martedì 5 agosto 2025

Il sex appeal dell'indistinto. Un romanzo di J .J. Saer



Juan José Saer, Il testimone, La Nuova Frontiera, Roma 2023, pp.186, E. 16,90

 Un quindicenne, imbarcato in una nave spagnola come mozzo, approda al Nuovo Mondo. Arrivato alla foce di un fiume, sbarca insieme ad alcuni compagni, mentre il resto dell’equipaggio si mantiene prudentemente all’ancora, e viene attaccato da una tribù di cannibali. Le frecce avvelenate degli indios sterminano rapidamente il gruppetto, ma lui misteriosamente viene mantenuto in vita. Diventa ospite fisso del villaggio e piano piano giunge a capire lo stile di vita degli indigeni, non senza assistere al rito cannibalico, che scopre avere cadenza annuale, dapprima con i suoi compagni di viaggio, poi, nel prosieguo della sua permanenza con diversi soggetti, appartenenti alle tribù confinanti. Esso coincide sempre con il pasto di carne umana arrostita, seguito da un abbondante libagione di distillato alcolico e poi dallo scatenamento degli istinti sessuali, con accoppiamenti singoli e di gruppo, segnati da violenza distruttiva ed autodistruttiva, che sovente portano i protagonisti a subire conseguenze fisiche permanenti oppure a morire. Dopo tale evento, fatto di ingordigia alimentare e sessuale, di ubriachezza e di sfrenatezza, la tribù torna a una quotidianità seria, monotona, fatta di compiti da svolgere e di attività lavorative di ogni tipo, portate a termine con attenzione e acribia particolare … L’ospite europeo si trattiene per un decennio come  osservato e, al tempo stesso, osservatore, imparando poco a poco lingua, usanze e soprattutto, diremmo, la spirito e il carattere collettivo della strana società presso la quale si trova a vivere. Tutto ciò fino al momento viene rispedito su una canoa verso una nave spagnola che nuovamente si affaccia alla foce del fiume. Tornato in patria, l’esperienza segnerà il resto della vita del giovane, che farà una discreta fortuna e potrà incontrare persone che lo istruiranno e gli permetteranno di adornare i suoi ricordi con una coscienza e una riflessione sempre più matura. La sua vicenda sudamericana lo seguirà con dolcezza ossessiva e disincantata: in vecchiaia deciderà di metterla per iscritto, maturando la sua interpretazione della filosofia implicita e di una ipotetica costellazione dei significati della vita degli indios. Così il Nostro giunge alla conclusione che essi concepiscono il mondo come una precarietà incombente, che solo il lavoro umano può puntellare, così come reciprocamente solo il mondo può sostenere la precarietà della vita umana. Pertanto vivere non può significare che sostenere, riparare, ristrutturare l’ambiente circostante, destinato altrimenti a un’irrimediabile entropia. Il disordine di un divenire oscuro e senza senso minaccia costantemente. Dunque bisogna lavorare con la massima serietà, sia al proprio sostentamento sia al mantenimento delle cose, degli utensili, dele capanne, e di tutto quanto l’umano ingegno avesse per un attimo strappato alla natura. Il lavoro diviene un compito diffuso in una comunità che vi si dedica in modo consapevole ed egualitario, seguendo procedure consolidate per prendere le poche decisioni necessarie a organizzare la vita quotidiana, in un contesto dove non si determina alcuna gerarchia sociale. Nessuna particolare credenza religiosa segna la vita della tribù, se non un’ossessione del permanere, un culto dell’essere di fronte al divenire, di cui il protagonista ospite, deve diventare testimone privilegiato. Perciò ognuno vuole consegnare alla sua memoria un tratto di sé, una evidenza, un che di incrollabile, benché a volte banalissimo, che riassuma nella memoria del testimone stesso il proprio essere o essere stato in un mondo altrimenti destinato alla consunzione nell’indistinto, nell’irrazionale scorrere di tutto verso la notte, diremmo con Hegel,  in cui tutte le vacche sono nere. Come se gli sforzi prolungati per mantenere in ordine le cose avessero bisogno di essere raccontati e attestati da qualcuno, per non scomparire nella corrente del fiume. Che tale forza della notte incomba , peraltro, con il suo tragico portato nichilistico, tanto da bussare con insistenza alle porte della vita, fatta altrimenti di seria, costante e monotona dedizione al proprio compito, lo conferma il rito annuale e l’annuale scatenamento delle forze infere del piacere incontrollato, e dell’istinto naturale-bestiale fino a quel momento tenute a freno con grande profusione di energie sublimatrici. Il testimone non può far altro che assistere, assolvendo al suo compito di spettatore ricettacolo, anch’egli provvisorio ed effimero, dell’essere, mentre la tribù finalmente sconfitta dal divenire torna nella routine a vivere la sua diuturna e impari lotta.

Noi partecipiamo del viaggio, noi viviamo questo mistero tremendo di un non senso fondamentale che aleggia sulla vita degli indios e sulla nostra, fidando solo nel racconto che fissa più i dubbi e le domande che non l’essere agognato e perduto della tribù. Un racconto di cui l’autore Juan José Saer ci rende partecipi, forse sovrapponendo alla vita dei protagonisti, la vita contemporanea, e al loro mondo la direzione entropica e nichilistica del nostro, fatto di cannibalismo simbolici e di sfrenatezza dei sensi, cui si contrappone la serietà irresistibile del sistema del lavoro e della produzione. Solo che noi non abbiamo un testimone cui consegnare la nostra vita, dandoci l’illusione di qualcosa che possa sfuggire al mortifero sex appeal dell’indistinto che il nostro ordine civile, così come quello degli indios immaginati da Saer, è alla fine incapace di contenere, rappresentando il lato oscuro di una dialettica di luce-oscurità senza sbocchi, senza fine e senza direzione.

1 commento:

  1. Si capisce bene il potere dell'orgiastico in una società priva di trascendenza! Grazie

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