Il Sottosegretario all’istruzione ha enunciato un principio sacrosanto: “Tramandare il sapere è un privilegio, nonché il compito principale dei nostri docenti”. È cosa talmente evidente che sembra anche ovvia, ma questi sono evidentemente i tempi preconizzati da Chesterton nei quali “accenderemo fuochi per testimoniare che due più due fa quattro. Sguaineremo spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate…”. E infatti non appena Paola Frassinetti si è permessa di sostenere che due più due fa quattro, ecco il rappresentante ufficiale-ufficioso delle nuove pedagogie che interviene scandalizzato: “L’affermazione è azzardata ed eccessiva!”[1]. Di qui la profonda sentenza: “Se la scuola si limitasse a trasmettere il sapere esistente, ci sarebbe ben poco spazio per la creazione e invenzione di nuovi saperi e nuove conoscenze”. E poi la citazione dell’autorità con la solita frasetta sulla mente come fiaccola da accendere e non come vaso da riempire, che ha un profluvio di padri: da Plutarco a Montaigne, dalla Montessori a Edgar Morin (figlia di tutti e di nessuno, luogo comune, come dire: 'Non ci sono più le mezze stagioni; si stava meglio quando si stava peggio', etc.). E infine mancava l’uso retorico dell’etimologia: in-segnare significa lasciare il segno, non semplicemente consegnare qualcosa: “Il docente non si limita a trasmettere ma interviene in qualche misura sulla mente dell’alunno” che ne esce modificato. Niente a che vedere con un semplice travaso di conoscenze… gentile Sottosegretario, lei parla di pedagogia sapendo poco o nulla.
Cominciamo ora a mettere un po’ d’ordine
in quest’accozzaglia di pregiudizi di quella che io chiamo pedagogia-fuffa. Vediamo
anzitutto la coppia insegnare-consegnare: insegnare viene dal latino “insignare”
che significa imprimere, fissare un marchio o un sigillo; “consignare”
invece significa affidare, dare ad altri, porre sotto custodia. Si potrebbe
riflettere molto sull’intreccio, secondo me fecondo, tra fissare un sigillo e
affidare ad altri. Oppure si può fare della retorica, di segno esattamente
contrario a quella del pedagogista: se insegnare significa fissare, imprimere
nella mente e non affidare ad altri, è evidente che si tratta di un’operazione
forzata, dove si esprime un potere che fissa e una materia in cui si fissa:
come se fosse piantare un chiodo. È questo per voi l’insegnamento, cari
pedagoghi? Non l’affidare, cosa che implica il gesto umanissimo della fiducia e
della custodia, che può essere anche creativa come insegna la parabola dei
talenti, no, semplicemente piantare chiodi con il vostro martello autoritario?
Attenzione, dunque, chi di
etimologia ferisce, di etimologia perisce. Ma è solo retorica la mia
considerazione sulla vocazione in certo modo autoritaria delle nuove pedagogie,
o forse mantiene anche un carattere descrittivo? Quando, come abbiamo visto, si
parla di un intervento nella mente dell’alunno, qui non vi è solo l’idea che il sapere sia una costruzione, o co-costruzione, e un’invenzione
(cosa folle e stupida, il sapere ha uno status epistemologico che
pretende universalità e necessità e il cui orgoglio è sempre stato distinguersi
dalle invenzioni – nel senso comune e non etimologico - e dalle “costruzioni”
soggettive, para estetiche, bizzarre e originali: “Hypotheses non fingo”),
ma si adombra l’idea che la mente dell’alunno sia oggetto da manipolare e, appunto, “costruire”.
Bisogna “entrare nella mente dell’alunno”… cari colleghi docenti siete
diventati degli strizzacervelli che non devono offrire cultura, ma trasformare
le menti di chi vi sta di fronte. E come? Con le strategie, con le tattiche più
sottili e i metodi più articolati, con i test orientati e orientanti. Come dice
Rousseau, l’alunno deve fare quello che dite voi credendo che sia quello che
vuole lui. Trionfo della pedagogia, cioè, in definitiva, trionfo della
manipolazione.
E allora guai alla cultura
trasmissiva, alla tradizione e alla storia, perché ciò che è trasmesso e
affidato sedimenta, matura, fiorisce e rende la mente difficilmente
manipolabile. L’allievo bravo non lo sarà mai secondo le intenzioni del
maestro, perché non è stato da lui variamente manovrato, ma ha ricevuto ciò che
anche il maestro ha ricevuto e lo ha riletto nel suo mondo, con le proprie
intenzioni e categorie ermeneutiche, offrendo alla tradizione la potenza arricchente
e trasfigurante dell’interpretazione.
