TRANSUMANESIMO: un accenno
dottrinario
Che cos'è il transumanesimo? Per
essere più precisi possibile, e anche sintetici, direi di affidarci alle parole
di un membro di spicco di questo movimento culturale, Max More, peraltro
espresse uno stile abbastanza suggestivo.
“Cara Madre Natura,
Mi spiace disturbarti, ma noi
umani – la tua prole – veniamo a te con alcune cose da dirti (forse potresti
riferirle al Padre, considerato che noi non lo vediamo mai in giro…) Vogliamo
ringraziarti per le molte qualità meravigliose che ci hai donato con la tua
lenta ma imponente intelligenza distribuita. Da semplici composti chimici
auto-replicanti ci hai fatti diventare mammiferi con miliardi di cellule. Ci
hai dato il massimo controllo del pianeta. Ci hai dato una aspettativa di vita
fra le più lunghe nel regno animale. Ci hai dotato di un cervello complesso,
dandoci la capacità di ragionare, parlare, prevedere, essere curiosi e
creativi. Ci hai dato la capacità di comprendere noi stessi e gli altri.
Madre Natura veramente, ti siamo
riconoscenti per ciò che ci hai fatto diventare. Indubbiamente hai fatto il
meglio che potevi. Tuttavia, con tutto il dovuto rispetto, dobbiamo dire che
sotto diversi aspetti avresti potuto fare di meglio con il nostro organismo.
Ci hai creati vulnerabili alle malattie e alle ferite. Ci obblighi ad
invecchiare e a morire – proprio quando cominciamo a divenire saggi. Sei stata
un po’ avara nel darci consapevolezza dei nostri processi somatici, cognitivi
ed emotivi. Sei stata poco generosa con noi, donando sensi più raffinati ad
altri animali. Possiamo funzionare solo in certe specifiche condizioni
ambientali.
Ci hai dato una memoria limitata e scarso controllo sui nostri istinti tribali
e xenofobi.
E ti sei dimenticata di darci il nostro libretto d’istruzioni! Quello che hai
creato, in noi, è magnifico, eppure profondamente imperfetto. Sembra che tu
abbia perso interesse per la nostra evoluzione futura circa 100,000 anni fa. O
forse hai preferito attendere che noi facessimo da soli i passi successivi. In
ogni caso, la nostra infanzia sta per finire.
Abbiamo deciso che è ora di emendare la “costituzione umana”. Non lo facciamo
con superficialità, leggerezza o senza rispetto, ma con prudenza, intelligenza
e con obiettivo l’eccellenza. Vogliamo che tu sia fiera di noi. Nei prossimi
decenni perseguiremo una serie di cambiamenti al nostro organismo, con gli
strumenti della biotecnologia, in maniera razionale e creativa. In particolare,
dichiariamo i seguenti sette emendamenti alla costituzione umana:
Emendamento n. 1: Non sopporteremo più la tirannia dell’invecchiamento e
della morte. Per mezzo di alterazioni genetiche, manipolazioni cellulari,
organi sintetici e ogni altro mezzo necessario, ci doteremo di vitalità
duratura e rimuoveremo la nostra data di scadenza. Ognuno di noi deciderà
quanto a lungo potrà vivere.
Emendamento n. 2:
Espanderemo la portata delle nostre capacità cognitive con strumenti
computazionali e biotecnologici. Intendiamo superare le abilità percettive di
ogni altra creatura e inventare nuovi sensi per espandere la nostra
comprensione e il nostro apprezzamento del mondo intorno a noi.
Emendamento n. 3:
Miglioreremo la nostra organizzazione e capacità neurale, incrementando la
nostra memoria ed espandendo la nostra intelligenza.
Emendamento n. 4:
Forniremo la neocorteccia di una “meta-mente”. Questa rete distribuita di
sensori, processori di informazioni e intelligenza, incrementerà la nostra
consapevolezza di noi stessi e ci permetterà di modulare le nostre emozioni.
Emendamento n. 5: Non
saremo più schiavi dei nostri geni. Ci assumeremo la responsabilità dei nostri
programmi genetici e otterremo il totale controllo dei nostri processi
biologici e neurologici. Porremo rimedio a tutti i difetti individuali e della
specie lasciatici in eredità della nostra storia evolutiva. Ma non ci fermeremo
qui: potremo scegliere sia la forma del nostro corpo che le sue funzioni,
raffinando ed aumentando le nostre abilità fisiche ed intellettuali, fino a
livelli mai raggiunti da nessun altro essere umano nella storia.
Emendamento n. 6:
Ridefiniremo, muovendoci allo stesso tempo con audacia e con cautela, i nostri
modelli motivazionali e le nostre risposte emotive in modi che, come individui,
riterremo salutari. Cercheremo una soluzione ai tipici eccessi emotivi umani,
introducendo emozioni più raffinate. Avendo così rimosso le barriere emotive ad
una razionale auto-correzione, potremo fare a meno di insalubri certezze
dogmatiche.
Emendamento n. 7:
Riconosciamo il tuo genio nell’uso di composti basati sul carbonio per crearci.
Tuttavia, non limiteremo le nostre capacità fisiche, intellettuali ed emotive
rimanendo puri organismi biologici. Nella ricerca del controllo sul nostro
organismo, ci integreremo progressivamente con le nostre tecnologie.
Questi emendamenti alla nostra
costituzione ci porteranno da una condizione umana ad una ultra-umana.
Crediamo, inoltre, che “ultra-umanizzare” gli individui risulterà in relazioni,
culture e ordinamenti politici di una innovatività, ricchezza, libertà e
responsabilità senza precedenti.
Ci riserviamo il diritto di introdurre ulteriori emendamenti, sia
collettivamente che come individui. Non cerchiamo una condizione di
inalterabile perfezione e continueremo, quindi, nella nostra ricerca di nuove
forme di eccellenza, sulla base dei nostri principi e delle nostre capacità
tecnologiche.
