sabato 25 ottobre 2025

Note sul transumanesimo


TRANSUMANESIMO: un accenno dottrinario

Che cos'è il transumanesimo? Per essere più precisi possibile, e anche sintetici, direi di affidarci alle parole di un membro di spicco di questo movimento culturale, Max More, peraltro espresse uno stile abbastanza suggestivo.

“Cara Madre Natura,

Mi spiace disturbarti, ma noi umani – la tua prole – veniamo a te con alcune cose da dirti (forse potresti riferirle al Padre, considerato che noi non lo vediamo mai in giro…) Vogliamo ringraziarti per le molte qualità meravigliose che ci hai donato con la tua lenta ma imponente intelligenza distribuita. Da semplici composti chimici auto-replicanti ci hai fatti diventare mammiferi con miliardi di cellule. Ci hai dato il massimo controllo del pianeta. Ci hai dato una aspettativa di vita fra le più lunghe nel regno animale. Ci hai dotato di un cervello complesso, dandoci la capacità di ragionare, parlare, prevedere, essere curiosi e creativi. Ci hai dato la capacità di comprendere noi stessi e gli altri.

Madre Natura veramente, ti siamo riconoscenti per ciò che ci hai fatto diventare. Indubbiamente hai fatto il meglio che potevi. Tuttavia, con tutto il dovuto rispetto, dobbiamo dire che sotto diversi aspetti avresti potuto fare di meglio con il nostro organismo.
Ci hai creati vulnerabili alle malattie e alle ferite. Ci obblighi ad invecchiare e a morire – proprio quando cominciamo a divenire saggi. Sei stata un po’ avara nel darci consapevolezza dei nostri processi somatici, cognitivi ed emotivi. Sei stata poco generosa con noi, donando sensi più raffinati ad altri animali. Possiamo funzionare solo in certe specifiche condizioni ambientali.
Ci hai dato una memoria limitata e scarso controllo sui nostri istinti tribali e xenofobi.
E ti sei dimenticata di darci il nostro libretto d’istruzioni! Quello che hai creato, in noi, è magnifico, eppure profondamente imperfetto. Sembra che tu abbia perso interesse per la nostra evoluzione futura circa 100,000 anni fa. O forse hai preferito attendere che noi facessimo da soli i passi successivi. In ogni caso, la nostra infanzia sta per finire.
Abbiamo deciso che è ora di emendare la “costituzione umana”. Non lo facciamo con superficialità, leggerezza o senza rispetto, ma con prudenza, intelligenza e con obiettivo l’eccellenza. Vogliamo che tu sia fiera di noi. Nei prossimi decenni perseguiremo una serie di cambiamenti al nostro organismo, con gli strumenti della biotecnologia, in maniera razionale e creativa. In particolare, dichiariamo i seguenti sette emendamenti alla costituzione umana:

Emendamento n. 1: Non sopporteremo più la tirannia dell’invecchiamento e della morte. Per mezzo di alterazioni genetiche, manipolazioni cellulari, organi sintetici e ogni altro mezzo necessario, ci doteremo di vitalità duratura e rimuoveremo la nostra data di scadenza. Ognuno di noi deciderà quanto a lungo potrà vivere.

Emendamento n. 2: Espanderemo la portata delle nostre capacità cognitive con strumenti computazionali e biotecnologici. Intendiamo superare le abilità percettive di ogni altra creatura e inventare nuovi sensi per espandere la nostra comprensione e il nostro apprezzamento del mondo intorno a noi.

Emendamento n. 3: Miglioreremo la nostra organizzazione e capacità neurale, incrementando la nostra memoria ed espandendo la nostra intelligenza.

Emendamento n. 4: Forniremo la neocorteccia di una “meta-mente”. Questa rete distribuita di sensori, processori di informazioni e intelligenza, incrementerà la nostra consapevolezza di noi stessi e ci permetterà di modulare le nostre emozioni.

Emendamento n. 5: Non saremo più schiavi dei nostri geni. Ci assumeremo la responsabilità dei nostri programmi genetici e otterremo il totale controllo dei nostri processi biologici e neurologici. Porremo rimedio a tutti i difetti individuali e della specie lasciatici in eredità della nostra storia evolutiva. Ma non ci fermeremo qui: potremo scegliere sia la forma del nostro corpo che le sue funzioni, raffinando ed aumentando le nostre abilità fisiche ed intellettuali, fino a livelli mai raggiunti da nessun altro essere umano nella storia.

Emendamento n. 6: Ridefiniremo, muovendoci allo stesso tempo con audacia e con cautela, i nostri modelli motivazionali e le nostre risposte emotive in modi che, come individui, riterremo salutari. Cercheremo una soluzione ai tipici eccessi emotivi umani, introducendo emozioni più raffinate. Avendo così rimosso le barriere emotive ad una razionale auto-correzione, potremo fare a meno di insalubri certezze dogmatiche.

Emendamento n. 7: Riconosciamo il tuo genio nell’uso di composti basati sul carbonio per crearci. Tuttavia, non limiteremo le nostre capacità fisiche, intellettuali ed emotive rimanendo puri organismi biologici. Nella ricerca del controllo sul nostro organismo, ci integreremo progressivamente con le nostre tecnologie.

Questi emendamenti alla nostra costituzione ci porteranno da una condizione umana ad una ultra-umana. Crediamo, inoltre, che “ultra-umanizzare” gli individui risulterà in relazioni, culture e ordinamenti politici di una innovatività, ricchezza, libertà e responsabilità senza precedenti.
Ci riserviamo il diritto di introdurre ulteriori emendamenti, sia collettivamente che come individui. Non cerchiamo una condizione di inalterabile perfezione e continueremo, quindi, nella nostra ricerca di nuove forme di eccellenza, sulla base dei nostri principi e delle nostre capacità tecnologiche.

