lunedì 31 gennaio 2022

PLATONE, Il Sofista: conoscenza, verità, falsità e... diversità

 



Introduzione: discorsi lunghi e brevi

Lo straniero di Elea comincia a dialogare con Teeteto dopo una premessa sul metodo: tra il discorso lungo, a mo' di dimostrazione e il discorso breve, fatto di domande e risposte, la scelta è per lui in ultima istanza dipendente dal tipo di interlocutore (con Socrate va bene quello breve, con un altro magari no). Egli in questo caso, per dovere di ospitalità sceglie, quello breve.

Primi tentativi di definire il sofista

Nel dialogo si tratterà complessivamente della definizione di "sofista". Si partirà da qualcosa di molto semplice, dimodoché possa facilmente emergere la bontà del metodo, quello dialettico-diairetico - di cui la modalità di conversazione per brevi domande e risposte è una forma di espressione -  da applicarsi poi alla questione principale e più difficile. Il punto di partenza “facile” sarà quindi l'analisi del concetto di “pescatore”, che pur nella sua semplicità e immediatezza quotidiana, si vedrà, non è senza attinenza con il tema fondamentale.

Schema 1: il pescatore



Ecco la definizione del pescatore e della sua attività: di tutta l'arte in generale, per metà una parte è arte di acquistare, la metà di questa è arte di impossessarsi, di questa metà è poi arte della caccia, e parte della caccia è dare la caccia ai viventi, e la metà di questa è la caccia delle specie acquatiche, e della caccia delle specie acquatiche, la parte inferiore è nel suo insieme la pesca: una metà di questa è percussoria, poi la metà della percussoria è la pesca all'amo; di questa, poi, quella che si esegue mediante un colpo tirato dal basso in alto e poi si tira su, viene detta pesca a sbalzi, che è poi la pesca con la lenza che stavamo cercando (221 b - 221 c).

A questo punto lo Straniero si dice pronto a cercare che cosa è il sofista. Come per il pescatore, bisogna supporre che anche il sofista sia uno che possiede unarte (221 d). In particolare, il sofista ha in comune con il pescatore il fatto di essere cacciatore esperto nell'arte di acquistare.

Schema 2: il sofista, prima definizione



In base al ragionamento appena fatto occorrerà chiamare sofistica l'abilità nel "procacciarsi, sequestrare, impossessarsi, nella caccia agli animali, in quella degli animali di terra, in quella rivolta agli animali domestici, in quella agli uomini, in quella della persuasione, in quella privata, in quella che si fa per avere ricompensa, in quella che vuol sembrare che educhi, in quella che si rivolge a giovani ricchi e di nobile famiglia” (223 b).

Tuttavia, si può vedere la questione in un altro modo ancora.

Schema 3: il sofista seconda definizione



Ciò che è “parte dell'arte di acquistare, di scambiare, di vendere al minuto, di commerciare, di commerciare aspetti dello spirito che riguardano ragionamenti e insegnamenti della virtù, questo secondo commercio si manifesta chiaro come arte della sofistica (224 d). In sostanza il sofista viene definito come mercante di cose che riguardano l’anima (a scopo di conforto e di sollecitudine ci può essere anche un’arte illusionistica - thaumatopoioiikon o arte del prestigiatore 224 a - su cui poi si insisterà nella definizione finale di sofista in 268 d).

Il sofista terza e quarta definizione (senza schema)

Come terzo punto, dice lo Straniero di Elea rivolto a Teeteto, tu, se uno venisse qui in città, talora per comprare nozioni, talaltra per crearsi di per se stesso insegnamenti riguardo a queste cose (l’anima) e poi venderle, e da questo si proponesse di trarre da vivere, non lo chiameresti con un nome diverso da quello che hai appena detto? Alla risposta negativa di Teeteto, lo Straniero conclude: "Dunque la parte della tecnica di acquisizione che si svolge mediante uno scambio, per compravendita, sia per la vendita al minuto di prodotti altrui (questa definizione è considerata da Platone la terza vera e propria, n.d.r), sia per vendita diretta di prodotti propri (questo caso implica per Platone una quarta definizione, n.d.r.), in entrambi i casi, qualunque sia il genere di vendita delle nozioni relative all'oggetto-anima, sembra che tu la chiamerai, a quanto pare, sofistica (224 e). Qui lo Straniero insiste sul fatto che il sofista vende al minuto, cioè al dettaglio, le nozioni in generale (cioè un sapere in generale) e in particolare di quelle riguardanti l’anima.

Ma lo Straniero prosegue:"Consideriamo ancora se il genere che è stato sottoposto non sia somigliante a qualcos'altro..."

Schema 4: il sofista  quinta definizione






Secondo la quinta definizione la sofistica è attività intesa ad accumulare, che appartiene all'arte eristica, che è parte del contraddittorio, che è parte della controversia, che è parte della lotta, che è parte dell'arte di acquisire (226 a). In sostanza il sofista è un erista (Reale), cioè è un “atleta della tecnica competitiva nell’ambito dei discorsi, essendosi appropriato della tecnica eristica” (Casertano, Il nome della cosa, p. 120).

Dopo tale definizione lo Straniero di Elea ribadisce la complessità dell'identità del sofista, dicendo che non basta una sola mano ad afferrarla, ma sono necessarie entrambe. Quindi bisogna procedere a un altro tentativo dialettico.

