lunedì 10 febbraio 2020

Memoria e negazione. Tra il 27 gennaio e il 10 febbraio


Tra gennaio e febbraio vi sono le date del ricordo: una internazionale, quella sull’Olocausto ebraico (il 27/1), e una nazionale, quella sulle Foibe (il 10/2). Non perdo mai occasione di segnalare come le i giorni della cosiddetta memoria non aiutino a costruire una comunità coesa e tendano a rinfocolare ostilità e contrapposizioni. Infatti ricordare significa anche, e per alcuni soprattutto, avviare una ricerca spasmodica e disperata di nemici assoluti da combattere e di fortezze del male da abbattere, impedendo alla pacata ricostruzione storica di comprendere appieno e metabolizzare la realtà, quand’anche lacerante e fonte di infinite afflizioni … senza tener conto del risveglio di fanatismi psicopatologici, altrimenti latenti, cui i notiziari, in modo talora scopertamente interessato, danno risalto. La sovraesposizione pubblica delle sofferenze comporta di necessità il fatto, altrettanto doloroso, che alcune minoranze invece che rispetto e comprensione, esprimano disprezzo, malevolenza e addirittura scherno blasfemo.
La mia idea è che la memoria, sempre attenta a non sostituire la storia, dovrebbe essere libera e non statalizzata, per mantenere la sua autenticità e il suo valore spirituale. La sua trasformazione in momento di coinvolgimento politico-istituzionale cala inevitabilmente le vicende, oggetto di tanta grave e angosciosa sofferenza, nella dialettica amico-nemico, nel pluralismo delle opinioni e delle interpretazioni e infine nella volgarità della chiacchiera e, quel che è peggio, della strumentalizzazione politica. Credo che sia questo il motivo che ha ispirato un figlio di sopravvissuti ad Auschwitz come Norman Finkelstein a scrivere L'industria dell'Olocausto: Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, (tr, it. Rizzoli, Milano, 2004), un libro che denuncia per l’appunto una forma insopportabile di sfruttamento mediatico-politico dello sterminio degli ebrei.
È stato quindi un errore, a mio parere, aggiungere data a data con il giorno dedicato alle Foibe, dopo quello riguardante la Shoah, non perché le Foibe e i suoi martiri non meritino di essere ricordati e gli assassini denunciati, dopo anni di colpevolissimo silenzio, ma perché ancora una volta si ha l’impressione che ci sia un ricordo di sinistra e uno di destra, uno che contrasta il  nazismo (con l’aggiunta del fascismo in quell’odiosa e falsa categoria di nazifascismo), l’altro il comunismo dei partigiani titini. E così ogni settore dell’arco politico ha il suo momento di legittimazione nel dolore degli altri. Ripeto, entrando nel cuore del tema che mi ero riproposto di affrontare: non si tratta di negare nessuna delle due tremende realtà, né di togliere a nessuno l’opportunità di riflettere seriamente sui buchi neri della nostra storia … il problema è l’esito pubblico, l’eterogenesi dei fini cui vanno incontro le celebrazioni, da un lato con lo scatenamento degli istinti in minoranze di psicopatici in cerca di sfogo per le loro frustrazioni, dall’altro con il processo di identificazione degli aguzzini e delle vittime in soggetti del presente e con il tentativo di far valere socialmente e politicamente l’enorme rendita che oggi garantisce la possibilità di essere collocati nel novero delle vittime. Tutto ciò sinceramente disgusta.
 Poi vi è anche chi nega. La prima osservazione che viene in mente è la disparità di trattamento: i negazionisti del 27 gennaio, o i sospetti, o anche i semplici accusati, rischiano il posto di lavoro, la galera e tutta una serie di gravi ritorsioni sociali; quelli del 10 febbraio vengono ospitati nelle sale di Montecitorio per dire la loro. A prescindere dall’opinione che si ha sulla celebrazione pubblica della memoria, tale disparità di trattamento parimenti disgusta, anche solo per il pensiero che soggiace a una simile contraddizione: qualche morto va rispettato e qualche altro può essere allegramente e ufficialmente insultato.