La tua ambiziosa prole”[1].

Fin qui Max More. Viceversa, uno dei rappresentanti maggiori e più consapevoli di questo approccio alla realtà e alla storia umana in ambito italiano è indubbiamente Stefano Vaj. Egli offre del transumanesimo una peculiare interpretazione che attraversa il pensiero di alcuni importanti filosofi contemporanei ed europei - quindi la riflessione in ambito anglosassone con una cospicua eredità continentale - sottolineando che il post umano è un prodotto specifico della tecnoscienza europea che si associa alle suggestioni filosofiche di Nietzsche, di Spengler, di Juenger, del futurismo italiano, di Gehlen e altri. Egli insiste sulla semplice constatazione che la tecnoscienza cambia la vita e che sarebbe assurdo opporvisi, cercando di ritornare al passato (ma poi a quale passato: esiste forse un passato totalmente non tecnico?), mediante quella che non sarebbe altro che una forma di rimozione. Ciò sarebbe espressione solo di una malcelata paura dell'inquietante avvento di un Brave new world il quale, tuttavia, spesso è solo un’immaginazione distopica funzionale al mantenimento degli attuali equilibri di potere, che al contrario, un'incontrollata e felicemente anarchica diffusione della tecnologia potrebbe mettere a rischio. Il dinamismo che proviene dal progresso tecnologico è, infatti, imprevedibile e rischia di scardinare le strutture di coloro che della tecnologia vogliono mantenere un monopolio a proprio uso e consumo, prima di tutto la durata al comando. Il transumanesimo, che promuove l'abbattimento di ogni barriera che si frapponga agli ulteriori sviluppi delle tecniche in ogni campo e soprattutto in quello antropologico, diventerebbe allora una sorta di un nuovo spettro che si aggira non tanto per l'Europa, quanto per il mondo.

 Il contributo interessante di Stefano Vaj riguarda nondimeno la peculiare inclinazione sovrumanista che possiede il suo transumanesimo Alludiamo al riferimento reiterato del Nostro all'opera di Giorgio Locchi - autore di testi come Nietzsche, Wagner e il mito sovrumanista o L'essenza del fascismo – il raffinato intellettuale promotore di una peculiare interpretazione nietzschiana della storia e in particolare della svolta epocale del Ventesimo secolo, orientato ad una trasvalutazione superomistica dei valori e della vita, in cui si manifesta l'esplodere della volontà di potenza dei singoli e dei popoli, finalmente liberata dalle pastoie morali, metafisiche e cristiane, e dunque in grado di realizzare il sogno atavico dell'essere come Dio, ma in questo mondo, ma in questa vita. In tale condizione, la novità è che oggi il transumanesimo si avvale di quello straordinario amplificatore di potenza che è la tecnica, una tattica della vita, direbbe Spengler - per diventare più-che-vita, proprio in quella sfera dell’umanità corporea che Nietzsche aveva esaltato, rimanendo tuttavia ancora troppo ancorato alla dimensione spirituale.

 Vaj si sofferma su questi temi in diversi testi, tra cui citiamo Biopolitica. Il nuovo paradigma, SEB, Milano 2005, con appendice di G. Faye, e I sentieri della tecnica. Spirito faustiano, transumanesimo, nichilismo, Centro produzioni Moira. Milano 2021. Basta scorrere l'indice dei libri per capire quante implicazioni filosofiche, morali, scientifiche, possiede la tematica in questione. In questa sede non vogliamo naturalmente affrontare tutti gli argomenti approfonditi da Vaj ma soffermarci su due di essi: l'uomo nuovo, la natura e il naturale. Credo, infatti, che siano fondamentali per individuare l’identità profonda del movimento e mostrarne criticamente limiti e debolezze, di là da eventuali ulteriori digressioni e suggestioni per le quali rimando all’interezza delle ricerche di Vaj.

L’UOMO NUOVO

In Biopolitica il nostro Autore cita “l’uomo nuovo” come “idea non pre-moderna ma post-moderna” sottoscrivendo il programma di giungere, appunto, ad un “uomo nuovo, a facoltà superiori” mediante lo sviluppo libero di nuove tecniche. Questo è da farsi evitando qualsiasi “paralisi di ordine morale”, per reinterpretare in chiave rivoluzionaria lo specificamente umano. Quest’ultimo si identificherebbe con quello che lui chiama “terzo uomo”.

Il primo uomo è quello della cosiddetta ominazione che implica la nascita del linguaggio, la formazione di società di caccia e raccolta, lo sviluppo della magia sciamanica e l’identificazione con il proprio ambiente.

Il secondo uomo è quello della rivoluzione neolitica che implica l’agricoltura, la città, la politica, la religione, la divisione del lavoro e la tecnologia “pirica”. L’ambiente naturale diventa ambiente culturale e ha luogo un’azione collettiva plasmatrice della natura (come ha ben visto O. Spengler nel suo L’uomo e la macchina, vero e proprio punto di riferimento di Vaj): si passa dunque dall’esistenza organica a quella organizzata e nascono le nozioni di popolo, razza, ceto, Stato. Si avvia e cresce la domesticazione del mondo vivente e, parimenti, la domesticazione delle masse da parte delle élites. La natura si separa dalla cultura e l’uomo si manifesta come essere storico. A tal proposito tre sono le culture principali: quelle che vedono l’uomo soggetto della storia; quelle che lo vedono oggetto-preda; infine quelle culture, come la giudeo-cristiana, che, pur immerse nella storia, ne rifiutano moralmente il portato (“la torre di Babele”) auspicandone la fine escatologica. In tale modo, dice Vaj, evidentemente sulla scorta di Feuerbach, il divino viene “rovesciato”, da proiezione della propria volontà di potenza a sua condanna trascendente, che nel sistema moderno diventa l’ideologia della fine della storia (il richiamo evidente è qui a Fukuyama e al suo liberalismo pacificato e mondializzato, mediante il quale si entrerebbe in una sorta di regno immanente del benessere senza i noiosi incidenti delle differenze culturali, etiche, politiche e sociali che tanti conflitti hanno prodotto nel passato storico).