Schema 5 il sofista sesta definizione




“Una parte dell’arte di separare è quella della purificazione, all’interno di quest’ultima c’è una parte relativa alla purificazione dell’anima. Questa contiene l’arte di insegnare, che a sua volta contiene l’educazione. Nell’arte educativa vi è la confutazione che ha luogo nei confronti della vana apparenza di sapienza e che diciamo essere la sofistica di nobile famiglia (cioè la parte della sofistica più simile alla filosofia, n.d.r.). Allora il sofista diventa “colui che purifica l’anima dal sapere apparente” (Reale) cioè il “purificatore dell’anima dalle opinioni che impediscono l’apprendimento (Casertano).

Finora dunque il sofista è apparso in diverse sembianze:

1)     un cacciatore di giovani ricchi;

2)     un commerciante all’ingrosso che fa import ed export di conoscenze che riguardano l’anima;

3)     un rivenditore al minuto delle stesse conoscenze che riguardano l’anima e che ha acquisito da altri;

 

4)     un rivenditore di conoscenze che riguardano l’anima e che si è procurato da solo;

 

5)     un atleta nell’arte del contendere - eristica - per via di discorsi e ragionamenti;

 

6)     un purificatore dell’anima da opinioni che costituiscono un ostacolo all’apprendimento (232 a).

Il sofista come esperto dell’apparenza

Il guaio è che tale molteplicità di definizioni non coglie l’essenza del proprio oggetto, quindi è necessario ricorrere a un’ulteriore definizione, che riprenda e sviluppi la più significativa delle precedenti: il sofista come maestro del contraddittorio. Egli, per essere tale, deve saper affrontare nelle più diverse occasioni una molteplicità di argomenti, così da potere sempre prevalere nella lotta con l’interlocutore (cosa che conferma anche Protagora nei suoi scritti tra cui quello sulla lotta, 232 e). Ma, ci si domanda, è mai possibile che un uomo abbia la scienza di tutte le cose? No certamente. Tuttavia i sofisti devono apparire uomini di tal fatta ai loro allievi che per questo li pagano. Pertanto il sofista si presenterà giocoforza come colui che è dotato di una scienza vastissima, benché in realtà apparente (233 c). Egli si manifesta, a un esame attento, un esperto di mimetica, in grado di incantare e sedurre in virtù della sola imitazione delle cose reali e dei contenuti del sapere. Sembra allora che per raggiungere un risultato definitivo sia necessario partire dall’arte imitativa. Essa si può dividere in due parti (235 d):

1)l’arte del copiare o della raffigurazione che dà delle cose una riproduzione fedele al modello, seguendone le proporzioni in modo precisissimo (eikastikén technén, 235 e);

2) l’arte dell’apparenza che non riproduce le proporzioni esatte, ma quelle che sembrano più belle (fantastikén technén, 236 c), ed è propria di gran parte della pittura e dell’arte mimetica.

Tra queste arti dove va collocato il sofista (236 d)?

L’apparire che è: un problema “parmenideo”

La ricerca è difficile da tutti i punti di vista perché il concetto di apparenza è assai ambiguo: “Infatti questo apparire e sembrare, ma non essere, e il dire qualcosa, ma qualcosa di non vero, tutto ciò è pieno di difficoltà sempre, nel passato e nel presente. “Come infatti si debba parlare e opinare per dire che il falso esiste realmente, senza che pronunciando questa affermazione si cada in contraddizione, Teeteto, è assolutamente difficile sapere” (236 e - 237 a). Qui è coinvolto l’ammonimento di Parmenide: “di non accettare mai che sia ciò che non è” è ciò rende il tutto degno della massima attenzione. Proviamo ora a esaminare questo problema (237 b).

Dire il non essere: la questione del singolare e del plurale

La locuzione l’ “assolutamente non-essere” non può sicuramente essere attribuita a nessun ente, e dunque a niente che sia “qualcosa”. Infatti la parola “qualcosa” allude sempre a “un” qualcosa, che può diventare “due” qualcosa o “molti” qualcosa, ma mai “nessun” qualcosa. Nessun qualcosa, infatti è “niente” e chi vuole dire “nessun qualcosa” non deve dire niente del tutto. Il problema è dunque il seguente: da un lato non si può pensare che, nel caso si pronunci la locuzione “non ente”, “uno dica ma non dica niente”; dall’altro “bisogna affermare che neppure dice chi pretende di pronunciare  ‘non ente/non essere’” (238 a).

Anzitutto va specificato che se si pronuncia la locuzione “non ente/non essere” si parla al singolare e si distingue tale locuzione da “non enti” al plurale”. Ma “uno”, “alcuno”, “molti”, “un certo numero”, sono anch’essi a loro modo enti e qualità “ontiche” (n.d.r.) che non si adattano a significare qualcosa che non è, ma sempre qualcosa che è, appunto, secondo un certo numero. Pertanto, non appena si tenta di pronunciare la locuzione “non ente” anche solo con un’intenzione confutatoria, si cade in contraddizione, perché non si può attribuire un numero al non-ente/non essere. “Se si vorrà parlare in maniera corretta [del non-essere/non ente] non bisogna definirlo né come uno, né come molteplice, anzi non lo si deve nominare affatto” (239 a), nemmeno con un pronome (“lo”: “non ‘lo’ si dovrebbe nominare”), perché si entrerebbe in una fatale contraddizione. Questa indicibilità, tuttavia, siccome vale anche per le confutazioni, renderebbe il non-ente/non essere inconfutabile. Infatti, confutandolo, lo si nominerebbe e gli si attribuirebbe un numero parlandone al singolare.