A ciò si ricollega, appunto, la questione del “negazionismo”. Chi è negazionista? Chi, interpretando la storia di determinati eventi, nega la loro gravità sia in termini quantitativi (numero delle vittime) sia in termini qualitativi (futilità e/o amoralità della motivazione, crudeltà, sistematicità, volontarietà di una prassi persecutoria).  Ci sono poi livelli diversi di negazionismo. Il più grave, ma anche il meno preoccupante dal punto di vista sociale, è quello grossolanamente politico, che è tipico di esigue minoranze realmente razziste, classiste, aggressive, risentite, violente, il cui atteggiamento va ricondotto a certe forme di paranoia che albergano negli individui marginali, soggetti a rischio che trovano in questa o quella ideologia il pretesto per alimentare e canalizzare le proprie pulsioni di morte. Tali individui vanno mantenuti sotto stretta osservazione affinché se ne prevengano i reati e vengano puniti qualora li commettano. Ovviamente uno Stato di diritto non può condannare per reati di opinione, ma solo per dirette istigazioni a delinquere e per il concreto tentativo di tradurre in azioni le ideazioni criminali. Su ciò purtroppo né l’attuale legislatore, né il mondo giudiziario sembrano avere le carte in regola sotto il profilo della chiarezza concettuale.
Vi è poi un’ulteriore forma di negazionismo che si esprime attraverso canali culturali, che attira storici, filosofi, politici con una qualche preparazione. Qui si rilevano le suddette enormi e insopportabili disparità. Per un verso siamo abbondantemente oltre i limiti del reato d’opinione: siamo arrivati alla legge dei sospetti. La negazione dell’Olocausto ha visto innanzitutto ampliare la sua sfera semantica: anche affermare gradi diversi di estensione, amoralità della motivazione, crudeltà, sistematicità e volontarietà della Shoah è diventato negare tout court la Shoah. C’è insomma una verità pubblica e ufficiale, rigidamente delimitata, che non tollera nessuna forma di revisione, di cui è richiesta la sottoscrizione in toto e sine glossa per essere ammessi nel consesso pubblico. I rigori della legge si sono abbattuti sui colpevoli con enorme severità, soprattutto in Francia e in Germania, laddove non ci si astiene dall’incarcerare vecchiette novantenni o addirittura gli avvocati degli accusati di aver pronunciato o scritto frasi o concetti negazionisti. L’isterismo della caccia al nazista o al para-nazista o al cripto-nazista colpisce inesorabilmente persone che mai potrebbero essere sospettate di simpatie razziste (si pensi all’intellettuale marxista Roger Garaudy o addirittura nella medesima occasione, all’Abbé Pierre, frate francescano, membro delle resistenza antitedesca, politicamente vicino alla sinistra e noto promotore di opere di carità) … senza tener conto dell’atteggiamento a dir poco indulgente nei confronti delle numerose aggressioni che alcuni pubblici sostenitori di teorie universalmente considerate negazioniste (per esempio Roberto Faurisson) hanno subito al di fuori da ogni legalità e giustizia. Sembra non esservi limite al dovere di eseguire il compito di difendere la memoria dell’Olocausto nel modo più meticoloso, capillare fino talvolta a sconfinare nel fanatismo.
Ma moltissimi limiti vi sono nel caso delle Foibe. Nessun diritto alla libera espressione delle opinioni sembra qui essere stato conculcato, anzi pare che in nome di tale diritto sia stato anche possibile trascendere nel vero e proprio insulto, sempre ovviamente legittimato ideologicamente dalla finalità umanitaria della parte politica dal quale l’insulto proveniva ... la “giusta” appartenenza alla sinistra, anche estrema, ma sempre benpensante e ortodossa, sembra metta al riparo dalla possibilità di essere considerati negazionisti: un concetto che a suo riguardo copre un numero infimo di fattispecie fin quasi a risultare inapplicabile.  
Detto ciò, risulta interessante, di là dalle qualità e dalla tipologia di negazionismo, la ragione per la quale è ipotizzabile si diventi negazionisti. La radice del negazionismo non può che essere l’orrore. Senza andare troppo nel tecnico si può dire che sotto il profilo psicologico la negazione sia “un’operazione mentale che avviene per lo più in modo inconsapevole, la cui funzione è di proteggere l’individuo dal provare eccessiva ansia. Secondo la teoria psicoanalitica classica, tale ansia si manifesterebbe nel caso in cui l’individuo diventasse conscio di pensieri, impulsi o desideri inaccettabili. In una moderna concezione delle difese, una funzione ulteriore è la protezione del Sé – dell’autostima e, in casi estremi, dell’integrazione del Sé” (Cramer, 1998, in http://www00.unibg.it/dati/corsi/40018/69947-Meccanismi%20di%20difesa.pdf). Nei processi di negazione accade quindi che “l’individuo affronta conflitti emotivi e le fonti di stress interne o esterne rifiutando di conoscere qualche aspetto della realtà esterna o della propria esperienza che per gli altri è evidente” (ibidem) al fine di proteggere se stessi e la propria identità. Ebbene che cosa può generare una simile reazione se non l’orrore vicino, tanto vicino da essere percepito come proprio.