Il terzo uomo è quello nel quale avviene il passaggio dalla coscienza all’autocoscienza e dall’azione meramente trasformatrice del proprio ambiente naturale e culturale alla responsabilità dell’autodeterminazione diretta di un contesto ambientale e di un’identità biologica integralmente artificiali per condurre la civiltà ad esiti “più che umani” e “sovrumani”. A tal fine è necessario assumere l’azione in prima persona, sottraendosi ai meccanismi impersonali del Mercato e della Natura, e promuovendo una specifica volontà di potenza sul modello nietzschiano. Ecco allora la citazione di un Heidegger commentatore di Nietzsche: “Nietzsche è il primo a riconoscere il momento storico in cui l'uomo si prepara ad assumere il dominio di tutta la Terra. Nietzsche è il primo pensatore che, in vista di una storia mondiale per la prima volta emergente, pone la domanda decisiva e pensa tutte le sue più profonde implicazioni. La domanda è: l'uomo, in quanto uomo nella sua natura sinora, pronto ad assumere la signoria del pianeta? Se no, cosa deve succedere all'uomo perché egli sia capace di sottomettere la terra e rivendicare così un antico legato? Non deve l'uomo, così com'è ora, essere portato oltre se stesso per adempiere a questo compito? [...] Di una cosa, comunque, dovremo presto renderci conto: questo pensiero che mira alla figura di un maestro che insegnerà il Superuomo concerne noi, concerne l'Europa, concerne tutta la Terra. Non solo oggi, ma ancor più domani. E lo fa sia che lo accettiamo sia che ci opponiamo ad esso, lo ignoriamo o lo imitiamo con accenti falsi”. Il terzo uomo è pertanto l’incarnazione di una nuova volontà di potenza e di un nuovo superuomo che si staglia all’orizzonte del progresso tecnologico, il quale mette a portata di mano quel dominio che Nietzsche affidava quasi esclusivamente ad un’ impervia ascesi immanente e individuale.

Ma qui comincerei ad avanzare alcune notazioni critiche. Innanzitutto Heidegger: non vi sono dubbi che sia un’ottima fonte per cogliere il centro epocale della riflessione nietzschiana, ma non bisogna dimenticare che egli è uno dei suoi più potenti critici. Egli è il primo e più radicale accusatore del nichilismo della volontà di potenza che diviene volontà di volontà, cioè circolo nichilistico di ciò che aspira all’incremento di sé senza alcun senso e alcuna ulteriorità. La volontà di potenza, dice Heidegger ne La questione della tecnica si pone al culmine della metafisica come “entificazione” e “reificazione” dell’essere che, nel suo compimento tecnologico, manifesta l’essere stesso come “fondo” (Bestand), cioè come qualcosa a disposizione per essere infinitamente manipolato, obliandone la verità originaria. Il terzo uomo, come superuomo artificiale e tecnico, rientra appieno in questa critica heideggariana, così pure come l’uomo “tecnico” di Spengler. Questi, peraltro, in quanto compimento sovrumano dell’umanità, distrugge la storia in una forma immanente e secolarizzata di escatologia: che cosa viene dopo il terzo uomo, se non un immenso attivismo che nella sua apparente espansività non fa che riprodurre se stesso quale Soggetto infinitamente generatore di mondi migliori? Questa escatologia dei mondi migliori, tremendamente uguali a loro stessi, non ci condanna ad essere una moltitudine di ultracorpi felici che vivono e lavorano spostando masse e muovendo cose? Non è questo terzo uomo tristemente simile ad un ultimo uomo, sia in senso temporale sia in senso assiologico? Il suo fallimento non riproduce forse il fallimento del grande sogno positivista di una terra elettrificata dove godere delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità?

C’è una filosofia della storia, uno specifico storicismo che caratterizza il transumanesimo. Oggi è il tempo della trasvalutazione transumana dell’umanità. Da quest’oggi non si esce se non mediante velleità reazionarie e salti o fughe in avanti utopiche. Dal potere e dal fascino del Progresso non è possibile né auspicabile sottrarsi. C’è un determinismo macrostorico di fondo nel transumanesimo che attribuisce al Progresso un carattere addirittura più cogente che non l’usuale ottimismo illuministico. Tale determinismo finisce con un movimento dove la ricerca incessante della novità tradisce l’inquietante fissità e circolarità del nuovo, che divora nella sua artificialità tecnica ogni altra dimensione della vita umana, e nello specifico quella spirituale. Che c’è di più fisso del succedersi dei nuovi modelli di I-phone? Quale logica è più stringentemente ripetitiva nei nuovi prodotti della pubblicità? E noi affideremmo la nostra emancipazione morale a questo meccanismo di dominio che assolutamente abbiamo smesso di dominare?

