venerdì 8 dicembre 2023

Scuola… si può fare di più. Intervista a Massimo Maraviglia

                                            Benedetto Luti, Allegoria della sapienza
 

Ripubblico questa intervista a cura di Pierluigi Arcidiacono, rilasciata alla rivista telematica "Destra.it", nella convinzione che oggi non solo si possa fare di più ma si debba fare di più. Il Miur deve assolutamente cambiare il suo approccio, troppo simile a quello dei precedenti governi, e trovare il coraggio di andare controcorrente, perseguendo il bene comune degli studenti, degli insegnanti e di tutta la comunità nazionale. In una prospettiva di medio periodo ciò è ancora possibile. Nel mio piccolo non mancherà il pungolo di riflessioni e critiche, provenienti dall'esperienza dell'insegnamento e della militanza politica. Questo intervento riassume i temi sui quali è necessario secondo me insistere, nella consapevolezza delle mediazioni che la prassi di governo deve per forza sopportare, ma nella corrispettiva convinzione della necessità che una linea guida culturale e ideale differente dai dogmi delle élites dominanti (quelli che hanno distrutto la scuola contemporanea) debba emergere.

Si è svolto a Milano lo scorso 6 settembre il convegno: SCUOLE PARITARIE – PROPOSTE PER MILANO. Ha introdotto i lavori (davvero brevemente) il candidato Sindaco del “Centrodestra” Luca Bernardo. Molti sono rimasti perplessi dall’atteggiamento dei giornalisti che hanno atteso Bernardo quasi con un paio d’ore d’anticipo all’esterno della sala e dopo avergli posto alcune domande non inerenti al tema del convegno (alcune anche banali…) hanno disertato la sala e non sono entrati a seguire l’importante incontro organizzato a poco più di una settimana dalla riapertura delle scuole. Tra gli intervenuti Massimo Maraviglia del Dipartimento Scuole di Fratelli d’Italia, al quale abbiamo posto alcune domande.

Maraviglia è insegnante di Storia e Filosofia nei licei. Si è occupato di pratiche filosofiche, di etica, del rapporto tra politica e teologia e di pedagogia pubblicando testi e articoli in diverse riviste scientifiche. Avendo a cuore il richiamo platonico al dovere filosofico dell’impegno politico, non ha disdegnato né disdegna la militanza, intesa come atto di gratitudine verso la propria comunità e di critica verso chiunque ne usurpi la guida.

Lei insegna al “Gonzaga”, scuola paritaria che ha origine da Giovanni Battista de La Salle. Sappiamo quale fu l’opera importante di questo santo, Patrono degli insegnanti e degli educatori. Secondo lei è ipotizzabile, nel mondo moderno (e specialmente in Italia, magari a Milano), una scuola al pari dei migliori istituti come il San Carlo, il San Celso e il Gonzaga, ma per studenti che non appartengano a famiglie agiate?

