“Non è democratico eccellere”:
“non ci occorrono cervelli, ci occorrono buoni cittadini”. Ecco le frasi di
alcuni studenti di Thomas Molnar, docente universitario, filosofo
e saggista ungherese emigrato negli Stati Uniti, dove principalmente svolse la
sua attività professionale. Il testo che le riporta è del 1961 ed è, fin dal
titolo, “Il futuro della scuola”, profetico sotto molti punti di vista. Il
libro è stato recentemente ripubblicato da Oaks, con l’interessante
introduzione di Marco Cimmino. Molto opportunamente il professore bergamasco riconduce
le riflessioni ivi presenti all’ambito italiano e contemporaneo, facendo un gesto
assolutamente naturale. Infatti, Molnar nel 1961 ci parla effettivamente di
quel futuro che è diventato il nostro presente: elaborando una critica
circostanziata e potente al sistema scolastico statunitense, coglie una serie
di gravi questioni con le quali noi oggi ci stiamo confrontando.
Le due frasi iniziali ne sono la migliore sintesi: la scuola ha abbandonato lo scopo di mettere in contatto i giovani con “le grandi menti del passato”, con quella tradizione umanistica, letteraria, filosofica, artistica e religiosa che “dobbiamo impegnarci seriamente a studiare”, sorvolando sugli “interessi pratici immediati”, perché lì sta “il nostro infinito vantaggio”. Dimenticando in sostanza la cultura, essa dimentica l’ideale della “padronanza di sé, del ‘superamento di sé’ che implica ‘l’imposizione di uno stile, una costrizione, una forma al proprio io’” (Nietzsche). Se si tralasciano tali fattori, si rinuncia anche all’ideale di una certa distinzione, di una certa superiorità legittima, in una sana competizione, di chi cerca l’eccellenza a beneficio proprio e degli altri. Ma, appunto, c’è qualcuno che suggerisce che “eccellere non è democratico” e, benintesi, l’affermazione non è l’estemporanea buotade di un ragazzo, ma la dichiarazione tragicamente inconsapevole di chi pure ha assorbito fino in fondo gli orientamenti che gli sono stati impartiti a scuola. Spesso i migliori sono le vittime predeterminate dell’ideologia perché, essendo più sensibili, l’assorbono più facilmente. L’ideologia dominate è precisamente il pragmatismo volgare di chi sostiene che la scuola sia un “centro sociale ricreativo di adulti come di bambini” finalizzato a promuovere “l’uomo medio ideale”, ossia il cittadino perfettamente omologato di una supposta “società ideale”.
Di che cosa ha bisogno il sistema
capitalistico contemporaneo? Soprattutto di tecnici bene integrati che svolgano
mansioni correlate con il buon funzionamento dell’apparato produttivo,
amministrativo e istituzionale. A tal fine è necessaria una specializzazione in
misura inversamente proporzionale alla visione d’insieme. La visione d’insieme,
infatti, è di lenta e difficoltosa acquisizione, non è spendibile
nell’immediato e distrae dal più urgente problem solving. La
specializzazione, invece, fa funzionare cose e, nel mondo della produzione sempre
più legato a quello altrettanto fondamentale dell’intrattenimento e dello
svago, è bensì importante che tutto funzioni.
Ecco, dunque, il senso della
seconda frase dello studente di Molnar: ci servono buoni cittadini, quello che
conta è la società, quello che serve è l’inclusione (per usare un termine molto
alla moda) dell’individuo nel gregge sociale, perché l’apparato si riproduca al
meglio e senza intoppi. La scuola deve già essere la società, perché la
transizione dalla vita scolastica alla vita economica sia il più possibile indolore e senza rischi. Bisogna tenersi
il più possibile lontani dai pericoli della cultura: “I vecchi sistemi
educativi, per quanto fossero ben organizzati e ben studiati per la distinzione
dell’individuo (o proprio per questo, n.d.r.), non potevano mai garantire che
l’allievo diligente di oggi non diventasse il ribelle, l’eretico o il
riformatore di domani”. Per evitare tale problema, oggi, dice Molnar, si
elimina la cultura, il suo valore intellettuale ed etico sotto il “disarmante
slogan del servizio alla comunità”. Ma questo oggi è molto più vero
adesso che negli anni Sessanta del Novecento, o meglio: è diventato una realtà
in pieno dispiegamento solo ora, nel nostro XXI secolo post-moderno.
E in entrambe le situazioni
storiche il motore dei processi dissolutivi nella scuola sono i pedagogisti,
quella setta di organizzatori che non è priva del fanatismo di chi pensa di
riformare il mondo e condurre l’umanità alle sue magnifiche sorti e progressive ... che sono lì a portata di mano, a patto che qualcuno faccia il pizzico di lavoro
che manca. Nel dopoguerra come nel secondo millennio, essi pongono tutta
l’enfasi possibile sulle virtù emancipative del metodo: se la scienza moderna è
tutta nel metodo scientifico, questo deve valere in generale per l’istruzione;
la scienza, intesa in senso banalmente positivistico, copre infatti lo spettro
di ciò che si deve sapere, dunque il sapere è essenzialmente metodo e mai
contenuto. Per questo gli educatori “ne hanno fatto un feticcio. Con John
Dewey, essi sostengono che gli strumenti di ricerca (metodi e macchine)
determinano in realtà l’oggetto e la portata del nostro sapere”. Di qui alla
pedagogia delle competenze il passo è brevissimo. E, come se Molnar avesse già
previsto le stupidaggini della cosiddetta “educazione digitale”, al primato del
metodo si accompagna con perfetta attualità il predominio di “tecnici
dell’educazione e uomini degli aggeggi”. Gli stregoni dello Strumento che
dovrebbe evitare ogni sforzo e promuovere l’assimilazione facile e poco
dispendiosa di una materia altrettanto facilitata e semplificata, diventano importantissimi.