Bisogna in ultimo notare che l’idea di uomo nuovo non è né pre né post moderna. Già il termine “terzo uomo”, contiene, senza volerlo, forti accenti escatologici. Malgrado Vaj rifiuti nettamente ogni concetto che provenga direttamente o  indirettamente dal cristianesimo, la sua (e nostra) cultura di riferimento agisce sottotraccia, producendo interessanti/imbarazzanti (dipende dal punto di vista) cortocircuiti. Ad essa si collega l’annuncio nietzschiano del superuomo, una potente novità evolutiva che genera nel Novecento diversi entusiasmi per la finale creazione di regni politici prodotti da  o nati per ospitare la “nuova umanità” interamente secolarizzata, uscita da tutte le favole metafisiche e pronta per il salto in un nuovo paradiso terrestre, sia esso quello della società senza classi, della nazione senza catene o della razza senza difetti.

Ma questa idea palingenetica, che tanto è criticata da conservatori e liberali di tutte le risme – fautori dell’eschaton realizzato del denaro/mercato senza limiti e confini -, appartiene in realtà al DNA cristiano della civiltà europea, non solo quanto al gioachimismo sospetto dell’età dello Spirito Santo – traduzione storico-salvifica e millenaristica della dottrina trinitaria - bensì in relazione alla ben più alta e profonda nozione di uomo nuovo di paolina memoria. Al santo di Tarso si deve, infatti, attribuire l’espressione   καινς νθρωπος (kainòs ànthropos) che non ha paralleli al di fuori del NT né antecedenti letterali. Ebbene qual è il suo significato? Per rispondere, pur brevemente e senza alcuna pretesa di esaustività, a questa domanda bisogna anzitutto vedere i luoghi in cui compare:

1)       Ef 2, 14-15

14 Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, 15 annullando, per mezzo della sua carne,

la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo,

facendo la pace,  e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce,

distruggendo in se stesso l'inimicizia.

 

2)       Ef 4,21-24

21 se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, 22 per la quale dovete deporre l'uomo vecchio con la condotta di prima, l'uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici 23 e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente 24 e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera.

3)       Col 3,9-10 (variante νέος νθρωπος – nèos ànthropos, con il medesimo significato di “uomo nuovo”)

8 Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. 9 Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni 10 e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. 11 Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti.

1)       Qui si allude primariamente a una trasformazione ontologica: non c’è più il giudeo o il pagano, colui che ha ricevuto la promessa e colui che ne è rimasto escluso, ma è creato l’uomo nuovo, riconciliato con Dio per mezzo di Gesù, che fa la pace e distrugge in sé l’inimicizia. Fare la pace e distruggere l’inimicizia è un’espressione che riguarda l’essere profondo dell’umanità, dacché l’inimicizia, introdotta appunto dal Nemico, ha degradato la natura umana, penetrando sin nelle sue corde più profonde e togliendo all’uomo la pace della vita nella familiarità del Creatore. Ora, solo il fàrmakon sublime della Croce poteva toccare quelle profondità e risollevarle, ricostruendo da dentro l’essenza perduta e negata dell’uomo e facendo di lui un essere totalmente rinnovato.

2)       La trasformazione  ha anche, ovviamente, una ricaduta morale, che implica la deposizione dell’uomo vecchio e della sua condotta fatta di passioni ingannatrici: α πιθυμίαι τς πάτης, ai epithymiai tès apàtes, le passioni dell’inganno che nascono da quella contaminazione iniziale del peccato e che si sono patologicamente diffuse dalla carne – la sensibilità debole e corruttibile – all’uomo intero. Alla lotta contro la prigionia della carne deve seguire un rinnovamento interiore : τ πνεύματι το νος μν ,tò pneumati toù noòs ymoòn,  nello spirito della mente, cioè nell’intimità più radicale dell’uomo - lo spirito – che rende la mente, cioè l’anima, capace di produrre nuovi pensieri e determinazioni in grado di modificare concretamente e completamente la vita. Ecco la nuova creazione in cui l’umanità rinnovata rinasce dall’alto.

3)       La trasformazione ontologico-morale ha una dimensione universale che genera una nuova conoscenza del mistero, tale per cui risultano superabili e relativizzabili le particolari leggi e costumi e tutte le appartenenze, anche quelle religiose. La conoscenza è importante: sembra che Paolo concluda qui le sue riflessioni sull’uomo nuovo dicendoci che egli è rinnovato tanto nell’essere, quanto nell’agire e nel conoscere.

L’umanità nuova in Paolo risulta pertanto qualcosa di strappato a sé, quasi una dilacerazione del vecchio uomo che vede rimosso con una chirurgia finissima ma radicale un tumore profondo dello spirito, della mente e del corpo, ma non in modo anestetico, bensì attraverso l’iperestesia della croce, alla quale l’uomo è associato per inchiodare con violenza la sua violenta vecchiezza e liberarla per la novità assoluta, imprevedibile, improgrammabile, supererogatoria e ineffabile del Regno.

Ciò anticipa ed esprime al più alto livello quella via mistica che poi san Bonaventura avrebbe riformulato come un itinerarium mentis in Deum: via purgativa per liberare lo sguardo nel mondo; via illuminativa per trovare nell’anima la luce della verità, via unitiva per risalire dall’intimius intimo meo al superior summo meo (dal più intimo del mio intimo, alla altezza che sta oltre la mia altezza).

Qui allora si manifestano due alternative. Da un lato abbiamo un “terzo uomo” artificiale che affida la propria emancipazione a un prodotto del proprio ingegno, e che incessantemente si autodomestica, nella ripetizione di singole novità parziali dalle quali ci si aspetta, per una logica sommativa, la novità totale che mai arriverà come mai si giunge all’ontologicamente infinito per semplice addizione indefinita di unità.