Quando Suor Anna Monia ha parlato del suo auspicio di vedere una scuola paritaria frequentata da tutti e anche dalle famiglie meno abbienti, avrei voluto idealmente abbracciarla perché questo è il senso ultimo, profondo e vero della scuola cattolica: promuovere la cultura e dunque la crescita personale di tutti, aiutando soprattutto chi nella società appartiene al popolo di coloro che non hanno proprietà e denaro, ma il cui contributo è fondamentale alla vita di tutti, perché tutti sono popolo di Dio. Leon Bloy diceva che, anzi, ai poveri vanno dedicate le cose migliori di questo mondo: “Le delizie sono per i poveri” dice il grande scrittore francese nel suo “Il sangue del povero”. Ma naturalmente egli non ha fatto che riformulare un’antica verità cristiana che Giovanni Battista de La Salle aveva compreso benissimo e alla quale dedicò la sua vita cogliendo in Gesù la persona dell’unico Maestro cui vanno ricondotti tutti gli uomini in qualità di allievi, e soprattutto coloro che più hanno bisogno di Lui e che Lui ha destinato alla via breve per il Regno, i poveri: “Onorate Gesù Cristo nella persona dei fanciulli poveri e preferiteli ai ricchi poiché sono l’immagine viva di Gesù e i più amati da Lui!”.  Quella di vedere trasformate le opere fondate dal Santo di Reims in luoghi per ricchi è una condanna, alla quale i Fratelli delle Scuole Cristiane cercano di sottrarsi, operando meritoriamente nel Terzo Mondo e dirottando le energie economiche raccolte nel Primo a favore dei meno fortunati…ma anche qui da noi si può fare di più, come giustamente dice suor Anna Monia, riconoscendo l’imprescindibile valenza pubblica della scuola paritaria e offrendo a tutti la possibilità di parteciparvi con le stesse risorse che oggi si spendono mediamente per ogni alunno della scuola statale (cioè “senza oneri per lo Stato”). Sarebbe niente meno che giustizia: le tasse dei cittadini ritornano ai cittadini sottoforma non di un servizio standard, uniforme, obbligato e monocorde, ma come possibilità di scelta tra diversi stili educativi e culturali. Ma la giustizia diventerebbe condizione per qualcosa di più: caritas cioè l’albeggiare di nuove possibilità civili e morali in quella centralità – mistica e sociale al tempo stesso – del povero e del popolo che dà il tono e lavora sotto l’intera storia dell’Europa o della Cristianità, sempre viva e operante quand’anche sepolta sotto la spessa coltre degli interessi dei Principati e della Potenze. Una scuola cattolica, paritaria e di popolo sarebbe altresì una scuola autenticamente nazionale, cioè in grado di contribuire a garantire l’accesso di tutte le energie della nazione agli strumenti migliori per fiorire e realizzarsi. Una comunità nazionale che chiude le porte ai poveri è una comunità povera. Al contrario le delizie – cioè i livelli più alti di qualità – sono per i poveri – e i livelli più alti di qualità si generano solo nella sinergia delle forze sociali della scuola paritaria e di quelle istituzionali della scuola statale.

Quale potrebbe essere il criterio di ammissione degli studenti?

Il miglior criterio è …nessun criterio. Non capisco sinceramente, anzi per la verità qualche ipotesi potrei avanzarla, questa smania anglosassone ed elitista della “selezione in entrata”. Selezioni in entrata per poi fare una scuola di livello infimo, a metà tra il centro benessere, il servizio di assistenza sociale e l’associazione di coaching e counseling psicologico, come vorrebbero le più aggressive correnti del più deleterio pedagogismo contemporaneo? No, a scuola si fa cultura e la cultura è di per sé selettiva. Chi si impegna e ha i talenti minimi per acquisirla lo fa, per gli altri vanno pensati percorsi alternativi, garantendo anche a chi non vuole studiare il diritto di non studiare e di trovare ugualmente il suo posto nella comunità. Pari condizioni di partenza garantite a tutti; diverse, fatalmente diverse, condizioni di arrivo, dove però sempre l’eccellenza è premiata, il valore riconosciuto, l’impegno stimolato e infine dove tutti, anche i meno capaci culturalmente, secondo giustizia trovano il loro posto nella vita civile, perché riconosciuti nel valore che rappresentano e nelle abilità che possiedono.

Se lei avesse la bacchetta magica, e potesse dar vita a una propria scuola, da quale ciclo inizierebbe (come si chiamavano una volta): Elementari, Medie o Superiori?