La tua ambiziosa prole”[1].
Fin qui Max More. Viceversa, uno
dei rappresentanti maggiori e più consapevoli di questo approccio alla realtà e
alla storia umana in ambito italiano è indubbiamente Stefano Vaj. Egli offre
del transumanesimo una peculiare interpretazione che attraversa il pensiero di
alcuni importanti filosofi contemporanei ed europei - quindi la riflessione in
ambito anglosassone con una cospicua eredità continentale - sottolineando che
il post umano è un prodotto specifico della tecnoscienza europea che si associa
alle suggestioni filosofiche di Nietzsche, di Spengler, di Juenger, del
futurismo italiano, di Gehlen e altri. Egli insiste sulla semplice
constatazione che la tecnoscienza cambia la vita e che sarebbe assurdo
opporvisi, cercando di ritornare al passato (ma poi a quale passato: esiste
forse un passato totalmente non tecnico?), mediante quella che non sarebbe
altro che una forma di rimozione. Ciò sarebbe espressione solo di una malcelata
paura dell'inquietante avvento di un Brave new world il quale, tuttavia,
spesso è solo un’immaginazione distopica funzionale al mantenimento degli
attuali equilibri di potere, che al contrario, un'incontrollata e felicemente
anarchica diffusione della tecnologia potrebbe mettere a rischio. Il dinamismo
che proviene dal progresso tecnologico è, infatti, imprevedibile e rischia di
scardinare le strutture di coloro che della tecnologia vogliono mantenere un
monopolio a proprio uso e consumo, prima di tutto la durata al comando.
Il transumanesimo, che promuove l'abbattimento di ogni barriera che si
frapponga agli ulteriori sviluppi delle tecniche in ogni campo e soprattutto in
quello antropologico, diventerebbe allora una sorta di un nuovo spettro che si
aggira non tanto per l'Europa, quanto per il mondo.
Il contributo interessante di Stefano Vaj
riguarda nondimeno la peculiare inclinazione sovrumanista che possiede il suo
transumanesimo Alludiamo al riferimento reiterato del Nostro all'opera di
Giorgio Locchi - autore di testi come Nietzsche, Wagner e il mito
sovrumanista o L'essenza del fascismo – il raffinato intellettuale promotore
di una peculiare interpretazione nietzschiana della storia e in particolare
della svolta epocale del Ventesimo secolo, orientato ad una trasvalutazione
superomistica dei valori e della vita, in cui si manifesta l'esplodere della
volontà di potenza dei singoli e dei popoli, finalmente liberata dalle pastoie
morali, metafisiche e cristiane, e dunque in grado di realizzare il sogno
atavico dell'essere come Dio, ma in questo mondo, ma in questa vita. In tale
condizione, la novità è che oggi il transumanesimo si avvale di quello straordinario
amplificatore di potenza che è la tecnica, una tattica della vita,
direbbe Spengler - per diventare più-che-vita, proprio in quella sfera
dell’umanità corporea che Nietzsche aveva esaltato, rimanendo tuttavia ancora
troppo ancorato alla dimensione spirituale.
Vaj si sofferma su questi temi in diversi
testi, tra cui citiamo Biopolitica. Il nuovo paradigma, SEB, Milano
2005, con appendice di G. Faye, e I sentieri della tecnica. Spirito
faustiano, transumanesimo, nichilismo, Centro produzioni Moira. Milano
2021. Basta scorrere l'indice dei libri per
capire quante implicazioni filosofiche, morali, scientifiche, possiede la
tematica in questione. In questa sede non vogliamo naturalmente affrontare
tutti gli argomenti approfonditi da Vaj ma soffermarci su due di essi: l'uomo
nuovo, la natura e il naturale. Credo, infatti, che siano
fondamentali per individuare l’identità profonda del movimento e mostrarne
criticamente limiti e debolezze, di là da eventuali ulteriori digressioni e
suggestioni per le quali rimando all’interezza delle ricerche di Vaj.
L’UOMO NUOVO
In Biopolitica il nostro
Autore cita “l’uomo nuovo” come “idea non pre-moderna ma post-moderna”
sottoscrivendo il programma di giungere, appunto, ad un “uomo nuovo, a facoltà
superiori” mediante lo sviluppo libero di nuove tecniche. Questo è da farsi
evitando qualsiasi “paralisi di ordine morale”, per reinterpretare in chiave
rivoluzionaria lo specificamente umano. Quest’ultimo si identificherebbe con
quello che lui chiama “terzo uomo”.
Il primo uomo è quello
della cosiddetta ominazione che implica la nascita del linguaggio, la
formazione di società di caccia e raccolta, lo sviluppo della magia sciamanica
e l’identificazione con il proprio ambiente.
Il secondo uomo è quello
della rivoluzione neolitica che implica l’agricoltura, la città, la politica,
la religione, la divisione del lavoro e la tecnologia “pirica”. L’ambiente
naturale diventa ambiente culturale e ha luogo un’azione collettiva plasmatrice
della natura (come ha ben visto O. Spengler nel suo L’uomo e la macchina,
vero e proprio punto di riferimento di Vaj): si passa dunque dall’esistenza
organica a quella organizzata e nascono le nozioni di popolo, razza, ceto,
Stato. Si avvia e cresce la domesticazione del mondo vivente e,
parimenti, la domesticazione delle masse da parte delle élites.