Dall’altro lato abbiamo l’uomo nuovo che riposa nella pace della sua definitiva ulteriorità, come un albero rivoltato con le radici in una trascendenza che qui ed ora lo emancipa, pur per brevi e abbaglianti illuminazioni, dalla schiavitù del tempo, dello spazio, delle passioni ingannevoli (san Paolo), dell’occhio che non vede e dell’orecchio che rimbomba (Parmenide). Non un annuncio di potenza che vuole se stessa e mira al controllo della storia, ma che nella storia nasce, si corrompe e muore come tutta la storia che è la sfera dei suoi trionfi, ma anche della sua inevitabile corruttibilità e corruzione; non l’impero e Roma perché luget in auternum, quae se iactabat aeterna,/ Cuius et tyranni iam tunc iudicantur a Summo (Commodiano, Carmen de duobus populis – e se Roma piange, Washington non riderà); non tutto lo splendore e la gloria del cacciatore, ma l’orgoglio del pesce che è tutto nell’abboccare all’amo di un sublime Pescatore che lo strattona verso l’alto (L. Marechal): le acque che sempre cambiano, in cui siamo e non siamo, non sono tutto; il liquido amniotico della nostra immanente comodità pre parto preludono ad una nascita dall’alto, una rinascita nella quale ciò che è umido e caldo, simbolo della nostra dolce dipendenza dal mondo, sarà superato mediante il soffocamento e la perdita del nostro apparato branchiale, per crescere con nuovi polmoni all’aria libera.

Che cosa è più degno dell’uomo? In che cosa la condizione umana è realmente superata? In che cosa essa è prigioniera? Che cosa è favola, proiezione, illusione? Che cosa è verità e vita?

IL FINE E LA NATURA

Sempre in Biopolitica, Vaj esprime un concetto di natura che, tra le tante citazioni dell’Autore, noi riportiamo mediante concetti mutuati da Arnold Gehlen: “Per Gehlen, l'uomo è naturalmente sociale, ma anche naturalmente tecnico, poiché il mondo culturale che costituisce la casa in cui egli si trova a suo agio è un mondo che può evolversi e costruirsi solo grazie all'intervento tecnologico. [...] L'uomo, che si presenta biologicamente carente nei confronti degli animali meglio adattati e più specializzati, è tuttavia capace di prestazioni imprevedibili e di attività insospettate, ma Gehlen si rifiuta di ascrivere queste caratteristiche ad una scintilla divina, ad un'anima immortale impressa da Dio nella sua creatura prediletta. Nell'antropologia elementare non c'è più posto per la divinità, è quindi l'uomo tecnologico che con le sue sole forze è in grado di superare le necessità e proiettarsi nel regno della libertà. La riflessione antropologica di Gehlen si avvicina alla concezione volta a fare dell'uomo l'essere capace di costruire il proprio futuro. E' la libertà di determinare il proprio destino che ripaga l'uomo di tutte le sue carenze organiche, realizzando ciò che tutti gli altri esseri, pur non limitati da ‘inadattamenti’, ‘non-specializzazioni’ e ‘primitivismi’, non riuscirebbero mai a costruire: un "mondo culturale", un ‘ambiente artificiale’, atto a garantire l'esistenza e a soddisfare le esigenze di quell'essere particolarissimo che è l'essere umano. Dalla costruzione dei più rudimentali utensili alla creazione delle più sofisticate apparecchiature odierne, la tecnica ha costantemente aiutato l'uomo ad aprirsi al mondo, a conquistare e a dominare tutta la terra...”. Sulla stessa linea di pensiero si situa Oswald Spengler che nel suo L’uomo e la macchina dice: “[In tale prospettiva] la lotta della natura interna dell'uomo contro la natura esterna non è più sentita come una sofferenza (così Schopenauer e Darwin si rappresentavano lo struggle for life), ma come il grande senso della vita, che la nobilita; così pensava Nietzscheamor fati. E l'uomo appartiene a questa specie”.

La sostanza di queste considerazioni è che riguardo al concetto di natura è possibile stabilire una continuità “naturale” tra il mondo dato e, dentro di esso, l’uomo con la sua vocazione tecnica. Insomma per Vaj  è del tutto bizzarra l’“idea della Natura astratta ed universalista, percepita da un lato come statica, immutabile, da sempre e per sempre data, dall'altro come nettamente separata, anzi in opposizione all'uomo rispetto all'uomo e alla cultura, trascurando il fatto che l'uomo, in quanto essere vivente, della natura fa comunque parte, per quanto vi sia chi arrivi a sostenere che la nostra specie è un "incidente", una manifestazione "patologica" o un "cancro". In realtà, però, è la stessa scienza ecologica a rimettere in discussione questa visione paradisiaca (non estranea del resto al fatto che i suoi propugnatori vivono come tutti gli intellettuali occidentali in un ambiente iperprotetto), nel momento in cui ci mostra come gli ecosistemi evolvano e decadano, come gli equilibri che si vengono a creare siano in realtà risultanti dinamiche provvisorie, che possono variare e variano nel tempo anche senza nessun intervento "umano", risultanti dalla lotta di tutte le specie (o meglio dei loro geni) per mantenersi ed espandersi, e dai caratteri di quel biotopo in quel momento dato. Non esiste in realtà alcun equilibrio naturale prefissato ed indefinitamente autosufficiente che possa essere ‘turbato’ […]. La natura di per sé non è né incontaminata, né benigna, né adatta, ma solo adattabile, alla vita umana”. Così, aggiungo io, il nostro Leopardi nel Dialogo della Natura e di un Islandese:

 “NATURA — Tu non sai quello che ti dici. Tu ignori che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue fra loro di maniera che ciascheduna serve continuamente all’altra, e alla conservazione del mondo: il che se cessasse, il mondo verrebbe parimente in dissoluzione. Così la distruzione è una cosa necessaria all’universo; e per tanto la natura la fa continuamente.