Tutti i cicli hanno uguale rilevanza nella misura in cui l’uno fonda l’altro. Se uno lavora sulla personalità infantile, l’altro su quella adolescenziale e ciascuno vive diverse eppur proporzionali difficoltà. In ogni ciclo, tuttavia, va riaffermata la centralità della persona e della cultura. Il criterio deve sempre essere orientato alla formazione integrale della persona mediante la cultura. Il ruolo educativo della scuola si esplica, infatti, in tale campo mentre il resto appartiene alla sfera della famiglia, con cui la scuola si deve coordinare nel rispetto dei rispettivi ambiti d’azione. L’urgenza educativa, d’altro canto, si sente in ogni ordine e grado della scuola: ovunque si avverte l’attacco aggressivo delle nuove pedagogie, quelle che depotenziano la finalità culturale a favore di un più generale “accudimento”, attaccando la funzione docente, sempre più ridotta al baby sitting psicosomatico,  svilendo la prassi valutativa in nome di un egualitarismo livellatore e straccione, distruggendo il rapporto fecondo dell’educazione con la tradizione storica e spirituale d’appartenenza per lasciar spazio ai globalismi senz’anima e all’imporsi dell’homo consumens, vera e propria sincope antropologica della civiltà europea. Come ho spiegato altrove, le nuove pedagogie agiscono come una setta che intende affermarsi in simbiosi con la sinistra politica, di cui rapprensenta la longa manus scolastica. La scuola paritaria può avere una funzione positiva nel trattenere e rallentare i processi egemonici in atto, che trovano invece terreno fertile nella scuola statale sindacalizzata e burocratizzata.

Supponendo che vi fosse un Governo forte che favorisse un modello di scuola così, come si potrebbe, poi, sopravvivere all’eventuale cambio alla guida del Paese?

Il problema esiste ed è anzi più generale: ogni ministro e ministrucolo di questa disgraziata repubblica vuole promuovere la sua riforma scolastica, sempre sulla base di qualche slogan neo-pedagogico male orecchiato e peggio realizzato. C’è veramente da domandarsi se non sia necessario inserire tra gli obiettivi programmatici di governo dell’istruzione la “stabilità” organizzativa e legislativa della scuola, centellinando gli interventi secondo una rigorosa gerarchia di necessità e disponendosi a sopportare anche taluni difetti per evitare quell’esito dissolutivo e liquido cui conduce l’ansia irrazionale della riforma per la riforma. Finora, fatte salve pochissime eccezioni (mi ricordo solo del prudente ministro Fioroni), tutti gli occupanti del ministero dell’Istruzione hanno voluto segnare il territorio e lo hanno fatto per lo più con le loro deiezioni cioè con una più o meno scellerata “riforma”. Ciò malgrado è ancor distinguibile, sotto la coltre delle violente manomissioni del dopoguerra, l’impianto gentiliano della scuola italiana, quello che ancora dà ai nostri studenti all’estero un cospicuo vantaggio sui loro coetanei, benché i criteri di valutazione internazionali (ideologicamente molto sospetti) tendano a non riconoscerlo.

Una certa cultura (senza mezzi termini diciamo pure: la Sinistra) ha così paura di una Didattica che non sia quella fornita dalle scuole statali?