Il sofista si è dunque nascosto in un luogo pericolosissimo perché ci costringe a parlare di essere/ente e di non-essere/non ente, con un discorso che rischia continuamente di cadere in contraddizione.

Quando noi lo chiamiamo “produttore di immagini” (eidolopoion), avrà buon gioco a farci cadere in contraddizione sulla base del concetto di apparenza, che tornerà sulla questione dell’essere che non è, del dire qualcosa che, apparendo, non è. Infatti egli per prima cosa ci chiederà di definire l’immagine, cercandone l’essenza razionale ed evitando gli esempi sensibili. Si dovrà pertanto rispondergli che l’immagine è “l’oggetto fatto a somiglianza di quello vero, diverso ma simile” (240 a). Ma se con simile si intende “diverso dal vero”, bisognerà ammettere che è “non vero” e che quindi “non è”. Eppure sembra che si debba dire che l’immagine abbia una realtà, quella della raffigurazione (eikon, 240b). Così concepita, però, questa raffigurazione finirebbe per essere, pur non essendo realmente (240 c). Il sofista in questo modo ci costringerebbe a riconoscere che il non essere/non ente in qualche modo è (nella forma dell’immagine).

Il sofista opina il falso

Volendo opporci al sofista, su tali basi diremmo che la sua è un’arte dell’apparenza (fantasma) e dell’inganno (apate). Ma dicendo così dovremmo ammettere che egli opina (doxazein) il falso ossia ciò che non è. Ma opinando il falso, bisogna ammettere una sua qualche consistenza, poiché, opinando, ci si sbaglia in qualcosa, anche se di poco.

Opinano del resto il falso anche coloro che opinano che gli enti in assoluto non siano.

Allo stesso modo fanno coloro che opinano che le cose che sono non sono e che le cose che non sono sono.

In tutti questi casi il fatto stesso di opinare fa entrare in contraddizione, perché con l’opinare si offre una realtà al non essere, almeno nell’opinione, cioè nell’apparenza e nell’immagine, e il sofista se ne accorgerà e lo sottolineerà, richiamando l’assunto che essere e non essere non possano essere compatibili.

Quindi ponendo il sofista nel campo degli incantatori e dei mistificatori, si cade in contraddizioni infinite, di cui quella qui notata è solo un esempio (241 b-c). Per uscirne bisognerà mettere alla prova Parmenide correndo il rischio del parricidio (241 d).

Mettere alla prova Parmende: il tema dell’essere nei fisici pluralisti

Mettere alla prova Parmenide significa “forzare l’essere/ente a non essere e il non ente-non essere ad essere”. Senza fare ciò è impossibile parlare con coerenza di discorsi falsi, opinioni false, immagini, raffigurazioni, imitazioni.

Si partirà da un’analisi delle opinioni dei presocratici sul problema dell’essere. Innanzitutto si esaminano le opinioni dei pluralisti che Platone così sintetizza:

  1. Ferecide di Siro o Ione di Chio (V sec. a.C.): “Gli esseri sono tre, talvolta si fanno guerra tra loro, talvolta fanno nozze”;
  2. Archelao di Atene, discepolo di Anassagora: “L’essere è l’umido e il secco, o il freddo e il caldo”;

 

  1. Senofane e la scuola eleatica: “L’essere è uno solo e coincide con il tutto”;

 

  1. Le Muse della Ionia (Eraclito) e della Sicilia (Empedocle): “L’essere è uno e molteplice al tempo stesso, infatti si dilacera e si ricompone (Eraclito); si fa uno per merito di Afrodite, e si fa molteplice e nemico di sé stesso a causa della contesa”

I loro discorsi, però, sono troppo complicati, a volte incomprensibili, perché, parlando dell’essere che diviene o che si mescola ad altro, implicano il non-essere, il cui concetto, nel nostro discorso, è divenuto problematico (243 c). Infatti sul non-essere si pensava di capire cosa significasse ma in realtà non lo si sa, e forse ci si trova nella stessa situazione riguardo all’essere.

L’essere non è due cose (caldo e freddo)

Anzitutto concentriamoci sull’essere (243 d), che è la cosa più importante e il fondamento primo. Immaginando di interrogare i filosofi del passato che abbiamo citato, se l’essere è caldo e freddo (243 e), o comunque è due cose, che cosa si intende dicendo che entrambi, il caldo e il freddo, e ciascuno dei due sono? Che cosa dobbiamo intendere col loro essere ? Forse un qualcosa di terzo, oltre quei due.  Allora «il tutto» sarebbe tre (il caldo, il freddo e l’essere) e non due. D’altro canto, se l’essere del caldo e del freddo fosse lo stesso, entrambi, il caldo e il freddo, sarebbero. Dunque il caldo e il freddo non sarebbero due cose ma una sola, quindi l’essere sarebbe una sola cosa.