ISLANDESE — Dunque la natura non si cura del bene e del male de’ mortali?

NATURA — Io non ho fatto né il piacere né il bene vostri: io non ho fatto le cose per vostro vantaggio: né mi giova se voi vivete, né mi dispiace se voi perite.

ISLANDESE — Ma dunque la vita di ciascun animale non è altro che un continuo patire?

NATURA — E ciò che chiami male e patimento è parte necessaria di quell’ordine delle cose che io mantengo; parte del disegno mio, e dell’universo”.

Sulla scorta di Pico della Mirandola, un transumanista, sottoscrivendo al tempo stesso la critica leopardiana, direbbe che la natura ha dato all’uomo la possibilità di scegliersi la propria natura. E tale possibilità è la tecnica. Essa proviene dalla natura umana, perché appunto l’uomo è naturalmente tecnico, e, mediante la tecnica, produce continuamente nuove possibilità naturali, rispetto alle quali l’idea di preservare una natura tutt’altro che benigna contro i rischi di una tecnicizzazione integrale del mondo, perde senso.

Sulla base di questi assunti perde parimenti senso l’idea ecologica della preservazione dei ritmi naturali dall’intervento antropico. Tutto insomma va bene. Tale concezione realistica della natura, scevra di romanticismi e irenismi, posta accanto a quell’antropologia che non distingue tra natura e tecnica, da un lato giustifica l’intervento trasformatore dell’uomo, dall’altro ne legittima un’indefinita estensione. Se tutto va bene, perché qualunque cosa faccia l’uomo esprime una possibilità offertagli naturalmente, non può esistere alcun criterio che stabilisca limiti e valutazioni nei termini di bene o male.

Qui possiamo cominciare una fase critica del nostro resoconto. Iniziamo con l’osservare che se tutto va bene, non esiste alcun discrimine per la decisione umana, nemmeno qualora essa si orientasse verso la riproposizione di un criterio stringente di rispetto della natura considerata come dato e come spontaneità. Siccome tutto dipende dall’arbitrio umano, che è un fattore intimamente naturale, il futurismo e il naturalismo romantico rimarrebbero opzioni equivalenti, la città di Blade runner o il sistema di Matrix, non sarebbero distinguibili dal mito del buon selvaggio  e dalla letteratura bucolica. Il fatto che Vaj cerchi di sottolineare che ogni scelta contraria allo sviluppo della tecnica sia assurdamente antistorica, inefficace, irrazionale e un po’ ridicola (come lo è per esempio lo stile di vita degli Amish in America), non ha dunque alcun fondamento nei presupposti che egli stesso pone alla base del suo discorso, a meno che egli non avanzi surrettiziamente l’idea di una natura tecnica dell’uomo statica, fissa e immutabile, indipendente dalla sua decisione. Vale a dire: a meno che egli non riproponga per la tecnica quella stessa idea romantica del rispetto di una natura umana “data” a prescindere dalla sua cultura e dalla sua libertà.

Riguardo alla spietatezza di una natura meccanica e senza fini, bisogna andare oltre a questo che è un pregiudizio tipicamente illuministico, che non tanto sovrappone natura a tecnica, quanto tecnica a natura, in modo da far apparire il grande orologio naturale (sprovvisto di orologiaio) come un immenso meccanismo di tortura in mezzo al quale sono concessi solo brevi intervalli di piacere. Tale inversione speculare del romanticismo è parimenti unilaterale e fuorviante. Una considerazione della Natura come di un sistema sprovvisto di fini, quale reazione galileiano-cartesiana al prevalente finalismo aristotelico, è stata fina da Kant ritenuta almeno parziale. Kant dedica una delle sue critiche, la prima, alla natura-meccanismo, e un'altra ai fini naturali, la terza. In quest’ultima Critica del Giudizio si insiste sul fatto che la natura è anche bella e si propone la nozione di bellezza come forma della finalità senza scopo che genera nell’uomo la risonanza di un piacere senza concetto e senza interesse. In coerenza con il suo soggettivismo di fondo e senza derogare ai principi della scienza, qui si adombra un’idea che, senza tradire troppo le intenzioni dell’Autore, possiamo semplificare così: pare che il mondo che mi circonda sia fatto apposta in modo che io mi possa sentire profondamento a mio agio. Quando ciò accade io riferisco a me una sua certa finalità, che ne articola tutte le leggi affinché si adattino alle mie facoltà percettive e mentali, come se l’intero sistema naturale avesse l’armonia che hanno gli enti ideati per uno scopo, senza che io possa dire né che vi sia uno scopo nella natura né quale sia, a parte il fatto che tale forma armonica della finalità si adatta splendidamente al mio sguardo, facendomi provare, mentre solamente la contemplo, uno specifico piacere, scevro da ogni utile o da qualsiasi secondo fine. Quando così accade, io, di fronte allo spettacolo della natura, dico: “Che bello!”