La natura si separa dalla cultura e l’uomo si manifesta come essere storico. A
tal proposito tre sono le culture principali: quelle che vedono l’uomo soggetto
della storia; quelle che lo vedono oggetto-preda; infine quelle culture, come la
giudeo-cristiana, che, pur immerse nella storia, ne rifiutano moralmente il
portato (“la torre di Babele”) auspicandone la fine escatologica. In tale modo,
dice Vaj, evidentemente sulla scorta di Feuerbach, il divino viene “rovesciato”,
da proiezione della propria volontà di potenza a sua condanna trascendente, che
nel sistema moderno diventa l’ideologia della fine della storia (il
richiamo evidente è qui a Fukuyama e al suo liberalismo pacificato e
mondializzato, mediante il quale si entrerebbe in una sorta di regno immanente
del benessere senza i noiosi incidenti delle differenze culturali, etiche,
politiche e sociali che tanti conflitti hanno prodotto nel passato storico).
Il terzo uomo è quello nel
quale avviene il passaggio dalla coscienza all’autocoscienza e dall’azione
meramente trasformatrice del proprio ambiente naturale e culturale alla
responsabilità dell’autodeterminazione diretta di un contesto ambientale e
di un’identità biologica integralmente artificiali per condurre la civiltà
ad esiti “più che umani” e “sovrumani”. A tal fine è necessario assumere
l’azione in prima persona, sottraendosi ai meccanismi impersonali del Mercato e
della Natura, e promuovendo una specifica volontà di potenza sul modello
nietzschiano. Ecco allora la citazione di un Heidegger commentatore di
Nietzsche: “Nietzsche è il primo a riconoscere il momento storico in cui l'uomo
si prepara ad assumere il dominio di tutta la Terra. Nietzsche è il primo
pensatore che, in vista di una storia mondiale per la prima volta emergente,
pone la domanda decisiva e pensa tutte le sue più profonde implicazioni. La
domanda è: l'uomo, in quanto uomo nella sua natura sinora, pronto ad assumere
la signoria del pianeta? Se no, cosa deve succedere all'uomo perché egli sia
capace di sottomettere la terra e rivendicare così un antico legato? Non deve
l'uomo, così com'è ora, essere portato oltre se stesso per
adempiere a questo compito? [...] Di una cosa, comunque, dovremo presto
renderci conto: questo pensiero che mira alla figura di un maestro che
insegnerà il Superuomo concerne noi, concerne l'Europa, concerne tutta la
Terra. Non solo oggi, ma ancor più domani. E lo fa sia che lo accettiamo sia
che ci opponiamo ad esso, lo ignoriamo o lo imitiamo con accenti falsi”. Il terzo
uomo è pertanto l’incarnazione di una nuova volontà di potenza e di un
nuovo superuomo che si staglia all’orizzonte del progresso tecnologico, il
quale mette a portata di mano quel dominio che Nietzsche affidava quasi
esclusivamente ad un’ impervia ascesi immanente e individuale.
Ma qui comincerei ad avanzare
alcune notazioni critiche. Innanzitutto Heidegger: non vi sono dubbi che sia
un’ottima fonte per cogliere il centro epocale della riflessione nietzschiana,
ma non bisogna dimenticare che egli è uno dei suoi più potenti critici. Egli è
il primo e più radicale accusatore del nichilismo della volontà di potenza che
diviene volontà di volontà, cioè circolo nichilistico di ciò che aspira
all’incremento di sé senza alcun senso e alcuna ulteriorità. La volontà di
potenza, dice Heidegger ne La questione della tecnica si pone al culmine
della metafisica come “entificazione” e “reificazione” dell’essere che, nel suo
compimento tecnologico, manifesta l’essere stesso come “fondo” (Bestand),
cioè come qualcosa a disposizione per essere infinitamente manipolato,
obliandone la verità originaria. Il terzo uomo, come superuomo artificiale e
tecnico, rientra appieno in questa critica heideggariana, così pure come l’uomo
“tecnico” di Spengler. Questi, peraltro, in quanto compimento sovrumano
dell’umanità, distrugge la storia in una forma immanente e secolarizzata di
escatologia: che cosa viene dopo il terzo uomo, se non un immenso attivismo che
nella sua apparente espansività non fa che riprodurre se stesso quale Soggetto
infinitamente generatore di mondi migliori? Questa escatologia dei mondi
migliori, tremendamente uguali a loro stessi, non ci condanna ad essere una moltitudine
di ultracorpi felici che vivono e lavorano spostando masse e muovendo cose? Non
è questo terzo uomo tristemente simile ad un ultimo uomo, sia in senso
temporale sia in senso assiologico? Il suo fallimento non riproduce forse il
fallimento del grande sogno positivista di una terra elettrificata dove godere
delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità?
C’è una filosofia della storia,
uno specifico storicismo che caratterizza il transumanesimo. Oggi è il tempo
della trasvalutazione transumana dell’umanità. Da quest’oggi non si esce se non
mediante velleità reazionarie e salti o fughe in avanti utopiche. Dal potere e
dal fascino del Progresso non è possibile né auspicabile sottrarsi. C’è un
determinismo macrostorico di fondo nel transumanesimo che attribuisce al
Progresso un carattere addirittura più cogente che non l’usuale ottimismo
illuministico. Tale determinismo finisce con un movimento dove la ricerca
incessante della novità tradisce l’inquietante fissità e circolarità del nuovo,
che divora nella sua artificialità tecnica ogni altra dimensione della vita
umana, e nello specifico quella spirituale. Che c’è di più fisso del succedersi
dei nuovi modelli di I-phone? Quale logica è più stringentemente ripetitiva nei
nuovi prodotti della pubblicità? E noi affideremmo la nostra emancipazione
morale a questo meccanismo di dominio che assolutamente abbiamo smesso di
dominare?
