Eccolo qui il documento della
“Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva”.
Una dichiarazione dai toni ipocriti, quegli stessi ai quali ci ha abituati certa
pseudo-scienza medica quando parla di “interruzione volontaria di gravidanza”
per l’aborto, o delle tematiche di “fine vita” quando si tratta di permettere
l’omicidio del consenziente. Ipocrita nella fattispecie perché, parlando a proposito dell’infezione da
coronavirus di “massima parità di accesso alle cure”, di “tutele del paziente”,
di “riduzione dell’ansia e dello stress e dell’incertezza che genera angoscia”,
fornisce un criterio molto preciso, crudele e soprattutto arbitrario di
selezione dei pazienti cui destinare le cure in regime di estrema scarsità di
risorse. Il criterio consiste in una valutazione clinica relativa alla prognosi, sia per quanto riguarda la
sopravvivenza, sia per quanto riguarda la restituzione all’integrità
fisiologica del paziente. Le risorse vanno riservate, secondo il documento, a chi ha più possibilità di sopravvivenza e a
chi può avere più anni da vivere dopo il superamento della fase acuta della
patologia. Tale criterio a sua volta garantirebbe il rispetto di quello più generale
del “maggior beneficio per il maggior numero”.
Perché l’accusa di arbitrarietà e crudeltà? Perché in realtà si dovrebbe dire che il principio
in questione è formalmente chiaro ma
tutt’altro che preciso: la prognosi è infatti fondata su una modalità probabilistica
di ragionamento, che trasferisce al futuro esperienze passate in base ad una
generalizzazione di casi precedenti, formulando una previsione sul possibile
decorso della malattia. Insomma la prognosi possiede l’insicurezza tipica di
ogni affermazione relativa al futuro. È importantissimo pronosticare, nessuno
lo nega, ma se da un pronostico dipende una discriminazione che riguarda le
stesse possibilità di cura e sopravvivenza di un paziente, tale insicurezza non
è più sopportabile. Infatti dentro la variabilità delle previsioni si può
infiltrare il virus letale dell’arbitrarietà. Quanto più la prognosi dipende da
fattori il cui sviluppo è incerto e quanto più essa si avventura in previsioni
che si allontanano dal presente (è il caso degli anni che un soggetto avrebbe
da vivere dopo la remissione dei sintomi), tanto più l’elemento soggettivo di
colui che elabora la valutazione assume rilevanza. Il risultato è che il medico
che anticipa un possibile sviluppo futuro non diventa colui che diagnostica una
malattia e somministra una terapia, cercando di migliorare il quadro
prognostico, ma un decisore su chi è degno o no di essere curato. Così in
ultima istanza una prognosi infausta non dipenderebbe più dal decorso della
malattia ma dalla sua decisione di non somministrare tutte le cure disponibili.
Una prognosi diventerebbe una disperata
profezia che si auto avvera. E questo è crudeltà.
Tutto ciò è la
diretta conseguenza dell’orientamento di massima che la Società degli
anestesisti ha già esplicitato, corrispondente al suaccennato “maggior
beneficio per il maggior numero”. Qui il problema è, tra l’altro, quello di
coloro che rientrano nel maggior numero, che possono anche essere un’esigua
minoranza di privilegiati, a seconda dei parametri che si utilizzano per
esaminare le condizioni dei pazienti e della loro maggiore o minore
ristrettezza. E il maggior beneficio non è detto che sia tale, stante le incertezze
connesse alle scarse conoscenze sulla malattia e sull’efficacia delle terapie.
Ora, di fronte a simili difficoltà e alla finale inconsistenza dei riferimenti
logici ed etici, le indicazioni degli anestesisti finiscono col promuovere
un’odiosa discriminazione, tanto più odiosa quanto più riferita a persone
anziane che rappresentano di per sé dei soggetti deboli nella società.
Una società dovrebbe vigilare affinché nessuno, in nessuna
posizione di potere, possa decidere della vita o della morte di qualcun altro.
A nessuno deve poter competere lo “jus gladii”, il potere di vita o di morte,
oggi nella sua versione post-moderna e medicale. Nemmeno lo può fare in vista
del “maggior beneficio per il maggior numero”, concetto che è tipicamente sacrificale, perché implica infine che al
minor numero possa essere riservato la peggiore condanna, cioè la morte. C’è un’analogia
troppo evidente tra i processi di sacrificio di un capro espiatorio dove si
concentra e scarica l’angoscia del gruppo, collocato in un contesto sacrale che
gli illuminati e illuministi di oggi definirebbero “superstizioso e
oscurantista”, e la superstizione per
cui una selezione dei soggetti più adatti a sopravvivere, con il corrispettivo sacrificio
degli altri, costituirebbe il criterio ottimale per la gestione sociale della
crisi, garantendo il bene del “maggior numero”. Come ammesso, neanche tra le
righe, dalla Società degli anestesisti, la prassi suggerita da loro pure solleva dallo stress, dall’incertezza e dall’angoscia,
esattamente come fanno i sacrifici e soprattutto quelli umani. Ma questa
soluzione “ancestrale” e “archetipica” risulta compatibile con i moderni
diritti del malato non solo a cure di “alta qualità”, come recita la relativa
carta europea, a dir la verità un po’ reticente su questo tema, ma alle
migliori cure disponibili, che non possono essere riservate ad altri sulla base di considerazioni
opinabili?
La scelta però non è tra
superstizione e modernità, visto che la superstizione utilitarista è in realtà molto moderna, e riproduce stilemi sacrificali che già nell’antichità premoderna sono stati
radicalmente contestati. In particolare è
la storia dell’occidente cristiano che, a partire dall’ altro grande archetipo,
quello abramitico che trova la sua definitiva consacrazione nel paradigma della
crocifissione del Cristo, ha rifiutato il sacrificio umano. Nessuno consideri
il prossimo come uno strumento di purificazione sociale … e ancor più radicalmente:
nessuno consideri il prossimo uno strumento. Questa è in soldoni la nostra
storia e il senso ultimo di ciò che abbiamo imparato a chiamare civiltà. Se
allora vogliamo rimanere quello che siamo e non cedere alla tentazione di
perdere noi stessi e di morire spiritualmente, oltre che fisicamente, dobbiamo
prendere provvedimenti adeguati che si aggiungano a quelli di prudenza
epidemiologica e di urgenza terapeutica. È cioè improcrastinabile definire
paletti, affinché nessuno, in questa emergenza sanitaria, si appropri di
prerogative che non gli spettano, e affinché l’impegno, che deve essere
finalizzato a reperire tutto il necessario ad affrontare la patologia virale in questione, non riceva
il sedativo mortale dell’escamotage
di far bastare i mezzi attualmente a disposizione, diminuendo la platea di chi
può usufruirne. Bisogna rischiare, non prendere le vie facili, sia dal punto di
vista dei criteri di comportamento comuni, sia dal punto di vista della loro
traduzione in prassi individuali. Allora certo si vieti a chiunque di
decidere chi curare – una decisione che
non spetta agli uomini, ma alla forza delle cose: se ci sono risorse, le si
spendano per tutti fino al loro esaurimento, che sarà altrettanto per tutti,
fino ad un nuovo reperimento di mezzi, e così via – ma ciascun operatore attivi
la forza della sua scienza e della sua coscienza per rifiutare di compiere azioni che gli attribuirebbero
l’insostenibile responsabilità e l’indelebile macchia della morte anche di un
solo uomo, suo prossimo, suo fratello.
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