Ora, noi, di là dalla vocazione kantiana a ribadire la forza della sua rivoluzione copernicana che tutto riconduce al soggetto, possiamo ardire ad affermare, sulla scorta di una nobile tradizione, che il fenomeno della finalità bella ha la sua cosa in sé, ha il suo scopo profondo, ha il suo assoluto oggettivo. La tradizione parla di splendor veri (splendore del vero, Platone), splendor formae (splendore della forma, Tommaso), splendor ordinis (splendore dell’ordine, Agostino): i genitivi dicono l’assoluto, la cosa in sé, l’essenza che risplende nella bellezza del mondo e della natura, e che ne rappresenta anche la tensione fondamentale, il verso dove, appunto il suo scopo. I genitivi sono la verità che affiora splendendo dalle cose; l’essere che ha una sua chiarezza  formale definita, piena come ben rotonda sfera, esatta per ogni ente che è esattamente e straordinariamente quello che è; e infine l’ordine che offre a tutto la sua singolare collocazione nel tutto dello spazio e del tempo con infinita intelligenza musicale.

Accanto al giudizio estetico relativo alla bellezza, vi è anche in Kant un giudizio teleologico che non riguarda la natura in rapporto al soggetto che la contempla, ma in rapporto a se stessa. Si tratta di una teleologia piuttosto timida che sostiene che  “un organo di un organismo vivente, sia esso una pianta, un animale o un essere umano, non ha senso se non in vista del fine della vita dell’organismo nella sua interezza: il braccio, la mano, il fegato, le radici, le foglie, non hanno senso di per se stessi, ma solo in quanto servono al fine di mantenere in vita un determinato organismo vivente” (A. Gargano) così che, appunto, le singole parti hanno il loro fine nello sviluppo del tutto. Come se le parti di un organismo fossero fatte apposta per generare determinate funzioni, come se in sostanza l’occhio fosse fatto apposta per vedere e le gambe per camminare, affinché chi possiede occhi e gambe possa sviluppare certi caratteri e compiere proprio certe azioni.

Orbene, il biologo Jacques Monod in Il caso e la necessità, aggiorna e modernizza le osservazioni kantiane sostenendo che non si può evitare di comprendere la natura come qualcosa di apparentemente finalistico (perché non si può fare a meno di dire che l’occhio c’è per vedere), ma che in realtà tale finalismo è il risultato di cause meccaniche e cieche. Ecco l’emergere della prospettiva teleonomica: “Non esiste alcuno scopo nell'apparente armonia della natura e nei suoi  multiformi adattamenti, ma tutto è, come affermava Epicuro, frutto del caso e della necessitàGli organismi non hanno un fine ad essi esterno, dettato da un ente estraneo, ma proprietà teleonomiche che li distinguono dalla materia inanimata; la loro struttura, infatti, non ha un fine ad esso esterno, ma è determinata dal codice genetico, che detta loro, dall’interno, il programma a cui i viventi si attengono fedelmente; è questo che permette loro di essere strutture organizzate, la cui ‘armonia’ emerge semplicemente non a causa di un artefice, ma grazie a una complessa serie di reazioni chimiche regolate da enzimi codificati da geni a loro volta controllati da altri” (www.anisn.it, sv Jaques Monod).

La filosofia di Robert Spaemann costituisce la più radicale contestazione di un simile orientamento. Il filosofo tedesco ritiene infatti che non si possa interpretare il progetto immanente allo sviluppo naturale come effetto del caso o, il che è lo stesso, della selezione naturale. Infatti, secondo Spaemann, non si può descrivere un organismo come orientato a uno scopo (anche solo apparentemente) se nella realtà non c’è niente che fondi tale orientazione. Pertanto c’ è un motivo reale, c’è una cosa in sé in nome della quale la biologia parla di funzioni, adattamento, riproduzione per la sopravvivenza etc. e questo motivo è un fine cui tendono gli enti naturali e in vista del quale si organizzano in modo non casuale (il caso, nota Spaemann, non è la causa di una data configurazione della realtà, ma è una categoria epistemica che indica il fatto che appunto noi non conosciamo la suddetta causa). In  verità senza una finalità nulla è veramente comprensibile perché è da tale concetto che si evince il senso profondo di un oggetto di conoscenza.

Su questo assunto vorremo articolare una critica alla posizione di Vaj che formula due accuse nei riguardi coloro che propongono il concetto di una morale del rispetto della natura:

1)       Quella di  di tralasciare la continuità tra il naturale e il tecnico;

2)       Quella di considerare la natura come un dato fisso, un oggetto dato che deve fungere da criterio dei nostri comportamenti ecologici, così com’è in una forma originaria, perfetta e immutabile.

In realtà tra la visione irrealistica e romantica di uno spontaneismo naturale fisso e immutabile e la prospettiva di un arbitrio assoluto fondato sull’idea che la tecnica è natura e tutto ciò che compie va bene, si colloca l’alternativa di Spaemann: la natura è finalistica, è come tutta la realtà in statu viatoris, possiede un dinamismo interno, esistono in sostanza “fini naturali” che designano un criterio essenziale (di verità, d’essere) per la sua valutazione. Ma non si tratta di un’essenza data come presupposto (se non solo parzialmente e incompiutamente) ma offerta come meta. Anche il creato “geme e soffre nella speranza” come dice san Paolo (Rm 8,22). La teleonomia, al contrario, inverte la teleologia perché sostiene che “l’attività dell’ente non manifesta più un ulteriore grado di perfezione del medesimo rispetto al semplice esserci, da leggersi come teleologia che trascende se stessa nella partecipazione all’Assoluto, ma si riduce all’autoconservazione dell’ente stesso” (D. Saccoccioni, recensione a R. Spaemann, R. Low, Fini naturali).