La sinistra ha paura della didattica in generale e nelle scuole statali sta esercitando la sua ideologica e talvolta violenta egemonia, svilendo, come ho detto, la cultura secondo il criterio deweiano: “Non abbiamo bisogno di buoni cervelli, ma di buoni cittadini”. Così l’uniformità sociale e il buon funzionamento degli apparati di produzione e consumo vengono anteposti ai fini spirituali della formazione e di qui scaturisce una serie infinita di conseguenze nefaste per la scuola, tra le quali l’enfasi sulle cosiddette “competenze” a scapito delle conoscenze, come se l’insegnamento fosse ridotto ai trucchetti per cavarsela nella vita e alle scorciatoie metodologiche per risolvere problemi (produzione-consumo) invece che allargato ai vasti orizzonti di ciò che l’uomo ha elaborato nei secoli per cercare il senso di sé e del mondo. Ma non è tutto: all’intervento sottile sul piano della didattica, si associa quello grossolano e volgare sul piano dell’indottrinamento. Ecco allora gli assalti dell’ideologia gender ed LGBT, dell’ecologismo radicale e antiumano, dell’ateismo militante, del democratismo assembleare, del globalismo dei diritti umani che spesso sfociano nella difesa di forme incivili e criminali di umiliazione e/o soppressione della vita umana come droga, aborto ed eutanasia … La scuola statale dovrebbe essere preservata dall’occupazione degli agit-prop di sinistra che confondono la loro professione con quella del commissario politico. Vi sono tanti insegnanti bravissimi che lavorano da soli e senza appoggi remando faticosamente controcorrente rispetto alle imposizioni delle lobbies socialdemocratiche. Costoro dovrebbero essere sostenuti da una Destra dinamica e consapevole, non più culturalmente suddita dell’avversario, capace di elaborazione e di approfondimento, non per sostituire un’egemonia con un’altra, ma per superare il concetto stesso di egemonia: non si tratta più di costruire artificialmente il consenso attorno ad alcune idee che, per essere costruite a tavolino, necessitano di un’opera strategica e talora dissimulata e occulta di persuasione per collocarsi forzatamente nel foro interno degli individui, ma di ritornare alla natura delle cose e all’evidenza della vita, a quella spontaneità umana e vitale che risorge ogniqualvolta lo spirito rompe i ceppi delle sovrastrutture ideologiche e lascia che le cose stesse si offrano alla sua coscienza, in una relazione libera con la tradizione, in uno sguardo limpido e curioso sul mondo e il suo mistero. La scuola paritaria, entrando in un sistema simbiotico e fecondamente competitivo con quella statale può svolgere un ruolo di stimolo e di vivace richiamo al dovere per la scuola tutta di superare la funzione di riproduzione e conferma dell’ideologia dominante, per diventare assalto al cielo di una verità libera e liberante, a partire da una pluralità imprevedibile e fantasiosa di punti di attacco.

Insomma, hanno costruito un mondo che oggi è difficile scardinare?

Vero, ma si tratta di un mondo costruito che spera di esorcizzare il cambiamento attraverso la sua disperata e continua reiterazione, in modo da istituzionalizzare il Divenire e quindi da renderlo inoperante. La scuola delle riforme ricalca tale modello. La sua sempre più scarna e ideologica offerta culturale corrisponde a tale progetto che rimuove anzitutto i fondamenti, la ragione, la ricerca della verità, per concentrarsi sulla costruzione di modelli fungibili e strategie sempre nuove di manipolazione della realtà. Ma proprio perché effetto di un artificio, v’è ragione di ritenere che alla fine la Norma soffocata riprenda il suo spazio e i suoi diritti. Evola parlava spesso di uno stile di vita normale contrapposto alle degenerazioni della modernità. Ti dirò che questo uso del termine “normale” non mi piaceva: mi appariva un po’ reazionario e un pizzico borghese. Ora invece, nel contesto contemporaneo, comprendo appieno la ricchezza della parola “normale”, un termine che bisognerebbe rimettere in circolo.

Del nuovo lessico cosa ne pensa? Lo sa che un giornalista RAI (forse senza sapere che si tratta di un equivoco…) ha scritto: cantantessa?