Bisogna in ultimo notare che
l’idea di uomo nuovo non è né pre né post moderna. Già il termine “terzo
uomo”, contiene, senza volerlo, forti accenti escatologici. Malgrado Vaj rifiuti
nettamente ogni concetto che provenga direttamente o indirettamente dal cristianesimo, la sua (e
nostra) cultura di riferimento agisce sottotraccia, producendo
interessanti/imbarazzanti (dipende dal punto di vista) cortocircuiti. Ad essa
si collega l’annuncio nietzschiano del superuomo, una potente novità evolutiva
che genera nel Novecento diversi entusiasmi per la finale creazione di regni
politici prodotti da o nati per ospitare
la “nuova umanità” interamente secolarizzata, uscita da tutte le favole
metafisiche e pronta per il salto in un nuovo paradiso terrestre, sia esso
quello della società senza classi, della nazione senza catene o della razza
senza difetti.
Ma questa idea palingenetica, che
tanto è criticata da conservatori e liberali di tutte le risme – fautori dell’eschaton
realizzato del denaro/mercato senza limiti e confini -, appartiene in realtà al
DNA cristiano della civiltà europea, non solo quanto al gioachimismo sospetto
dell’età dello Spirito Santo – traduzione storico-salvifica e millenaristica
della dottrina trinitaria - bensì in relazione alla ben più alta e profonda
nozione di uomo nuovo di paolina memoria. Al santo di Tarso si deve,
infatti, attribuire l’espressione καινὸς
ἄνθρωπος (kainòs ànthropos)
che non ha paralleli al di fuori del NT né antecedenti letterali. Ebbene qual è
il suo significato? Per rispondere, pur brevemente e senza alcuna pretesa di
esaustività, a questa domanda bisogna anzitutto vedere i luoghi in cui compare:
1)
Ef 2, 14-15
“ 14 Egli infatti è la
nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di
separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, 15 annullando, per
mezzo della sua carne,
la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in
se stesso, dei due, un solo uomo nuovo,
facendo la pace, e
per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce,
distruggendo in se stesso l'inimicizia.
2)
Ef 4,21-24
21 se proprio gli
avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in
Gesù, 22 per la quale dovete deporre l'uomo vecchio con la
condotta di prima, l'uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici 23 e
dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente 24 e
rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella
santità vera.
3)
Col 3,9-10 (variante νέος ἄνθρωπος – nèos ànthropos, con il
medesimo significato di “uomo nuovo”)
8 Ora invece deponete
anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene
dalla vostra bocca. 9 Non mentitevi gli uni gli altri. Vi
siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni 10 e
avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad
immagine del suo Creatore. 11 Qui non c'è più Greco o Giudeo,
circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è
tutto in tutti.
1) Qui
si allude primariamente a una trasformazione ontologica: non c’è più il giudeo
o il pagano, colui che ha ricevuto la promessa e colui che ne è rimasto
escluso, ma è creato l’uomo nuovo, riconciliato con Dio per mezzo di Gesù, che
fa la pace e distrugge in sé l’inimicizia. Fare la pace e distruggere
l’inimicizia è un’espressione che riguarda l’essere profondo dell’umanità,
dacché l’inimicizia, introdotta appunto dal Nemico, ha degradato la natura
umana, penetrando sin nelle sue corde più profonde e togliendo all’uomo la pace
della vita nella familiarità del Creatore. Ora, solo il fàrmakon sublime
della Croce poteva toccare quelle profondità e risollevarle, ricostruendo da
dentro l’essenza perduta e negata dell’uomo e facendo di lui un essere
totalmente rinnovato.
2) La
trasformazione ha anche, ovviamente, una
ricaduta morale, che implica la deposizione dell’uomo vecchio e della sua
condotta fatta di passioni ingannatrici: αἱ
ἐπιθυμίαι τῆς ἀπάτης,
ai epithymiai tès apàtes, le passioni dell’inganno che nascono da quella
contaminazione iniziale del peccato e che si sono patologicamente diffuse dalla
carne – la sensibilità debole e corruttibile – all’uomo intero. Alla lotta
contro la prigionia della carne deve seguire un rinnovamento interiore : τῷ πνεύματι τοῦ νοὸς ὑμῶν ,tò pneumati toù noòs ymoòn,
nello spirito della mente, cioè
nell’intimità più radicale dell’uomo - lo spirito – che rende la mente, cioè
l’anima, capace di produrre nuovi pensieri e determinazioni in grado di
modificare concretamente e completamente la vita. Ecco la nuova creazione in
cui l’umanità rinnovata rinasce dall’alto.
3) La
trasformazione ontologico-morale ha una dimensione universale che genera una
nuova conoscenza del mistero, tale per cui risultano superabili e
relativizzabili le particolari leggi e costumi e tutte le appartenenze, anche
quelle religiose. La conoscenza è importante: sembra che Paolo concluda qui le
sue riflessioni sull’uomo nuovo dicendoci che egli è rinnovato tanto
nell’essere, quanto nell’agire e nel conoscere.
L’umanità
nuova in Paolo risulta pertanto qualcosa di strappato a sé, quasi una
dilacerazione del vecchio uomo che vede rimosso con una chirurgia finissima ma
radicale un tumore profondo dello spirito, della mente e del corpo, ma non in
modo anestetico, bensì attraverso l’iperestesia della croce, alla quale
l’uomo è associato per inchiodare con violenza la sua violenta vecchiezza e
liberarla per la novità assoluta, imprevedibile, improgrammabile,
supererogatoria e ineffabile del Regno.
Ciò anticipa
ed esprime al più alto livello quella via mistica che poi san Bonaventura
avrebbe riformulato come un itinerarium mentis in Deum: via purgativa
per liberare lo sguardo nel mondo; via illuminativa per trovare nell’anima la
luce della verità, via unitiva per risalire dall’intimius intimo meo al superior
summo meo (dal più intimo del mio intimo, alla altezza che sta oltre la mia
altezza).