Così si confutano coloro che ritengono che l’essere sia due cose. La domanda successiva si propone di andare di andare più a fondo sul senso della parola essere. Che cosa dobbiamo insomma intendere quando pronunciamo il termine «ciò che è» (244a)?

L’essere non è Uno (monisti)

Rispondendo a questa domanda si incontrano i “monisti”, che affermano che il tutto è uno. Essi affermano che solo una cosa è. Quindi devono attribuire all’essere il nome “uno”.

Ma che cosa intendono essi col termine «Ciò che è»? Dicendo che l’essere-ente "è" solo uno, e chiamando questo uno essere/ente/«ciò che è» in questo modo, usano due nomi (uno ed essere/ente/«ciò che è») per il medesimo uno, per la medesima cosa (244 b-c).

Ma è ridicolo ammettere due nomi quando non si pone che una sola cosa (244c-d): questo è un primo errore dei monisti.

Per evitarlo si potrebbe dire che l’unica cosa che è, è il nome “uno”, ponendo solo il nome. Tuttavia, accettare senz’altro che un nome “è” (dove per “è” intendiamo che abbia una consistenza autonoma e sia qualcosa) non ha significato. Come potremmo infatti intendere quell”’è” del nome?

  1. il nome è diverso dalla cosa, per esempio il nome “libro” è diverso dalla cosa libro. In questo modo avremmo il nome/cosa accanto alla cosa/cosa e quindi avremmo due cose e scomparirebbe il monismo.
  2. il nome è identico alla cosa. ciò implica due possibilità:

a.      o si appiattisce il nome sulla cosa, in modo tale che è veramente esistente è solo la cosa, e con ciò si otterrebbe che il nome non è nulla. Per esempio:

1. esiste solo il              

2 il nome “libro” non ha alcuna esistenza autonoma

3 il nome “libro” è nulla

b.      o si appiattisce la cosa sul nome, così che a esistere veramente non sarebbe più la cosa ma il nome. In questo caso il nome, essendo l’unico rimasto, non sarebbe più il nome di una cosa ma il nome di un nome. Per esempio:

1 esiste solo il nome “libro”

2 la cosa  X   scompare, così che il nome “libro” diventa nome di sé stesso, cioè nome di un nome.

Questa dissoluzione del nome nella cosa fa sì che la parola “uno”,  essendo nome della cosa-uno,  è anche l'uno del nome (244d), cioè finisce per essere l’unica cosa che esiste, e cioè non nomina nulla perché non è possibile distinguere dal nome una cosa nominata.

 

La questione dell’intero: l’essere non può essere uno e al tempo stesso essere un intero (A), ma anche non può essere uno evitando di essere un intero (B)

 

A)     Confutazione di Parmenide, che afferma che l’essere è la coincidenza dell’uno e dell’intero: se l’essere è un intero non potrà essere veramente uno.  I nostri monisti che dicono che l’essere è uno, diranno che esso è l’intero. Ma anche a proposito dell'intero, lo diranno diverso dall'uno che è, o identico ad esso (244d-e)? Se l’essere è un intero, una sfera ben rotonda, come dice Parmenide, esso avrà centro e un’estremità, dunque avrà parti (244e). Ma se ha parti, esso non è l'uno in sé, cioè il vero uno, che è senza parti (245a). L’essere che solo “partecipa” dell’unità, come lo è l’intero che è l’unità delle sue parti, non potrà essere veramente uno. Infatti se l’essere è solo affetto in qualche modo dall'u­no,  apparirà  un  ente  non  identico  all'uno,  e  quindi «tutte le cose» saranno più di uno.

Se E = I e I = non Uv  allora E = non Uv

Posto che  non Uv = Uf allora, se E = Uf, E sarà una molteplicità. Pertanto verrà meno il monismo.[1]

 

B)     In alternativa all’idea che l’essere sia la coincidenza dell’uno e dell’intero, si potrebbero avanzare le seguenti ipotesi che ammettono che l’essere, rimanendo uno, non sia un intero.

  1. L’essere non è l’intero e l’intero esiste. Ma se  l’essere non è un intero inteso come unità delle parti, e se l'intero stesso è, allora l’essere risulta privo di se stesso. Ma se l’essere è privo di se stesso, non sarà essere.

Se E = non I (Uf) e se I = E,  allora E = non E

  1. L’essere non è l’intero. Ancora, se l’essere non è l’intero, ciascuno avrà una natura separata dall’altra, e quindi ci saranno due cose e non più una.

Se E = non-I; allora E + I = 2 cose

  1. L’intero non è. Se l’intero assolutamente non fosse, allora l’essere non sarebbe. E, non essendo, non potrebbe mai divenire essere.

Se non-I allora non-E; e se non-E, allora non-E mai diviene E

  1. L’intero non è, tenendo conto che il divenire è divenire un intero. Se il divenire è divenire un Intero, per conseguenza togliendo l’Intero cade il divenire. Ma togliendo il divenire cade anche l’essere, perché “è” solo ciò che è divenuto tale.

Se D = D(I) e se non-I, allora non-D, ma se non-D allora non-E, perché E = D(E)

  1. L’intero non è, pur sussistendo il concetto di quantità. Ma togliendo l’Intero si toglie anche la possibilità di avere una quantità determinata, perché ciò che è di una determinata quantità è della quantità che forma un Intero, l’Intero di quella quantità.

