione amorosa, che solo l’amore spiega e
intende nell’unità dei suoi vincoli e nella trinità della sua forza espansiva.
Così l’Uno si dice amore infinitamente oblativo attraverso il Tre e il Tre
nell’amore si stringe fino all’Uno. Così è, non diversamente da quello che
hanno compreso per noi cristiani Agostino e Tommaso. Ciò basta a dimostrare
Dio? O lo si dà per presupposto? Beh, se si cammina nell’amore ogni passo produce
e attira l’altro; ogni passo è fatalmente più lungo e significativo
dell’altro, per il principio che l’amore trasferisce potenza, generandola senza
impoverirsi ma al contrario arricchendosi. A chi dà e si dà l’amore se non a
ciò che sta oltre? E ciò che è oltre non è forse bene e quindi, rispetto
all’aldiquà, meglio? Se non è bene non può essere degno d’amore e non può
provenire da lui, ma, provenendo da lui, ciò che è bene prima è meglio dopo,
non in senso temporale ma in senso metafisico. L’amore è diffusivum sui e
cresce su se stesso, per poi donarsi fino a svuotare se stesso (Fil 2)… Ma
svuotandosi genera mondi. L’amore, pertanto non solo risponde al valore, ma lo
genera e da esso tutto procede. Sono queste – genera, procede - parole della teologia, ma sono inevitabili. E
qui mi fermo: nulla si può dire che già non sia stato detto dai santi di Dio.
Noi possiamo solo ripetere e accentuare quello che si manifesta per noi come
significativo e trainante. Ciò che mi appare tale in questo momento è che
esiste una via agapica che dimostra Dio a partire dall’amore, non
presupponendolo. E ciò fa senza dimostrare troppo, cioè senza
fenomenologicamente negare la realtà di un male radicale come contraffazione
dell’amore; e senza dimostrare troppo poco, cioè senza limitarsi all’Ente
supremo (e neanche all’Essere barrato e ineffabile della tradizione
heideggeriana).
L’azzardo di dire
Ora, se può esserci una fede querens intellectum
nell’era della radicale secolarizzazione, essa non può che coincidere con la logica
metafisica e teologica dell’amore e abbandonarvisi totalmente. Questo mi
azzardo a dire.
Con ciò volevo solo indicare una possibilità che è balenata
in me. Però mi accorgo che le parole sono di una banalità sconcertante. Non
solo perché sono poche, e su questo argomento sono stati scritti migliaia di
volumi, ma perché sono strutturalmente insufficienti. Solo la poesia, qui
Heidegger aveva ragione, può azzardarsi a dire senza fare bruttissime figure.
Ma la poesia ammette:
O amor d’Agno,
maiur che mar magno
e chi de te dir porria?
A chi c’è anegato
De sotto e de lato,
e non sa là ‘ve se sia
E la pazzia
Li par ritta via de gire empacito d’Amore.
(Jacopone da Todi, Oi dolze Amore)
A pochi è riservato questo destino del dire e di un
annegare che fa della pazzia la ritta via. Però a volte dire è un
conatus inevitabile che non si può fare a meno di assecondare e perciò,
anche se affiora sulle labbra e nella penna di chi poeta non è, si fa
perdonare.