Qui allora si
manifestano due alternative. Da un lato abbiamo un “terzo uomo” artificiale che
affida la propria emancipazione a un prodotto del proprio ingegno, e che
incessantemente si autodomestica, nella ripetizione di singole novità parziali
dalle quali ci si aspetta, per una logica sommativa, la novità totale che mai
arriverà come mai si giunge all’ontologicamente infinito per semplice addizione
indefinita di unità.
Dall’altro
lato abbiamo l’uomo nuovo che riposa nella pace della sua definitiva
ulteriorità, come un albero rivoltato con le radici in una trascendenza che qui
ed ora lo emancipa, pur per brevi e abbaglianti illuminazioni, dalla schiavitù
del tempo, dello spazio, delle passioni ingannevoli (san Paolo), dell’occhio
che non vede e dell’orecchio che rimbomba (Parmenide). Non un annuncio di
potenza che vuole se stessa e mira al controllo della storia, ma che nella
storia nasce, si corrompe e muore come tutta la storia che è la sfera dei suoi
trionfi, ma anche della sua inevitabile corruttibilità e corruzione; non
l’impero e Roma perché luget in auternum, quae se iactabat aeterna,/ Cuius
et tyranni iam tunc iudicantur a Summo (Commodiano, Carmen de duobus
populis – e se Roma piange, Washington non riderà); non tutto lo splendore
e la gloria del cacciatore, ma l’orgoglio del pesce che è tutto nell’abboccare
all’amo di un sublime Pescatore che lo strattona verso l’alto (L. Marechal): le
acque che sempre cambiano, in cui siamo e non siamo, non sono tutto; il liquido
amniotico della nostra immanente comodità pre parto preludono ad una nascita
dall’alto, una rinascita nella quale ciò che è umido e caldo, simbolo della nostra
dolce dipendenza dal mondo, sarà superato mediante il soffocamento e la perdita
del nostro apparato branchiale, per crescere con nuovi polmoni all’aria libera.
Che cosa è più
degno dell’uomo? In che cosa la condizione umana è realmente superata? In che
cosa essa è prigioniera? Che cosa è favola, proiezione, illusione? Che cosa è
verità e vita?
IL FINE E LA
NATURA
Sempre in Biopolitica,
Vaj esprime un concetto di natura che, tra le tante citazioni dell’Autore, noi
riportiamo mediante concetti mutuati da Arnold Gehlen: “Per Gehlen, l'uomo è naturalmente sociale, ma anche
naturalmente tecnico, poiché il mondo culturale che costituisce la casa in cui
egli si trova a suo agio è un mondo che può evolversi e costruirsi solo grazie
all'intervento tecnologico. [...] L'uomo, che si presenta biologicamente
carente nei confronti degli animali meglio adattati e più specializzati, è
tuttavia capace di prestazioni imprevedibili e di attività insospettate, ma
Gehlen si rifiuta di ascrivere queste caratteristiche ad una scintilla divina,
ad un'anima immortale impressa da Dio nella sua creatura prediletta.
Nell'antropologia elementare non c'è più posto per la divinità, è quindi l'uomo
tecnologico che con le sue sole forze è in grado di superare le necessità e
proiettarsi nel regno della libertà. La riflessione antropologica di Gehlen si
avvicina alla concezione volta a fare dell'uomo l'essere capace di costruire il
proprio futuro. E' la libertà di determinare il proprio destino che ripaga
l'uomo di tutte le sue carenze organiche, realizzando ciò che tutti gli altri
esseri, pur non limitati da ‘inadattamenti’, ‘non-specializzazioni’ e ‘primitivismi’,
non riuscirebbero mai a costruire: un "mondo culturale", un ‘ambiente
artificiale’, atto a garantire l'esistenza e a soddisfare le esigenze di
quell'essere particolarissimo che è l'essere umano. Dalla costruzione dei più
rudimentali utensili alla creazione delle più sofisticate apparecchiature
odierne, la tecnica ha costantemente aiutato l'uomo ad aprirsi al mondo, a
conquistare e a dominare tutta la terra...”. Sulla stessa linea di pensiero si
situa Oswald Spengler che nel suo L’uomo e la macchina dice: “[In tale
prospettiva] la lotta della natura interna dell'uomo contro la natura esterna
non è più sentita come una sofferenza (così Schopenauer e Darwin si
rappresentavano lo struggle for life), ma come il grande senso
della vita, che la nobilita; così pensava Nietzsche: amor
fati. E l'uomo appartiene a questa specie”.
La sostanza di
queste considerazioni è che riguardo al concetto di natura è possibile
stabilire una continuità “naturale” tra il mondo dato e, dentro di esso, l’uomo
con la sua vocazione tecnica. Insomma per Vaj è del tutto bizzarra l’“idea della Natura
astratta ed universalista, percepita da un lato come statica, immutabile, da
sempre e per sempre data, dall'altro come nettamente separata, anzi in
opposizione all'uomo rispetto all'uomo e alla cultura,
trascurando il fatto che l'uomo, in quanto essere vivente, della natura
fa comunque parte, per quanto vi sia chi arrivi a sostenere
che la nostra specie è un "incidente", una manifestazione
"patologica" o un "cancro". In realtà, però, è la stessa
scienza ecologica a rimettere in discussione questa visione paradisiaca (non
estranea del resto al fatto che i suoi propugnatori vivono come tutti gli
intellettuali occidentali in un ambiente iperprotetto), nel momento in cui ci
mostra come gli ecosistemi evolvano e decadano, come gli equilibri che si
vengono a creare siano in realtà risultanti dinamiche provvisorie,
che possono variare e variano nel tempo anche senza nessun intervento
"umano", risultanti dalla lotta di tutte le specie (o meglio dei loro
geni) per mantenersi ed espandersi, e dai caratteri di quel biotopo in quel
momento dato. Non esiste in realtà alcun equilibrio naturale prefissato
ed indefinitamente autosufficiente che possa essere ‘turbato’ […]. La natura di
per sé non è né incontaminata, né benigna, né adatta, ma solo adattabile,
alla vita umana”. Così, aggiungo io, il nostro Leopardi nel Dialogo della
Natura e di un Islandese:
“NATURA — Tu non sai quello che ti
dici. Tu ignori che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di
produzione e distruzione, collegate ambedue fra loro di maniera che ciascheduna
serve continuamente all’altra, e alla conservazione del mondo: il che se cessasse,
il mondo verrebbe parimente in dissoluzione. Così la distruzione è una cosa
necessaria all’universo; e per tanto la natura la fa continuamente.