La questione del linguaggio è estremamente complessa ma al tempo stesso più urgente che mai. Il grande filosofo del linguaggio J. Austin diceva che “si possono fare cose con le parole”: il linguaggio ha una potenza performativa cioè è in grado di cambiare la realtà. In questo sua deferenza per la parola Austin non era lontano dal suo antico predecessore greco, Gorgia da Lentini che, stupito, diceva: “La parola è una gran dominatrice che, anche col più piccolo e invisibile corpo, cose profondamente divine sa compiere”. Per questo i grandi progetti di ingegneria sociale non possono prescindere dal linguaggio e si fondano tutti sulla consapevolezza più o meno esplicita che chi controlla il linguaggio controlla il pensiero e chi controlla il pensiero controlla l’azione. Il tuo esempio si riferisce al femminismo e richiama l’attenzione sulla la moda di femminilizzare artificialmente i termini comuni, anche se magari un modo corretto per esprimersi senza equivoci già esiste. Ebbene il femminismo, nelle sue correnti più radicali è propriamente un esperimento di ingegneria sociale che punta alla costruzione di un matriarcato rivendicativo e vendicativo. Esso si sposa con le ideologie della manipolazione antropologica e con l’antropologia dell’indifferenza e/o della liquidità sessuale. Il grande progetto egualitario della borghesia liberale, transitato nelle mani del proletariato rivoluzionario, passa il testimone alle élites post-moderne, post industriali, post borghesi e post proletarie, che hanno assunto il patchwork come ideale sociale e antropologico, dove la mescolanza e l’indifferenza diventano il trampolino per l’uniformizzazione edonistica e consumistica della convivenza civile.  Tale progetto prevede la cancellazione di tutti i retaggi “oscurantisti” del passato anche tramite una radicale ristrutturazione del linguaggio e la severa selezione di ciò che si può e non si può dire. Ecco allora l’ondata proibizionistica del puritanesimo linguistico: il politicamente corretto. Si tratta di un lasciapassare preventivo per accedere ai piani alti dell’organizzazione sociale, cioè per godere più estesamente (con una differenza quantitativa più che qualitativa) del comfort e dei piaceri offerti dal sistema produttivo. Con tale passaporto l’apparato si tutela dalle ribellioni e dalla possibilità di pensare in modo conflittuale e libero dalle ipoteche dei dogmi che piovono dall’alto. In modo particolare la spada del politicamente corretto condanna preventivamente ogni linguaggio tradizionale, popolare e anche letterario per ricollegarlo a forza con i disvalori del razzismo, del sessismo, dello sfruttamento, della schiavitù, dell’oppressione, dell’ignoranza etc.. La condanna vorrebbe presentarsi come progressiva, ma con la sua aspirazione iconoclasta in realtà mira a rendere sempre più inemendabile questa società, questo modo di vita, questo pensiero, cioè insomma l’orizzonte chiuso e opaco dello status quo. Perciò è necessario individuare il crinale linguistico del conflitto e prendere coscienza che molte innovazioni in questo campo non sono né spontanee, né innocenti. Anche qui al tentativo di costruire a tavolino una neolingua pura e moralmente immacolata, che lasci pensare di vivere in un mondo puro e immacolato, bisogna reagire non con una neolingua di segno contrario, ma con la rivalutazione dell’italiano nella sua originaria bellezza e ricchezza poetica, letteraria, ma anche scientifico-tecnica. L’italiano è una lingua completa che ha parole per tutto e che dice tutto con la sua eccezionale vocazione alla sonorità bella, mitopoietica, creatrice di immagini, forme, armonie e sonorità. Se c’è un vademecum linguistico-politico d’opposizione e di contestazione dei poteri vincenti, oggi questo è semplicemente l’italiano cui semplicemente bisogna tornare per essere ipso facto profondamente eversivi. La bellezza dell’italiano, la sua musica e il suo fascino concettuale e immaginativo, avranno sempre ragione su tutti gli esperanti imposti dall’alto mediante i mezzi coercitivi del potere. Si capisce allora quanto sia rilevante lo studio della nostra lingua e della nostra letteratura (compresa quella latina e greca) a scuola e quale formidabile muro essa opponga al dilagare delle neolingue totalitarie.

Aveva ragione Goebbels (mi scusi la citazione, ma lo disse lui...) che un’idiozia ripetuta mille volte diviene verità?

L’iterazione ossessiva e pubblicitaria di un concetto è certamente uno dei mezzi perché se ne affermi la sua verità sociale. Nondimeno, come avviene con tutti gli agenti patogeni, più si diffondono i suoi effetti, più facile sarà trovare persone naturalmente immuni e in grado di promuovere il contromovimento della guarigione. Anche dall’idiozia (sociale) si può guarire…

In definitiva qual è il ruolo che assegneresti alla scuola paritaria nell’istruzione e perché?

