“Era mio padre… Quelli che,
per qualcuno, sono ‘muoiono solo i vecchi'”: le commoventi parole di Gabriele
Corsi
La toccante riflessione scritta dal nostro Gabriele
sulle vittime dell'epidemia.
Era mio padre.
Quello della foto un po’ sfocata nei necrologi di ieri.
Era mio padre.
Lo ricordo con una barba nera nera che mi insegnava a dare calci a un pallone nel parco sotto casa.
Era mia madre.
Quella signora elegante morta da sola in ospedale perché non si poteva entrare.
Il dolore più grande. Lei. Da sola.
Era mia madre.
Che mi faceva posto nel letto grande quando avevo la febbre e mi sembrava, sempre, l’unica cura possibile.
Era mio zio.
Quel signore con gli occhiali che se n’è andato tra i tanti ieri.
Era mio zio.
Lo stesso che mi portava a giocare con i modellini di aerei e mi faceva volare restando con i piedi a terra.
Era mia zia.
La signora senza foto. Solo data di nascita e di morte.
Era mia zia.
Perché non possiamo neanche andare a casa sua a cercare una polaroid che la ritragga. Lei che a Natale mi ha regalato la prima macchina fotografica.
Erano mio padre.
Erano mia madre.
Erano i miei zii, i miei vicini, i genitori, i parenti dei miei amici.
Quelli che, adesso, non possiamo piangere.
Quelli che, adesso, non possiamo abbracciarci per lenire il dolore. Quelli che tu non sai chi sono.
Ma io sì.
Quelli che, per qualcuno, sono “muoiono solo i vecchi”, “sì, ma erano già malati”, “ne muoiono molti di più per altre cause”.
E, se sei tra quelli, vuol dire che questo, tutto questo, non ti ha davvero insegnato niente.
Quello della foto un po’ sfocata nei necrologi di ieri.
Era mio padre.
Lo ricordo con una barba nera nera che mi insegnava a dare calci a un pallone nel parco sotto casa.
Era mia madre.
Quella signora elegante morta da sola in ospedale perché non si poteva entrare.
Il dolore più grande. Lei. Da sola.
Era mia madre.
Che mi faceva posto nel letto grande quando avevo la febbre e mi sembrava, sempre, l’unica cura possibile.
Era mio zio.
Quel signore con gli occhiali che se n’è andato tra i tanti ieri.
Era mio zio.
Lo stesso che mi portava a giocare con i modellini di aerei e mi faceva volare restando con i piedi a terra.
Era mia zia.
La signora senza foto. Solo data di nascita e di morte.
Era mia zia.
Perché non possiamo neanche andare a casa sua a cercare una polaroid che la ritragga. Lei che a Natale mi ha regalato la prima macchina fotografica.
Erano mio padre.
Erano mia madre.
Erano i miei zii, i miei vicini, i genitori, i parenti dei miei amici.
Quelli che, adesso, non possiamo piangere.
Quelli che, adesso, non possiamo abbracciarci per lenire il dolore. Quelli che tu non sai chi sono.
Ma io sì.
Quelli che, per qualcuno, sono “muoiono solo i vecchi”, “sì, ma erano già malati”, “ne muoiono molti di più per altre cause”.
E, se sei tra quelli, vuol dire che questo, tutto questo, non ti ha davvero insegnato niente.