 

Conclusione del ragionamento generale sulle due prospettive del pluralismo e del monismo

 Queste e innumerevoli  altre difficoltà appariranno a chi afferma che l’Essere è due determinate cose o, al contrario, una sola. 

Idealisti e materialisti

Ora passiamo ad analizzare coloro che argomentano diversamente (246a - fino ad adesso si è argomentato sul rapporto uno - molti, ora si tratta del tema se l’essere sia ideale o materiale e delle conseguenze di ciascuna di queste tesi) per capire che dire che cosa è l’essere non è per niente più facile di dire che cosa è il non essere. Cominciamo dall’essere. Sull’essere vi è una grande disputa tra

 

I figli della terra” che sostengono che l’essere è “corpo” che “offre resistenza al contatto” (246a-b). Questi sono “uomini terribili”.

Gli “amici delle idee” che sostengono che l’essere sono certe sostanze/forme/idee intellegibili e incorporee. Questi per mezzo dei loro ragionamenti, tolgono valore e plausibilità all’essere corporeo, in quanto lo degradano a “divenire continuo” (247 a B).

Contro di loro bisogna argomentare, cercando di far loro ammettere l’esistenza di un’anima che possiede certe virtù (assennatezza, giustizia etc.) e che tali virtù, essendo, sono incorporee (247 a - 247 b)

Essi affermano di comunicare con il mondo intellegibile per mezzo dell’intelletto e con quello sensibile e in divenire per mezzo dei sensi (248a).

Per loro sarà molto difficile ammettere ciò. Potremmo allora convenire su una definizione di essere più “di compromesso” e anteriore alla distinzione corpo/incorporeo, cioè l’essere è potenza di agire e di subire (247e).

Riguardo all’essere come potenza di agire e subire, essi sostengono che tale definizione si attaglia all’essere in divenire e non a quello ideale.

 

A loro bisogna chiedere, tuttavia se ammettono che l’essere ideale, possa essere conosciuto dall’anima umana e se l’essere conosciuto non è una forma del subire (248 d-e). In quanto subisce qualche azione, l’essere non è in quiete, ma si muove.

 

Inoltre se l’essere è tale in senso eminente (che compiutamente è/assolutamente perfetto - pantelòs), non si può dire che manchi di un’anima (249 a). Se ha un’anima, allora non solo si muove subendo una conoscenza, ma anche conoscendo, cioè agendo. L’essere che ha vita, intelletto e anima, dunque, non può essere immobile.

 

Tuttavia è vero che la scienza presuppone la stabilità, e quindi chi ha intelletto deve avere in sé l’identico e non può muoversi continuamente (249c).

 

Pertanto è necessario:

1)     Rifiutare che l’essere sia immobile, come sostenuto dagli amici delle idee;

2)     Che l’essere sia “mosso in ogni direzione” come dicono i figli delle terra;

3)     Ma dire che “ciò che è immobile è anche in movimento” (249 d).

 

Come fa l’essere ad essere immobile e in movimento?

Bisogna ora ipotizzare che coloro che ritenevano che l’essere fosse caldo e freddo ci chiedano conto di quello che diciamo, cioè dell’apparente contraddizione movimento-immobilità. Che cosa significa dire infatti che l’essere è in quiete e in movimento. Forse vorrà dire che noi consideriamo che quiete e movimento sono entrambi? Se è così, ciò significherebbe ammettere l’Essere di “quiete” e “movimento” come qualcosa di ulteriore, una terza cosa, che abbraccia quiete e movimento, perché ambedue hanno in comune l’Essere. Ma, essendo una terza cosa, diversa da quiete e movimento, l’Essere non dovrebbe essere né quiete né movimento (250 c).

E = non Immob

Immobil = E

→ E = non E

Ma è possibile che una cosa non sia in quiete senza essere in movimento o in movimento senza essere in quiete? La difficoltà in questo caso è grande, ancora di più di quella incontrata analizzando il non essere. Dunque la ricerca dovrà procedere oltre.

 

Unità e molteplicità dal punto di vista della predicazione

Visto che abbiamo parlato di come l’Essere si predica di Quiete e Movimento, e delle difficoltà che qui si incontrano, parliamo ora della predicazione in generale. Cerchiamo di mettere a fuoco come si predica una cosa con molti nomi (per esempio l’uomo che ha molte caratteristiche).

Qui subito reagiranno coloro che, dicendo impossibile che l’uno sia molti e i molti uno (Parmenide), diranno lecito esprimere solo giudizi come “il buono è buono” o “l’uomo è uomo” e non “l’uomo è buono”. A loro bisogna opporre la seguente triplice alternativa:

 

A)     non si deve unire l’Essere a Quiete e Movimento, e nessuna cosa va congiunta con le altre, cosicché ognuna rimanga separata. In questo modo Essere, Quiete e Movimento non comunicano, pertanto tutti coloro che ritengono che

1.      l’Essere si muova,

2.      l’Essere sia fermo,

3.      l’Essere sia uno e diventi molteplice,

4.      l’Essere sia molteplice e diventi uno,

              esprimerebbero tesi impossibili.

Coloro che affermano un tale orientamento finirebbero per contraddirsi perché, dicendo “tutto è separato”, pure unirebbero un soggetto a un predicato diverso e farebbero qualcosa che era stato detto impossibile [251 A - 252 C].