Se si blocca lo Strumento si blocca la scuola… al docente si può facilmente
rinunciare, se lo Strumento è sufficientemente sviluppato ed efficiente … e
forse, tutto sommato, è meglio rinunciarvi in nome della maggiore neutralità e
affidabilità della macchina.
Al fianco degli uomini degli
aggeggi si trovano sempre più spesso altre figure professionali che tendono con
i primi a espropriare complessivamente la docenza. Anzitutto vi sono gli
psicologi per i quali “il fallimento intellettuale e morale è ora definito in
modo nuovo come sintomatico di un trauma infantile; la mente critica è solo la manifestazione
di un’amarezza nascosta, inconfessata; e il desiderio di emergere è un caso non
risolto di frustrazione infantile”. Con la psicologia si compie definitivamente
l’eliminazione della vita interiore: “Non si può capire niente della civiltà
moderna se prima non ci si rende conto che è una congiura universale per
distruggere la vita interiore”, dice Bernanos. Quest’ultima, chiosa Molnar,
viene sostituita con una “fantascienza dell’anima”: la psicologia,
perfettamente adeguata agli scopi della società. Nonostante la sua debolezza
epistemologica, essa prende piede perché in grado di dare conto e di
ulteriormente alimentare la matrice edonistica del vivere comune. La banalizzazione
e la schematizzazione dell’interiorità, il meccanicismo del desiderio che conduce
direttamente alla schiavitù della merce sono solo alcune delle conseguenze della
diffusione popolare di una versione semplificata del freudsimo, che a scuola, tra l'altro, ricopre un ruolo rilevante nei disgraziati e sempre più diffusi processi di medicalizzazione del
fallimento scolastico.
Insomma, il brave new world
della la società del godimento inizia in quella comunità locale che è la scuola
nella quale “il baby sitting psichiatrico” va di pari passo con l’”imperialismo
dei servizi personali e delle attività studentesche” che “lotta per dominare la
vita privata e sociale dello studente” e non solo. Questo prendersi cura della
persona, con le sue seduzioni e le sue assicurazioni, nel momento in cui si
sostituisce all’essenziale compito culturale e formativo dell'istituzione scolastica, finisce
per chiedere il pagamento di un prezzo salatissimo. La libertà è il prezzo di
questa nuovo “assolutismo a bassa intensità”, come lo chiama Molnar, che si
esprime nella scuola e nel sistema politico e sociale corrispondente: assolutismo
e totalitarismo della coccola, aggiungiamo noi, o “cocco-comunismo”, secondo
l’azzeccata espressione di Richard Millet. Il Welfare ti offre tutto,
chiedendoti solo…l’anima, ma per un buon fine: la costruzione di una società
armonica. Tuttavia “Goethe scrisse una volta alla signora von Stein che è possibile
costruire un’armonica società universale purché gli uomini siano disposti a
pagare il prezzo di divenire pazienti volontari in un ospedale di dimensioni
mondiali”. Anche qui Molnar è profeta e anticipa le riflessioni di Illich sulla
medicalizzazione della società di cui recentemente, complice la pandemia, molto si è discusso.
L’analisi del professore
ungherese è impietosa, quanto lo dovrebbe essere uno sguardo disincantato sullo
stato del nostro sistema dell’istruzione, cui nello specifico provvede
Cimmino. Non se ne deve però dedurre un atteggiamento pessimistico. Molnar
crede che la civiltà, anche a livelli minimi, esiga una certa dose di cultura
umanistica. Su tale ineliminabile necessità si deve lavorare. La tradizione
dovrà essere il perno della rinascita della scuola. Essa non è infatti un
metodo astratto che si impone a forza sulla realtà, ma è il sostrato e la
radice in cui affonda la vita concreta dei popoli europei e americani e
pertanto la condizione di ogni loro effettiva crescita civile. Ogni civiltà
vive portando alla luce ciò che è implicito nei semi della propria tradizione e
questo vale anche per l’Occidente, che prospera quando riesce a trarre linfa
vitale dalla classicità mediterranea e dal crogiuolo religioso medio-orientale.
“Studiare queste civiltà significa studiare noi stessi; rigettarla o ignorarla
significa commettere un suicidio culturale e intellettuale”. Russel Kirk, nella
prefazione al nostro libro, nota: “Noi moderni, disse l'antico Dotto, siamo
nani sulle spalle di giganti, capaci di vedere tanto lontano solo perché siamo
appollaiati in cima all'immensa catasta degli antichi. Però, essendo in grado
di vedere più lontano di loro, talora noi nani disprezziamo i giganti e diamo
loro un calcio, o aspiriamo a starcene sollevati a mezzaria; e allora
precipitiamo in fondo al fossato”.
“Il futuro della scuola” è
adesso. Non possiamo evitare di sentire il cattivo odore delle acque stagnanti
nel fossato in cui siamo precipitati. Ma un altro futuro è possibile a patto di
lavarci nelle acque pure di una nuova umiltà da cui torneremo con la voglia di
riappropriarci dei nostri giganti, quelli grazie ai quali potremo uscire dalla
caverna nella quale la pedagogia materialista e collettivista ci costringe a vedere ombre, verso la luce del
sapere, alla quale sin da sempre, come individui e come comunità siamo
destinati.
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