ISLANDESE
— Dunque la natura non si cura del bene e del male de’ mortali?
NATURA
— Io non ho fatto né il piacere né il bene vostri: io non ho fatto le cose per
vostro vantaggio: né mi giova se voi vivete, né mi dispiace se voi perite.
ISLANDESE
— Ma dunque la vita di ciascun animale non è altro che un continuo patire?
NATURA
— E ciò che chiami male e patimento è parte necessaria di quell’ordine delle
cose che io mantengo; parte del disegno mio, e dell’universo”.
Sulla scorta
di Pico della Mirandola, un transumanista, sottoscrivendo al tempo stesso la
critica leopardiana, direbbe che la natura ha dato all’uomo la possibilità di
scegliersi la propria natura. E tale possibilità è la tecnica. Essa proviene
dalla natura umana, perché appunto l’uomo è naturalmente tecnico, e, mediante
la tecnica, produce continuamente nuove possibilità naturali, rispetto alle
quali l’idea di preservare una natura tutt’altro che benigna contro i rischi di
una tecnicizzazione integrale del mondo, perde senso.
Sulla base di
questi assunti perde parimenti senso l’idea ecologica della preservazione dei
ritmi naturali dall’intervento antropico. Tutto insomma va bene. Tale
concezione realistica della natura, scevra di romanticismi e irenismi, posta
accanto a quell’antropologia che non distingue tra natura e tecnica, da un lato
giustifica l’intervento trasformatore dell’uomo, dall’altro ne legittima
un’indefinita estensione. Se tutto va bene, perché qualunque cosa faccia l’uomo
esprime una possibilità offertagli naturalmente, non può esistere alcun
criterio che stabilisca limiti e valutazioni nei termini di bene o male.
Qui possiamo
cominciare una fase critica del nostro resoconto. Iniziamo con l’osservare che
se tutto va bene, non esiste alcun discrimine per la decisione umana, nemmeno qualora
essa si orientasse verso la riproposizione di un criterio stringente di
rispetto della natura considerata come dato e come spontaneità. Siccome tutto
dipende dall’arbitrio umano, che è un fattore intimamente naturale, il
futurismo e il naturalismo romantico rimarrebbero opzioni equivalenti, la città
di Blade runner o il sistema di Matrix, non sarebbero
distinguibili dal mito del buon selvaggio
e dalla letteratura bucolica. Il fatto che Vaj cerchi di sottolineare
che ogni scelta contraria allo sviluppo della tecnica sia assurdamente
antistorica, inefficace, irrazionale e un po’ ridicola (come lo è per esempio
lo stile di vita degli Amish in America), non ha dunque alcun fondamento nei
presupposti che egli stesso pone alla base del suo discorso, a meno che egli
non avanzi surrettiziamente l’idea di una natura tecnica dell’uomo
statica, fissa e immutabile, indipendente dalla sua decisione. Vale a dire: a
meno che egli non riproponga per la tecnica quella stessa idea romantica del
rispetto di una natura umana “data” a prescindere dalla sua cultura e dalla sua
libertà.
Riguardo alla
spietatezza di una natura meccanica e senza fini, bisogna andare oltre a questo
che è un pregiudizio tipicamente illuministico, che non tanto sovrappone natura
a tecnica, quanto tecnica a natura, in modo da far apparire il grande orologio
naturale (sprovvisto di orologiaio) come un immenso meccanismo di tortura in
mezzo al quale sono concessi solo brevi intervalli di piacere. Tale inversione
speculare del romanticismo è parimenti unilaterale e fuorviante. Una
considerazione della Natura come di un sistema sprovvisto di fini, quale
reazione galileiano-cartesiana al prevalente finalismo aristotelico, è stata
fina da Kant ritenuta almeno parziale. Kant dedica una delle sue critiche, la
prima, alla natura-meccanismo, e un'altra ai fini naturali, la terza. In
quest’ultima Critica del Giudizio si insiste sul fatto che la natura è
anche bella e si propone la nozione di bellezza come forma della
finalità senza scopo che genera nell’uomo la risonanza di un piacere
senza concetto e senza interesse. In coerenza con il suo soggettivismo di
fondo e senza derogare ai principi della scienza, qui si adombra un’idea che,
senza tradire troppo le intenzioni dell’Autore, possiamo semplificare così: pare
che il mondo che mi circonda sia fatto apposta in modo che io mi possa sentire
profondamento a mio agio. Quando ciò accade io riferisco a me una sua certa
finalità, che ne articola tutte le leggi affinché si adattino alle mie facoltà
percettive e mentali, come se l’intero sistema naturale avesse l’armonia che
hanno gli enti ideati per uno scopo, senza che io possa dire né che vi sia uno
scopo nella natura né quale sia, a parte il fatto che tale forma armonica della
finalità si adatta splendidamente al mio sguardo, facendomi provare, mentre
solamente la contemplo, uno specifico piacere, scevro da ogni utile o da
qualsiasi secondo fine. Quando così accade, io, di fronte allo spettacolo della
natura, dico: “Che bello!”