 

B)     si deve ricondurre tutto alla medesima cosa per rendere possibile la comunanza delle cose, ma così si arriverebbe a comunanze contraddittorie come, per esempio, “la Quiete è Movimento” [252 D].

 

C)     si devono ricondurre alcune cose ad altre e altre no. Questa appare la soluzione corretta e suggerisce l’analogia tra le idee, i generi e l’alfabeto. Nell’alfabeto le vocali attraversano tutte le parole permettendo connessione tra elementi che normalmente non si legano.

 

La dialettica come grammatica delle idee 

Ma come la disciplina che studia l’alfabeto è la grammatica, per le idee ci sarà una disciplina che stabilisca quali idee si accordino e quali no, e se ci sono alcune che le connettano attraversandole tutte, e ancora, se un'idea possa essere all’interno divisa separando qualche altra idea che a quella partecipa.

Questa è la scienza degli uomini liberi, cioè la dialettica che è propria del filosofo (cercando il sofista si è trovato il filosofo) e che consiste nel dividere le idee secondo le reali identità e diversità (253 e).

Il sofista è sfuggente e si nasconde nell’oscurità del non-Essere. Il filosofo si troverà, invece, ovunque si pratichi la dialettica, benché sia difficile scorgerlo. Ma la difficoltà connessa all’individuazione del filosofo è diversa: egli con i ragionamenti rimane vincolato all’Essere e i problemi sono legati non all’oscurità ma allo splendore divino che da lui emana (254 b).

 

I Cinque generi sommi, loro deduzione

Dopo aver parlato del filosofo e del sofista, Teeteto e lo Straniero concordano di continuare la ricerca sul sofista, riprendendo la questione delle idee che si accordano o meno, secondo i loro caratteri interni. L’analisi sarà condotta, dice lo Straniero, non su tutte le idee ma solo su quelle “più grandi” cercando

-        quali sono

e

-        come entrano in comunione fra loro (254 c).

Ebbene, si parte dalle idee or ora citate di Essere, Quiete e Movimento: tre idee distinte in cui si può dire che l’Essere partecipa delle altre due, ma che Quiete e Movimento sono incompatibili. Si prosegue dimostrando altresì che ciascuna delle tre idee è identica a sé e diversa dalle altre, in modo tale che che l'Identico e il Diverso si mescolano alle altre forme pur rimanendo da loro differenti. Quindi per riassumere

1)     Quiete e Movimento non sono né un che di Identico né un che di Diverso, infatti non si possono predicare di entrambi: se si predicassero di entrambi, Quiete e Movimento, predicandosi ciascuno di oggetti contrari, trasformerebbero l’Identico nel contrario, cioè nel Diverso, e il Diverso nel contrario cioè nell’Identico. Se Quiete e Movimento sono identici, essendo la Quiete il contrario del Movimento, l’Identico della Quiete sarebbe il contrario, cioè diverso, dall’Identico del Movimento; se invece Quiete e Movimento fossero entrambi diversi, essendo l’uno il contrario dell’altro, il Diverso della Quiete sarebbe il contrario del Diverso del Movimento, ma il contrario del Diverso è l’Identico, dunque anche il Diverso sarebbe contrario a se stesso, cioè Identico.

2)     Identico e Diverso  non coincidono nemmeno con l’Essere, infatti

2a) se l’Essere fosse uguale all’Identico, visto che Quiete e Movimento entrambi “sono”, per la proprietà transitiva, allora Quiete e Movimento sarebbero Identici, cosa non vera perché sono diversissimi e contrari. Quindi l’Identico è una quarta idea, che si aggiunge a Essere, Quiete e Movimento..

2b) se l’Essere fosse uguale al Diverso, ammettendo per forza X) che il Diverso è diverso rispetto a un diverso, Y) che l’Essere/Diverso partecipi ugualmente di Quiete e Movimento, Z) allora si darebbe vita al seguente paradosso: la Quiete/Diverso non sarebbe differente dal Movimento/Diverso, e allora il Diverso di Quiete e Movimento non sarebbe Diverso, quindi il Diverso non sarebbe più diverso rispetto a un diverso.

se E=D

ma D ≠ D

tenendo conto che quiete e movimento entrambi “sono”, cioè E=Q ed E=M (E in Q = E in M)

Allora se D coincidesse con Q e con M, allora

Qd=Md

D=D

il che è impossibile perché il Diverso è diverso da un Diverso (D ≠ D).

Quindi il Diverso è una quinta idea che va ad aggiungersi a Essere, Quiete, Movimento e Identico.

Entrambe, Identico e Diverso, attraversano le altre idee, senza coincidere con esse.


I rapporti tra i cinque generi sommi

 

Così di determinano i rapporti tra i cinque generi sommi:

-        il Movimento è assolutamente diverso dalla Quiete, quindi il Movimento NON È la Quiete

-        il Movimento È perché partecipa dell’Essere

-        il Movimento è diverso dall’Identico

-        il Movimento NON È l’Identico

-        il Movimento è identico a sé e dunque partecipa anche dell’Identico,

Quindi

-         il Movimento è identico e non identico, cioè solo partecipa dell’Identico

-        il Movimento è diverso e non è diverso, cioè solo partecipa del Diverso;

-        il Movimento è diverso da Quiete, Identico e Diverso;

-        il Movimento non è diverso dall’Essere, ma non coincide con l’Essere, bensì solo partecipa dell’essere.