È del tutto plausibile che un militante nazionalsocialista, estraneo ai fatti, all’udire la notizia dello sterminio degli ebrei e delle modalità in cui è avvenuto, ne abbia sentito dopo la guerra l’insopportabile peso. Di fronte alla chiamata morale in correo, per cui anche chi non ha mai pensato di commettere crimini orrendi si è sentito coinvolto, per aver in qualche modo apprezzato o collaborato con il regime (cioè la maggior parte dei tedeschi durante gli anni Trenta), non sorprende affatto che colui che vede la propria identità irrimediabilmente minacciata dalla colpa reagisca o cercando una nuova identità e rimuovendo in modo rapido (e talora altrettanto patologico) la precedente, o arroccandosi nella negazione. Quest’ultima appare pertanto non la testimonianza di una totale assenza di senso morale, bensì della sua attiva presenza. È la percezione dell’amoralità di un evento che ci coinvolge, tanto da apparire anche nostro, che genera la sua negazione onnipotente. Essa poi, scaturita dalle profondità della psiche, prende le forme consapevoli di un apparato culturale che arriva a forme ridicole, se non fosse per la tragicità dell’argomento, di rimasticazione storica, tali, per esempio, da attribuire al tifo la causa delle centinaia di migliaia di morti dei campi di concentramento (come se l’aver rinchiuso centinaia di migliaia di innocenti, non già per gasarli, ma per lasciarli morire di tifo fosse qualcosa di lontanamente accettabile!).
Allo stesso modo la negazione agisce sulle coscienze candide di coloro per i quali il comunismo avrebbe dovuto essere il regno della giustizia e della “futura umanità”. Come è possibile, dice il superIo partigiano che la lotta per la libertà abbia prodotto il massacro di Katyn o le Foibe? Due sono i casi: la straordinaria malvagità delle vittime (fascisti, nazisti, canaglie, assassini di civili inermi, oppressori di popoli, affamatori, schiavisti, stupratori, negrieri etc.): cioè deve essere stato un caso di necessaria autodifesa…e non è raro che questo tema si affacci alla letteratura militante; oppure il fatto non deve sussistere e in realtà tutti i massacri rossi devono essere stati fenomeni residuali ed episodici, ingigantiti ad arte dai nemici del progresso. Di qui tutta la paccottiglia pseudo storica, i convegni, i raduni dell’Anpi e tutte le porcherie che ruotano attorno a queste tesi.
Ripeto, sembrerà difficile ammetterlo, ma tutto ciò, ovunque tali fenomeni si manifestino, è effetto di un certo senso morale, di una certa persistente e non deprecabile ripulsa nei riguardi dell’orrore … naturalmente in soggetti dall’indole non pienamente integrata e non sufficientemente forte da operare alcuni distinguo e da gestire alcuni concetti. Tra questi vi è quello della personalità della responsabilità, per la quale le colpe dei padri o degli amici non possono ricadere sui figli e sugli amici; la differenza di grado tra l’opinare e il fare, per cui apprezzare Tizio, o anche militare nello stesso partito di Tizio, non significa apprezzare e dover accettare tutto quello che fa Tizio, o addirittura doverne portare la responsabilità; la consapevolezza della follia dell’affermazione right or wrong, my country! (o my party); l’idea che un’appartenenza identitaria può essere critica e che tutto o niente, in psicologia come in politica e nella vita, è un forma di isterismo; la coscienza che le appartenenze, non essendo mai assolutamente innocenti e candide, né assolutamente malvagie e diaboliche, di per sé non salvano: nessuno è mai buono perché è democratico, socialista, comunista o fascista; né di per sé condannano: nessuno è mai cattivo per le stesse ragioni.
Queste ed altre questioni, una volta messe sul tappeto aiuterebbero ad andare oltre il negazionismo, evitando di frapporre la spessa coltre dell’ideologia e dei meccanismi di difesa tra sé e il mondo di coloro che hanno subito ogni vessazione dai propri simili, compagni, camerati, cittadini che dir si voglia. Di là da esso c’è quel rispetto profondo per i morti, quella sacralità della vita che ingiunge di fronte alle loro tombe di sollevare le difese, di alzare le mani e dire: “Qui mi fermo”… perché la sacralità di quelle vite e di quelle morti solo trova degno un comportamento: silenzio e preghiera!

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