Le epidemie hanno questo di disperante: infliggono la punizione più profonda e
radicale che possa capitare a un uomo, quella della cancellazione della vita e
al tempo stesso del nome. La morte pandemica è una morte collettiva, privata
della percezione condivisa che chi muore sono sempre io, che io non sono una
statistica, che io non sono un numero di letto. C’è qualcosa di simile nelle
terrificanti visioni di guerra che Ernst Jünger ci racconta, c’è qualcosa di
simile nella morte tecnologica sotto un profluvio di granate nelle trincee,
oppure nella casualità assoluta del proiettile vagante. Ma allora, nelle
tempeste d’acciaio della prima guerra mondiale, almeno si poteva pensare di
partecipare a un grande destino storico, e la morte anonima, la grande sofferenze
della Somme, di Verdun, dell’Isonzo o del Carso potevano trasformarsi nella
lotta epocale per una nuova grandezza, tutta umana, tutta immanente, ma non
priva del fascino della Totalità. Piccoli ingranaggi della totalità si
spezzano, cadono, si rompono, ma tutti potranno lodare la loro vita…e il milite
ignoto per sempre sarà onorato… Tale compartecipazione pubblica al dramma di
una vita che finisce è una grande consolazione per i vivi, per tutti coloro
cioè che potrebbero subire la stessa sorte del caduto, il quale a sua volta ha
potuto fruire di questa intersoggettività nei tempi che hanno preceduto il suo
sacrificio. Allora i versi di de André non sono del tutto veri:
“Cari fratelli dell'altra sponda
Cantammo in coro già sulla terra
Amammo tutti l'identica donna
Partimmo in mille per la stessa guerra
Questo ricordo non vi consoli
Quando si muore si muore si muore soli”
Cantammo in coro già sulla terra
Amammo tutti l'identica donna
Partimmo in mille per la stessa guerra
Questo ricordo non vi consoli
Quando si muore si muore si muore soli”
Non è sempre vero che si muore soli perché anche nella morte c’è
una relazione costitutiva con l’altro e la solitudine non cancella completamente
il dialogo spirituale che tutti sempre mantengono con il prossimo…
Ma l’epidemia…l’epidemia ha il carattere di un maremoto che
tutto distrugge. Il nemico invisibile, il contagio che può venire da tutto e da
tutti, il prossimo che diventa l’untore, l’angoscia dei malati che temono un
destino di abbandono prima ancora che di morte, quel senso represso eppur
sempre riemergente di un ignobile “si salvi chi può” che viene dalle viscere e
si fatica a ricacciare indietro, quella disperazione degli indifferenti e degli
struzzi che non vogliono vedere per paura di vedere, tutto ciò si insinua e
incrina la fiducia.
E poi gli ospedali, i medici, lo sforzo infinito di chi si
scontra con il limite dell’umano, che è
anche un limite psicologico: vuoi dare, vuoi capire, vuoi avvicinarti per
comprendere e parlare al paziente come a un “tu” e … non puoi. La rigidità dei
protocolli, la scarsità delle risorse e la coscienza messa a dura prova,
dilacerata eppure chiamata a una giustizia che non cessa di fare appello anche nel mezzo di una tragedia.
L’epidemia è tutto questo: dolore e lacerazione nei sani, nei malati e infine
nei moribondi. Privati dei conforti della religione e della presenza dei cari,
delle preghiere e della vicinanza degli amici, privati di una famiglia, essi vedono
arrivare la morte asettica d’ospedale. Confinati nelle loro stanze essi sanno
di essere soli, e che finiranno assieme agli altri a fare statistica. Questo è
il dolore: non morire, ma sapere di essere un altro morto, un altro morto che è
capitato senza un senso e senza un perché.
Dio improvvisamente si è fatto silenzioso, non solo per i suoi
fedeli, che sanno quanto sia facile non trovarlo, ma per tutti. Quando il tuo
nome è taciuto nell’insieme anonimo e nella tristissima pace anonima di un
morte comune, lì è il silenzio di
Dio. La prima voce di Dio è infatti il nome, il mezzo con cui possiamo
identificare il volto degli altri e di noi stessi. Il nome raccoglie l’umanità
irripetibile di ciascuno. Prima di dirti chi sei, dice “che” sei. E allora se
anche Dio tace chi potrà dire una parola sensata nel dramma dei malati, dei medici,
degli amici? Ogni risposta appare miserabile di fronte alla distesa di ossa: “La
mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi
depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare tutt'intorno
accanto ad esse. Vidi che erano in grandissima quantità sulla distesa della
valle e tutte inaridite. Mi disse:
«Figlio dell'uomo, potranno queste ossa rivivere?». Io risposi: «Signore Dio,
tu lo sai» (Ez 37).
Questo possiamo dire, prima che Dio ordini, se ordina, di
rinascere: “Signore tu lo sai”. Tutto rimandare al sapere silenzioso di Dio che
è una ragione nascosta e invisibile … che è quello che non possiamo dire.
Sopportare silenziosamente lo scacco dell’uomo e gli orizzonti di desolazione è
l’unica grandezza cui Dio ha destinato i nostri amici, condannati a morire
senza un nome. Lasciarli nel silenzio in cui la ragione delle cose e il loro
senso si è nascosto perché, protetto da Dio, un giorno possa tornare e
restituire al mondo, alle vite, a ciascuno il suo nome.
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