Insomma, per la presenza del Diverso, tutti gli altri esseri non-sono altri esseri. Essi sono non-essere, ma ugualmente, per la presenza dell’Essere, essi pure “sono”. Quindi tutti gli esseri ideali di cui si è parlato, al tempo stesso sono e non sono. Per ogni essere ci sono infiniti non esseri, uno per ogni ente diverso da quello.

 

Il non essere come essere-diverso

IN QUESTO SENSO QUANDO DICIAMO NON-ESSERE NON DICIAMO QUALCOSA DI CONTRARIO ALL’ESSERE, MA DI DIVERSO: la particella “non” davanti ai nomi delle idee introduce pertanto il Diverso.

Il Diverso, dal canto suo, ha la stessa natura della scienza: una ma in molteplici discipline, allo stesso modo del Diverso: uno e al tempo stesso molteplice. Siccome il Diverso rende tutti gli enti “non” rispetto ad altri enti, deve essere considerato come il non-essere che possiede una sua idea (257 d - 258 c). Per esempio:

il non-Bello ha un nome? Sì, esso è il “diverso” dal Bello, dunque esiste come idea separata dall’idea di Bello, pertanto sia il Bello è, sia il non-Bello è e quest’ultimo si chiama “diverso” dal Bello. Così avviene per il non-Grande, il non-Giusto e anche il non-Essere: anch’essi sono “diverso”. Il Diverso è l’idea che è suddivisa in tutte le idee che sono in rapporto reciproco e si contrappone al loro essere. Essa è pertanto non-Essere, ma un non-Essere che non è il contrario dell’Essere (cioè il non essere assoluto, il nulla di Parmenide), ma il suo “contraddittorio”, cioè appunto il suo diverso.

Ecco che ci si è allontanati da Parmenide che dice: “Inoltre questo non potrà mai imporsi, che non siano le cose che sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero” (258 d).

 

La mescolanza dei generi

Il Diverso implica che i generi si mescolino fra di loro. Ciò accade quando l’Essere e il Diverso penetrano in tutti i generi e l’uno nell’altro, in modo tale che

-        il Diverso, partecipando dell’Essere, non è ciò di cui partecipa (l’Essere), ma è appunto Diverso;

-        il Diverso dal canto suo è necessario che sia non-Essere, in quanto appunto non coincide con l’idea di Essere;

-         l’Essere, essendo partecipe del Diverso, sarà appunto diverso dalle altre idee;

-        l’Essere, in quanto diverso da tutti gli altri, “non è” nessuno degli altri, né presi singolarmente né in gruppo, ma è appunto se stesso.

Ciò significa che l’Essere in innumerevoli casi non è, e le altre idee parimenti per certi versi sono, per certi altri no. Naturalmente bisogna condurre il discorso secondo la sua logica interna e non “dichiarare l’identico sotto qualsiasi aspetto diverso, il grande piccolo, il simile dissimile e provar gusto a introdurre sempre contrari nel discorso” in modo casuale, irrazionale, facendo come fanno i neonati che non sono a contatto con le cose che sono (259 d).

 

L’impossibile separatezza e il discorso che non è (il discorso falso): qui si trova il sofista

 Parimenti è erroneo cercare di separare ogni cosa da ogni altra, in modo tale che si debba annientare ogni discorso (infatti l’intreccio delle forme è condizione di possibilità del discorso/ragionamento/logos). Senza discorso non ci sarebbe filosofia e sapere. Così dobbiamo considerare il Discorso una delle idee che sono. Il non-Essere si mescola con l’opinione (doxa) e il discorso (logos)? Se non si mescola è necessario che tutto sia vero; se si mescola ne nascono l’opinione falsa e il discorso falso. Ciò accade perché opinare (doxazein) è dire (leghein) quel che non è: è proprio questo il falso che si genera nella conoscenza (dianoia) e nei discorsi (logois). Ma se c’è il falso (pseudos), c’è anche l’inganno (apate). e con l'inganno tutto è pieno di simulacri (eidolon), immagini (eikonon) e apparenze (fantasias). Ebbene il sofista è in un luogo come questo, fatto di simulacri, immagini e apparenze, ma nega che ci sia il falso [cfr Teeteto e la confutazione del discorso di Protagora] perché, dice, il non essere non si può né pensare né dire dal momento che non è nulla (260 d ).

Il sofista potrebbe ribattere che, siccome alcune idee si mescolano con altre (per esempio con il Diverso) e altre no, è possibile pensare che- l’idea connessa con l’arte sofistica del produrre immagini (eidolopoietiken) e apparenze (fantastiken) non si mescoli (per esempio con il Diverso). Quindi la sua negazione, non potendo essere compatibile con l’Essere, “non è” assolutamente e pertanto il discorso sofistico falso non esiste, e il sofista non ne è affetto.

Allora dobbiamo valutare che cosa sono discorso (logos), opinione (doxa) e apparenza (fantasia) per cogliere la loro comunicazione con il non-essere, dimostrando che il falso c’è e che il sofista vi è indissolubilmente legato (se lo troviamo di ciò colpevole) (261 a).