Suor Anna Monia ha elogiato giustamente Paola Frassinetti per il suo lavoro istituzionale in favore delle scuole paritarie, dicendo che persone come lei bisognerebbe trovarne in tutti gli schieramenti politici perché “facciano massa” in vista dell’auspicabile successo in una battaglia politica difficile e irta di difficoltà. Paola, nel suo intervento non ha però parlato come singolo ma ha voluto presentarsi come espressione di qualcosa di più grande di ogni individuo: una comunità di persone che hanno una storia e un pensiero che viene da lontano. Ciò costituisce la garanzia di una continuità di pensiero e di azione che, per gli strumenti concettuali e le energie politiche messe in campo, è destinato ad avere efficacia, forza e durata assai maggiori. Ed è su questo che ho puntato nel mio intervento, sottolineando come il tema delle scuole paritarie coinvolga quello del rapporto Stato-società, cioè la questione centrale di come si relazionano i due polmoni della convivenza civile, secondo alcuni presupposti che ritornano costantemente nella cultura di Destra. Se, infatti, la scuola paritaria proviene dal dinamismo di una società vivace che esprime così la sua vocazione culturale ed educativa, lo Stato si occupa dell’istruzione quale elemento fondamentale del bene comune. Come pilastro del vivere comune è l’interazione tra gli aspetti istituzionali del potere e la forza che viene da una società attiva e dinamica – cosa che rende verità operante l’assioma ciceroniano secondo cui lo Stato è res populi, cosa del popolo – così garanzia dei processi educativi è l’interazione stretta tra le forze sociali che propongono itinerari di crescita ed educazione e lo Stato che garantisce stabilità legislativa, capillarità di intervento e risorse affinché tutte le giovani generazioni ricevano gli strumenti culturali per partecipare come soggetti consapevoli alla vita della comunità, quella comunità spirituale essenziale al fiorire della vita individuale che noi chiamiamo nazione o patria. Quindi nella convivenza civile come nella scuola,

1) la società ha funzione di stimolo e di attivazione dinamica di energie: è il sangue che scorre nelle vene del corpo politico e gli fornisce continuo nutrimento;

2) lo Stato è l’ossatura forte, stabile, che dà sostegno, durata e destino alla vita sociale.

Nessuno di questi elementi può mancare. La scuola paritaria deve pertanto essere valorizzata per l’indispensabile apporto di pluralismo culturale, flessibilità, innovazione, a fronte dell’indispensabile funzione sussidiaria dello Stato che consente la concreta e universale fruizione del bene dell’istruzione alla totalità dei cittadini. Come si vede, vi è una certa Weltanschauung alla base della posizione che abbiamo assunto sulla scuola paritaria, che affonda le radici nel pensiero moderno attento alla dimensione dell’ordine istituzionale e pur chiamato ad affermare la libertà come chiave fondamentale di interpretazione del mondo e dell’uomo… temi di cui la nostra comunità politica discute da tempo e con grande sensibilità. A tutto ciò si deve associare l’enfasi particolare che noi mettiamo sull’inestimabile valore aggiunto della scuola paritaria cattolica, che ricorda costantemente a tutta la società e richiama tutte le istituzioni alle profonde, inaggirabili e indispensabili radici cristiane della nostra civiltà e dei giganti sulle spalle dei quali noi contemporanei ci appoggiamo per vedere più avanti. Noi disponiamo di un pensiero che riconosce tutti questi fattori. Per questo ho detto che le nostre idee vengono da lontano e ciò garantisce la nostra posizione oltre ogni e qualsivoglia forma, anche virtuosa, di lobbing, oltre ogni e qualsivoglia interesse o rendita politica contingente e passeggera.

(di Pierluigi Arcidiacono, "Destra.it"  11 Settembre 2021)

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