Ora, noi, di
là dalla vocazione kantiana a ribadire la forza della sua rivoluzione
copernicana che tutto riconduce al soggetto, possiamo ardire ad affermare,
sulla scorta di una nobile tradizione, che il fenomeno della finalità
bella ha la sua cosa in sé, ha il suo scopo profondo, ha il suo assoluto
oggettivo. La tradizione parla di splendor veri (splendore del vero,
Platone), splendor formae (splendore della forma, Tommaso), splendor
ordinis (splendore dell’ordine, Agostino): i genitivi dicono l’assoluto, la
cosa in sé, l’essenza che risplende nella bellezza del mondo e della natura, e
che ne rappresenta anche la tensione fondamentale, il verso dove, appunto il
suo scopo. I genitivi sono la verità che affiora splendendo dalle cose;
l’essere che ha una sua chiarezza formale
definita, piena come ben rotonda sfera, esatta per ogni ente che è esattamente
e straordinariamente quello che è; e infine l’ordine che offre a tutto
la sua singolare collocazione nel tutto dello spazio e del tempo con infinita
intelligenza musicale.
Accanto al
giudizio estetico relativo alla bellezza, vi è anche in Kant un giudizio
teleologico che non riguarda la natura in rapporto al soggetto che la
contempla, ma in rapporto a se stessa. Si tratta di una teleologia piuttosto
timida che sostiene che “un organo di un
organismo vivente, sia esso una pianta, un animale o un essere umano, non ha
senso se non in vista del fine della vita dell’organismo nella
sua interezza: il braccio, la mano, il fegato, le radici, le foglie, non hanno
senso di per se stessi, ma solo in quanto servono al fine di mantenere in vita
un determinato organismo vivente” (A. Gargano) così che, appunto, le singole
parti hanno il loro fine nello sviluppo del tutto. Come se le parti di un
organismo fossero fatte apposta per generare determinate funzioni, come se in
sostanza l’occhio fosse fatto apposta per vedere e le gambe per camminare,
affinché chi possiede occhi e gambe possa sviluppare certi caratteri e compiere
proprio certe azioni.
Orbene, il
biologo Jacques Monod in Il caso e la necessità, aggiorna e modernizza le
osservazioni kantiane sostenendo che non si può evitare di comprendere la
natura come qualcosa di apparentemente finalistico (perché non si può
fare a meno di dire che l’occhio c’è per vedere), ma che in realtà tale
finalismo è il risultato di cause meccaniche e cieche. Ecco l’emergere della
prospettiva teleonomica: “Non esiste alcuno scopo nell'apparente armonia
della natura e nei suoi multiformi adattamenti, ma tutto è, come
affermava Epicuro, frutto del caso e della necessità. Gli
organismi non hanno un fine ad essi esterno, dettato da un ente estraneo, ma
proprietà teleonomiche che li distinguono dalla materia
inanimata; la loro struttura, infatti, non ha un fine ad esso esterno, ma è
determinata dal codice genetico, che detta loro, dall’interno, il programma a
cui i viventi si attengono fedelmente; è questo che permette loro di essere
strutture organizzate, la cui ‘armonia’ emerge semplicemente non a causa di un
artefice, ma grazie a una complessa serie di reazioni chimiche regolate da
enzimi codificati da geni a loro volta controllati da altri” (www.anisn.it, sv Jaques Monod).
La filosofia di Robert Spaemann
costituisce la più radicale contestazione di un simile orientamento. Il
filosofo tedesco ritiene infatti che non si possa interpretare il progetto
immanente allo sviluppo naturale come effetto del caso o, il che è lo stesso,
della selezione naturale. Infatti, secondo Spaemann, non si può descrivere un
organismo come orientato a uno scopo (anche solo apparentemente) se nella
realtà non c’è niente che fondi tale orientazione. Pertanto c’ è un motivo
reale, c’è una cosa in sé in nome della quale la biologia parla di funzioni,
adattamento, riproduzione per la sopravvivenza etc. e questo motivo è un fine
cui tendono gli enti naturali e in vista del quale si organizzano in modo non
casuale (il caso, nota Spaemann, non è la causa di una data configurazione
della realtà, ma è una categoria epistemica che indica il fatto che appunto noi
non conosciamo la suddetta causa). In
verità senza una finalità nulla è veramente comprensibile perché è da
tale concetto che si evince il senso profondo di un oggetto di conoscenza.
Su questo assunto vorremo
articolare una critica alla posizione di Vaj che formula due accuse nei
riguardi coloro che propongono il concetto di una morale del rispetto della
natura:
1) Quella
di di tralasciare la continuità tra il
naturale e il tecnico;
2) Quella
di considerare la natura come un dato fisso, un oggetto dato che deve fungere
da criterio dei nostri comportamenti ecologici, così com’è in una forma
originaria, perfetta e immutabile.
In realtà tra la visione
irrealistica e romantica di uno spontaneismo naturale fisso e immutabile e la
prospettiva di un arbitrio assoluto fondato sull’idea che la tecnica è natura e
tutto ciò che compie va bene, si colloca l’alternativa di Spaemann: la natura è
finalistica, è come tutta la realtà in statu viatoris, possiede un
dinamismo interno, esistono in sostanza “fini naturali” che designano un
criterio essenziale (di verità, d’essere) per la sua valutazione. Ma non si
tratta di un’essenza data come presupposto (se non solo parzialmente e
incompiutamente) ma offerta come meta. Anche il creato “geme e soffre nella
speranza” come dice san Paolo (Rm 8,22). La teleonomia, al contrario, inverte
la teleologia perché sostiene che “l’attività dell’ente non manifesta più un
ulteriore grado di perfezione del medesimo rispetto al semplice esserci, da
leggersi come teleologia che trascende se stessa nella partecipazione
all’Assoluto, ma si riduce all’autoconservazione dell’ente stesso” (D.
Saccoccioni, recensione a R. Spaemann, R. Low, Fini naturali).