 

Analisi del discorso

Nel discorso sono contenuti i nomi, alcuni ammettono accordo, altri no. Andando più a fondo bisogna ammettere che esistono due tipi di segni con cui si indica l’Essere: i nomi che indicano colui che compie le azioni e i verbi che indicano le azioni. Né un elenco di verbi né un elenco di nomi fanno un discorso, bensì un insieme di nomi (soggetti) e di verbi (predicati) (261 d - 262 a).

Tale insieme può avere due qualità: essere vero o falso. Quello falso afferma i non-esseri come esseri, cioè afferma esseri ma enti diversi da quelli che riguardano il soggetto al quale sono stati attribuiti.

Inoltre, il discorso deve riferirsi necessariamente a un oggetto (263 a), per esempio può riferirsi a Teeteto con due frasi: Teeteto sta seduto (263 a) e Teeteto vola (ivi). Questi due discorsi hanno una loro qualità, l’uno è vero e l’altro è falso. Il discorso falso dice le cose diverse da come sono, infatti le cose dette in questo discorso sono non-esseri, poiché il volo è un non-essere se applicato a Teeteto. Tuttavia, in questo discorso, questa “cosa” falsa è detta come se fosse vera in modo che il discorso è realmente e veramente (ontos kai alethos) un discorso falso (pseudes - 263 d).

Da qui risulta chiaro come conoscenza (dianoia - cfr Teeteto 189 e - 190 a), opinione (doxa - cfr Teeteto 206 d) e apparenza (phantasia - cfr Teeteto 152 c) sorgono sia  veri sia falsi nella nostra anima.

Cerchiamo di capire come fanno a sorgere in questo modo, provando a comprendere che cosa conoscenza/pensiero (dianoia), opinione (doxa) e apparenza (phantasia) siano. 


Innanzitutto il pensiero e il discorso (dianoia e logos) sono la stessa cosa, solo che il primo avviene dentro l’anima e senza voce, mentre il secondo è un certo soffio attraverso la bocca che si unisce alla voce (263 e). Entrambi sfociano in un’affermazione o una negazione; l’affermazione e la negazione che avvengono nell’anima nella forma del pensiero, in silenzio, le chiamiamo opinioni (doxa). L’opinione, quindi, è l’esito di un processo di pensiero avvenuto interiormente e che è giunto ad una conclusione affermativa o negativa.   Quando l’opinione si presenta frammisto alla sensazione, cioè è proferita esternamente attraverso la voce, si ha invece l’apparenza (phantasia). 

Posto che il discorso (logos) può essere vero o falso, e sono congeneri al discorso sia il dialogo dell’anima con sé stessa (dianoia) sia l’opinione (doxa) che è il compimento della dianoia, siccome l’espressione “appare” la diciamo una mistione di sensazione e opinione (quello che è la phantasia),  è necessario che tutte e tre, dianoia, doxa e phantasia, possano essere vere o false (264 b). 

Così è stato spiegato cos’è l’opinione e il discorso falso. Riconducendo tutto al sofista, si parlava a suo proposito di un’arte imitativa (eidolopoietikes) che abbiamo distinto in una che costruisce immagini (eikon) e una che costruisce apparenze (phantastiken) (264 c). Lo scoglio che dovevamo superare era quello per cui simulacro, immagine e apparenza non potevano darsi in quanto falsi, ora appare chiaro che, essendoci opinione e discorso falsi, può esserci pure un’arte votata all’inganno (apatetiken).

 

L’ultimo e definitivo concetto del sofista

Da qui si procede con la definizione del sofista [264 d]

L’arte dell’inganno risulta affine alla dimensione della produzione. Produzione e acquisizione sono due concetti distinti e se all’inizio, quando si era definito il sofista mediante i concetti di caccia, competizione, commercio, si era propeso per l’acquisizione ora invece si deve partire dalla produzione. 

Schema ultima definizione 264 e segg



 

Dirà la cosa più vera colui che afferma che il sofista è della seguente stirpe (e sangue): della parte imitativa (mimetikon) nell’arte del contraddittorio (enantiopoiologikes) che fa parte del genere della simulazione basata sull’opinione (doxastikes), all’interno del genere della produzione di apparenze (fantastikon), che rientra in quello della produzione di immagini, non di origine divina, ma umana, all’interno della parte delimitata come produzioni di illusioni (thaumatopoioiikon) nei discorsi. [268 c-d]

(Il sofista è colui che possiede l’arte umana e non divina di produrre immagini che sono apparenze (mentre quella divina produce immagini autentiche) le quali, in quanto apparenze, dissimulano la loro falsità. Egli produce l’apparenza attraverso la voce e non conoscendo esattamente il modello originale, cioè la verità, da cui prende le mosse ma dando ad intendere di conoscerlo; la sua pertanto è un’imitazione per mezzo dell’opinione e non della conoscenza. In quanto orientato a non far capire che non sa quello che imita, egli sarà un imitatore che simula. Questa simulazione della verità - che è anche un’arte illusionistica simile a un’arte del prestigiatore (268 d) - avverrà con brevi discorsi e in privato cercando di far cadere l’interlocutore in contraddizione. [ricostruzione della definizione a partire dal processo di divisione dell’idea di acquisizione, 264 e - 268 c]).

 

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[1] E = Essere, I = Intero, Uv= Uno vero, veramente tale, Uf = Uno falso, uno che è la somma delle sue parti

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