Si pensa sempre con la mente
degli altri, perché la tradizione degli altri ci offre l’orizzonte che si fonde
con il nostro e determina quell’approccio autentico e veritiero al mondo che
riconosce il compito infinito dell’approfondimento e il debito continuo che noi
abbiamo con chi ci ha preceduto.
Al contrario, c’è chi dice che
affidare una tradizione, consegnare nelle mani dell’alunno un patrimonio significherebbe
riempire un vaso. La pedagogia contemporanea ha scoperto l’insegnamento. Prima
si riempivano vasi, adesso sì che si insegna, ovvero "si accendono fiaccole". È evidente
che alla luce della storia quest’ennesimo artificio retorico si sgonfia miseramente.
Le autorità che vengono citate hanno bisogno di uno sfondo “mostruoso” dal
quale prendere le distanze, e producono il fantoccio ad hoc del “vaso
che viene riempito”, cosa che non è mai esistita laddove ci fu vero insegnamento,
e che invece emerge sempre quale sua parodia ingessata e polemica.
Il fatto è che la pedagogia-fuffa lungi dall’essere
semplicemente una disciplina elaborata da ignoranti che credono di insegnare e
invece figliano ignoranti, è bensì un congegno ben oliato in apposite officine universitarie (statunitensi). Il suo scopo è più ambizioso: grazie al feticcio delle
competenze – il famoso saper fare in cui la cultura diventa pretesto rapsodico
per “episodi di apprendimento” nei quali non si apprende nulla -, sfornare masse
ordinate e preparate per il sistema della produzione e dei consumi. Proprio
quando insiste sulla creatività, la soggettività dello studente, l’innovazione,
tacendo che sono fattori declinati in senso produttivistico, cioè che non sono
liberi ma funzioni di un sistema già predisposto, la suddetta pedagogia orwellianamente
significa proprio il loro contrario: staticità, omologazione, abitudine e
riproduzione dell’esistente.
Quindi è proprio quando millanta
le sue inquietanti innovazioni che la pedagogia ritorna su quell’esistente
liquido, gelatinoso, flaccido e putrescente del grande ospizio occidentale,
cioè di quella società dei serivizi e del godimento, che tutto accetta meno che
la critica, che tutto manipola, che tutto trasforma perché quest’attitudine all’umanità
dell’ultimo uomo rimanga inalterata.
La scuola dovrebbe obliare la
tradizione, che è l’unico esistente critico, perché produce distanziamento dal
presente e consuetudine con le grandi personalità del passato, per attenersi a
questa innovazione, che non fa altro che riprodurre ad infinitum il medesimo,
gabellandolo come inaudita novità (in effetti tutto è nuovo per chi non ha
storia)?
No, se esiste ancora un senso
della scuola, la risposta deve essere il più deciso “No!”. Nulla salus extra
traditionem, verrebbe da dire. Con una specificazione che ci aiuta a capire
meglio: come si fa a ricevere ciò che è stato trasmesso? L’operazione è lunga e
faticosa. Dobbiamo salire sulle spalle dei giganti, per poter vedere un po’ più
lontano. La scuola offre corde, scarpe chiodate ed esperienza per compiere tale
scalata, e ti dice che mentre stai salendo devi pensare di arrivare in cima,
non illudendoti che l’orizzonte che vedi dalla schiena, nuovo per te, sia
qualcosa di inaudito. Calma, per andare oltre ci sarà tempo!. Adesso devi
lavorare e impiegare i tuoi talenti per raggiungere la vetta. Le buone
disposizioni fioriranno in cima, se avrai compiuto il tuo percorso. Non credere
di poter scoprire alcunché adesso. Non credere di aver capito il mondo adesso.
Porta con te i tuoi progressi a semina per il futuro, quando la cultura ti avrà
permesso quell’acutezza di sguardo che ti metterà in grado di cogliere
veramente alcuni aspetti non ancora emersi di quella multiforme, infinita verità
verso cui devi sempre avere tensione, rispetto e soggezione.
La scuola non deve produrre
cioccolatai che han capito tutto a diciotto anni, e al più rientrano nella
categoria degli utili idioti che alimentano il conformismo sociale, ma deve sostenere
la consapevolezza che il lavoro della cultura e della vita è duro e il genio
non è nulla senza autocontrollo e disciplina. La scuola deve educare persone
che almeno sanno che sanno poco e devono imparare molto. Dal canto loro, i geni assoluti, che
sono pochissimi, fruiranno di una disciplina che avrà insegnato loro a realizzare
ciò di cui sono capaci, con l’umiltà del nano sulla spalla del gigante.
[1] Cfr. https://www.tecnicadellascuola.it/paola-frassinetti-insegnare-vuol-dire-tramandare-saperi-e-conoscenze-ma-e-davvero-cosi
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