domenica 8 marzo 2020

Coronavirus: cure per tutti e nessun sacrificio umano!



Eccolo qui il documento della “Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva”. Una dichiarazione dai toni ipocriti, quegli stessi ai quali ci ha abituati certa pseudo-scienza medica quando parla di “interruzione volontaria di gravidanza” per l’aborto, o delle tematiche di “fine vita” quando si tratta di permettere l’omicidio del consenziente. Ipocrita nella fattispecie perché,  parlando a proposito dell’infezione da coronavirus di “massima parità di accesso alle cure”, di “tutele del paziente”, di “riduzione dell’ansia e dello stress e dell’incertezza che genera angoscia”, fornisce un criterio molto preciso, crudele e soprattutto arbitrario di selezione dei pazienti cui destinare le cure in regime di estrema scarsità di risorse. Il criterio consiste in una valutazione clinica relativa alla prognosi, sia per quanto riguarda la sopravvivenza, sia per quanto riguarda la restituzione all’integrità fisiologica del paziente. Le risorse vanno riservate, secondo il documento,  a chi ha più possibilità di sopravvivenza e a chi può avere più anni da vivere dopo il superamento della fase acuta della patologia. Tale criterio a sua volta garantirebbe il rispetto di quello più generale del “maggior beneficio per il maggior numero”.
 Perché l’accusa di arbitrarietà e crudeltà?  Perché in realtà si dovrebbe dire che il principio  in questione è formalmente chiaro ma tutt’altro che preciso: la prognosi è infatti fondata su una modalità probabilistica di ragionamento, che trasferisce al futuro esperienze passate in base ad una generalizzazione di casi precedenti, formulando una previsione sul possibile decorso della malattia. Insomma la prognosi possiede l’insicurezza tipica di ogni affermazione relativa al futuro. È importantissimo pronosticare, nessuno lo nega, ma se da un pronostico dipende una discriminazione che riguarda le stesse possibilità di cura e sopravvivenza di un paziente, tale insicurezza non è più sopportabile. Infatti dentro la variabilità delle previsioni si può infiltrare il virus letale dell’arbitrarietà. Quanto più la prognosi dipende da fattori il cui sviluppo è incerto e quanto più essa si avventura in previsioni che si allontanano dal presente (è il caso degli anni che un soggetto avrebbe da vivere dopo la remissione dei sintomi), tanto più l’elemento soggettivo di colui che elabora la valutazione assume rilevanza. Il risultato è che il medico che anticipa un possibile sviluppo futuro non diventa colui che diagnostica una malattia e somministra una terapia, cercando di migliorare il quadro prognostico, ma un decisore su chi è degno o no di essere curato. Così in ultima istanza una prognosi infausta non dipenderebbe più dal decorso della malattia ma dalla sua decisione di non somministrare tutte le cure disponibili. Una prognosi  diventerebbe una disperata profezia che si auto avvera. E questo è crudeltà.
Tutto ciò  è  la diretta conseguenza dell’orientamento di massima che la Società degli anestesisti ha già esplicitato, corrispondente al suaccennato “maggior beneficio per il maggior numero”. Qui il problema è, tra l’altro, quello di coloro che rientrano nel maggior numero, che possono anche essere un’esigua minoranza di privilegiati, a seconda dei parametri che si utilizzano per esaminare le condizioni dei pazienti e della loro maggiore o minore ristrettezza. E il maggior beneficio non è detto che sia tale, stante le incertezze connesse alle scarse conoscenze sulla malattia e sull’efficacia delle terapie. Ora, di fronte a simili difficoltà e alla finale inconsistenza dei riferimenti logici ed etici, le indicazioni degli anestesisti finiscono col promuovere un’odiosa discriminazione, tanto più odiosa quanto più riferita a persone anziane che rappresentano di per sé dei soggetti deboli nella società.
 Una società  dovrebbe vigilare affinché nessuno, in nessuna posizione di potere, possa decidere della vita o della morte di qualcun altro. A nessuno deve poter competere lo “jus gladii”, il potere di vita o di morte, oggi nella sua versione post-moderna e medicale. Nemmeno lo può fare in vista del “maggior beneficio per il maggior numero”, concetto che è tipicamente  sacrificale, perché implica infine che al minor numero possa essere riservato la peggiore condanna, cioè la morte. C’è un’analogia troppo evidente tra i processi di sacrificio di un capro espiatorio dove si concentra e scarica l’angoscia del gruppo, collocato in un contesto sacrale che gli illuminati e illuministi di oggi definirebbero “superstizioso e oscurantista”,  e la superstizione per cui una selezione dei soggetti più adatti a sopravvivere, con il corrispettivo sacrificio degli altri, costituirebbe il criterio ottimale per la gestione sociale della crisi, garantendo il bene del “maggior numero”. Come ammesso, neanche tra le righe, dalla Società degli anestesisti, la prassi suggerita da loro pure  solleva dallo stress, dall’incertezza e dall’angoscia, esattamente come fanno i sacrifici e soprattutto quelli umani. Ma questa soluzione “ancestrale” e “archetipica” risulta compatibile con i moderni diritti del malato non solo a cure di “alta qualità”, come recita la relativa carta europea, a dir la verità un po’ reticente su questo tema, ma alle migliori cure disponibili, che non possono essere riservate ad altri sulla base di considerazioni opinabili?  
La scelta però non è tra superstizione e modernità, visto che la superstizione  utilitarista è in realtà molto moderna, e riproduce stilemi sacrificali che già nell’antichità premoderna sono stati radicalmente contestati. In particolare  è la storia dell’occidente cristiano che, a partire dall’ altro grande archetipo, quello abramitico che trova la sua definitiva consacrazione nel paradigma della crocifissione del Cristo, ha rifiutato il sacrificio umano. Nessuno consideri il prossimo come uno strumento di purificazione sociale … e ancor più radicalmente: nessuno consideri il prossimo uno strumento. Questa è in soldoni la nostra storia e il senso ultimo di ciò che abbiamo imparato a chiamare civiltà. Se allora vogliamo rimanere quello che siamo e non cedere alla tentazione di perdere noi stessi e di morire spiritualmente, oltre che fisicamente, dobbiamo prendere provvedimenti adeguati che si aggiungano a quelli di prudenza epidemiologica e di urgenza terapeutica. È cioè improcrastinabile definire paletti, affinché nessuno, in questa emergenza sanitaria, si appropri di prerogative che non gli spettano, e affinché l’impegno, che deve essere finalizzato a reperire tutto il necessario ad affrontare  la patologia virale in questione, non riceva il sedativo mortale dell’escamotage di far bastare i mezzi attualmente a disposizione, diminuendo la platea di chi può usufruirne. Bisogna rischiare, non prendere le vie facili, sia dal punto di vista dei criteri di comportamento comuni, sia dal punto di vista della loro traduzione in prassi individuali. Allora certo si vieti a chiunque di decidere  chi curare – una decisione che non spetta agli uomini, ma alla forza delle cose: se ci sono risorse, le si spendano per tutti fino al loro esaurimento, che sarà altrettanto per tutti, fino ad un nuovo reperimento di mezzi, e così via – ma ciascun operatore attivi la forza della sua scienza e della sua coscienza  per rifiutare di compiere azioni che gli attribuirebbero l’insostenibile responsabilità e l’indelebile macchia della morte anche di un solo uomo, suo prossimo, suo fratello.

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