Il giudizio teleologico kantiano
e la teleonomia in sostanza vedono il senso delle cose dentro le cose stesse, e
la loro finalità come immanente ad esse: l’autoconservazione “cieca”. Spaemann
ammette ovviamente che l’organismo tende a mantenersi in vita, ma la vita,
proprio in questa tensione, rimanda a qualcosa che va oltre se stessa: “La
finalità naturale è il modo in cui la Natura partecipa dell’Assoluto”. Vale a
dire: l’autoconservazione non è un ciclo chiuso ma un movimento verso l’Oltre,
che è fonte di senso dell’essere. Sopravvivenza e riproduzione come uniche
finalità trasformano la vita e l’intero processo naturale dal cui seno essa
sgorga, in un processo senza senso. La mancanza di senso è tipica dei processi
circolari, serrati in loro stessi e condannati alla ripetizione. Il senso è
invece una direzione lineare in cui la fine coincide con il fine, e in cui il
fine possiede una pienezza definitiva tale da non abbisognare della ripetizione
del processo. Si dirà che ciò coincide con una forma di ideologia storica del
progresso? Non so se il fatto di dire che natura e storia tendono a un fine che
si manifesterà solo nella trascendenza della fine, cioè escatologicamente,
implica la statuizione di un meccanismo del divenire per il quale, più si
avvicina la fine più si è ontologicamente vicini al fine. Le Scritture non
dicono così, anzi la letteratura apocalittica tende a smentire un simile
pregiudizio. Al contrario essa non smentisce affatto la tensione, la tendenza,
il conatus verso la pienezza che solo dà senso alla vita del cosmo, e
che non aumenta né diminuisce storicamente e in modo progressivo, ma è presente
in ogni fibra dello spazio e del tempo.
Che ne è allora della tecnica? I
fini naturali tornano ad essere un criterio possibile che precisamente consiste
nella commisurazione etica della finalità tecnica al bene essenziale cui tende
la natura esterna e la natura umana
stessa. Certo: vi è una qualche continuità tra la natura e tecnica, ma
come la natura non è data tutta in una volta, non è pura spontaneità, ma è organizzata
secondo fini, allo stesso modo la tecnica non è data tutta in una volta, ma
secondo fini. Il legame fra tecnica e natura allora si riformula come qualcosa
di necessario. Tolti i fini dalla natura, si priva la tecnica del suo naturale
meccanismo di autoregolazione. “Una volta spogliata del proprio carattere entelechiale
(finalistico, n.d.r.), ‘non c’è più quella natura che prova avversione di
fronte a qualcosa’. Caduta la distinzione tra movimento naturale e movimento
violento, la natura si consegna definitivamente, - con Cartesio – al meccanicismo.
In natura nulla si oppone alla nostra manipolazione, in quanto la natura si
riduce a pura estensione e movimento locale: ‘la natura diventa semplice
materia per la posizione umana di fini’ (Spaemann, in Amori, Il pensiero di
Robert Spaemann tra critica della modernità e ontologia teleologica).
Ciò significa che oggi essa può
manifestare l’essere come Bestand (fondo a disposizione, Heidegger), come
una tattica della vita finalizzata al dominio e alla potenza (Spengler) oppure
come il modo in cui l’operaio, il lavoratore (l’homo faber, n.d.r.)
mobilita il mondo (Jünger). Ma, anche alla luce di Spaemann, mi pare di
poter dire questa non è una direzione definitiva perché è soggetta a giudizio,
valutazione e commisurazione con la tendenza naturale dell’essere al Bene, una
tendenza che può essere contrastata, deviata “per violenza”, ma le cui
deviazioni possono essere analizzate, comprese e soggette a reindirizzo. Il
meccanismo accumulativo del progresso tecnico è di per sé cieco, perché manifesta
una continuità indefinita e procede appunto per aggiunte successive senza
direzione (cioè è un’accumulazione moralmente indifferente). L’uomo può
esercitare un confronto tra la cecità di un processo meccanico di accumulazione
– che non esclude, tutt’altro, momenti creativi ma che non è in grado di
governarli criticamente per distinguere un nuovo strumento di tortura da un
impianto per risonanze magnetiche – e un divenire coerente con un Bene
fondamentale seppur solo intravisto per speculum in aenigmate (1Cor
13,12: “Ora vediamo come in uno specchio e in maniera confusa”), verso il quale
orientare la sua prassi in armonia con il conatus del mondo.
E quando Ernst Jünger formula l’auspicio o la profezia di una nuova fase dello
sviluppo tecnico, di là del muro e oltre la linea dei nostri
tempi nichilistici, forse allude a tale possibilità. La possibilità di una
riconciliazione finale, io direi finalistica, tra il meccanico e l’organico in
cui la tecnica si potrà fare più vicina alla vita … per natura e non per
violenza. Il bel romanzo di fantascienza di Francesca Conforti, intitolato Spine,
descrive un mondo simile, dove l’artificio tecnico incontra l’organico e il
biologico, e l’opera manipolativa si apre ai fini naturali senza rinunciare alla
sua vocazione creativa.
È questa una possibile alleanza tra il sacro
della creazione e il profano dell’invenzione? Dove c’è un tempio, lì c’è Dio,
ma davanti a ogni tempo c’è lo spazio che Dio ha consegnato all’uomo. Dall’esterno
noi entriamo togliendoci il cappello e genuflettendoci perché lì v’è ciò che
vale veramente, il nostro destino ultimo; dall’interno noi usciamo pieni di
spirito e di voglia di vivere con la libertà dei figli. Quando smettiamo di
entrare e uscire, il legame tra le dimensioni della nostra vita, tra la
contemplazione e l’azione, tra la teoria e la prassi, tra la preghiera e la
carità si recide. E tutti, in un mondo fantasmagorico di miracoli artificiali,
diventiamo più poveri.