Il giudizio teleologico kantiano e la teleonomia in sostanza vedono il senso delle cose dentro le cose stesse, e la loro finalità come immanente ad esse: l’autoconservazione “cieca”. Spaemann ammette ovviamente che l’organismo tende a mantenersi in vita, ma la vita, proprio in questa tensione, rimanda a qualcosa che va oltre se stessa: “La finalità naturale è il modo in cui la Natura partecipa dell’Assoluto”. Vale a dire: l’autoconservazione non è un ciclo chiuso ma un movimento verso l’Oltre, che è fonte di senso dell’essere. Sopravvivenza e riproduzione come uniche finalità trasformano la vita e l’intero processo naturale dal cui seno essa sgorga, in un processo senza senso. La mancanza di senso è tipica dei processi circolari, serrati in loro stessi e condannati alla ripetizione. Il senso è invece una direzione lineare in cui la fine coincide con il fine, e in cui il fine possiede una pienezza definitiva tale da non abbisognare della ripetizione del processo. Si dirà che ciò coincide con una forma di ideologia storica del progresso? Non so se il fatto di dire che natura e storia tendono a un fine che si manifesterà solo nella trascendenza della fine, cioè escatologicamente, implica la statuizione di un meccanismo del divenire per il quale, più si avvicina la fine più si è ontologicamente vicini al fine. Le Scritture non dicono così, anzi la letteratura apocalittica tende a smentire un simile pregiudizio. Al contrario essa non smentisce affatto la tensione, la tendenza, il conatus verso la pienezza che solo dà senso alla vita del cosmo, e che non aumenta né diminuisce storicamente e in modo progressivo, ma è presente in ogni fibra dello spazio e del tempo.

Che ne è allora della tecnica? I fini naturali tornano ad essere un criterio possibile che precisamente consiste nella commisurazione etica della finalità tecnica al bene essenziale cui tende la natura esterna e la natura umana  stessa. Certo: vi è una qualche continuità tra la natura e tecnica, ma come la natura non è data tutta in una volta, non è pura spontaneità, ma è organizzata secondo fini, allo stesso modo la tecnica non è data tutta in una volta, ma secondo fini. Il legame fra tecnica e natura allora si riformula come qualcosa di necessario. Tolti i fini dalla natura, si priva la tecnica del suo naturale meccanismo di autoregolazione. “Una volta spogliata del proprio carattere entelechiale (finalistico, n.d.r.), ‘non c’è più quella natura che prova avversione di fronte a qualcosa’. Caduta la distinzione tra movimento naturale e movimento violento, la natura si consegna definitivamente, - con Cartesio – al meccanicismo. In natura nulla si oppone alla nostra manipolazione, in quanto la natura si riduce a pura estensione e movimento locale: ‘la natura diventa semplice materia per la posizione umana di fini’ (Spaemann, in Amori, Il pensiero di Robert Spaemann tra critica della modernità e ontologia teleologica).                                  

Ciò significa che oggi essa può manifestare l’essere come Bestand (fondo a disposizione, Heidegger), come una tattica della vita finalizzata al dominio e alla potenza (Spengler) oppure come il modo in cui l’operaio, il lavoratore (l’homo faber, n.d.r.) mobilita il mondo (Jünger). Ma, anche alla luce di Spaemann, mi pare di poter dire questa non è una direzione definitiva perché è soggetta a giudizio, valutazione e commisurazione con la tendenza naturale dell’essere al Bene, una tendenza che può essere contrastata, deviata “per violenza”, ma le cui deviazioni possono essere analizzate, comprese e soggette a reindirizzo. Il meccanismo accumulativo del progresso tecnico è di per sé cieco, perché manifesta una continuità indefinita e procede appunto per aggiunte successive senza direzione (cioè è un’accumulazione moralmente indifferente). L’uomo può esercitare un confronto tra la cecità di un processo meccanico di accumulazione – che non esclude, tutt’altro, momenti creativi ma che non è in grado di governarli criticamente per distinguere un nuovo strumento di tortura da un impianto per risonanze magnetiche – e un divenire coerente con un Bene fondamentale seppur solo intravisto per speculum in aenigmate (1Cor 13,12: “Ora vediamo come in uno specchio e in maniera confusa”), verso il quale orientare la sua prassi in armonia con il conatus del mondo.

 E quando Ernst Jünger formula l’auspicio  o la profezia di una nuova fase dello sviluppo tecnico, di là del muro e oltre la linea dei nostri tempi nichilistici, forse allude a tale possibilità. La possibilità di una riconciliazione finale, io direi finalistica, tra il meccanico e l’organico in cui la tecnica si potrà fare più vicina alla vita … per natura e non per violenza. Il bel romanzo di fantascienza di Francesca Conforti, intitolato Spine, descrive un mondo simile, dove l’artificio tecnico incontra l’organico e il biologico, e l’opera manipolativa si apre ai fini naturali senza rinunciare alla sua vocazione creativa.

 È questa una possibile alleanza tra il sacro della creazione e il profano dell’invenzione? Dove c’è un tempio, lì c’è Dio, ma davanti a ogni tempo c’è lo spazio che Dio ha consegnato all’uomo. Dall’esterno noi entriamo togliendoci il cappello e genuflettendoci perché lì v’è ciò che vale veramente, il nostro destino ultimo; dall’interno noi usciamo pieni di spirito e di voglia di vivere con la libertà dei figli. Quando smettiamo di entrare e uscire, il legame tra le dimensioni della nostra vita, tra la contemplazione e l’azione, tra la teoria e la prassi, tra la preghiera e la carità si recide. E tutti, in un mondo fantasmagorico di miracoli artificiali, diventiamo più poveri.

 

 

 

 

 



[1] In www.estropico.com.