Che cosa significa umanismo nel
dibattito filosofico contemporaneo? È possibile mantenere la parola come
qualcosa di significativo, oppure è necessario rivedere il concetto e la sua
storia per decidere un suo eventuale rifiuto? Queste sono le domande che stanno
alla base della riflessione di Heidegger nella sua Lettera sull’umanismo,
elaborata a partire dalle sollecitazioni provenienti dal dibattito francese e
giunta attraverso la mediazione di Jean Beaufret, destinatario della Lettera
stessa e interlocutore privilegiato del filosofo di Messkirch.
1) Agire e pensare
"Dal giorno in cui la ricerca marxista
assumerà la dimensione umana (cioè il progetto esistenziale) come fondamento
del sapere antropologico, l'esistenzialismo non avrà più ragione d'essere:
assorbito, superato e conservato dal momento totalizzante della filosofia,
cesserà di essere un'indagine particolare per diventare il fondamento di ogni
indagine" (1). Ecco l'esistenzialismo come fondamento umano-umanistico del
marxismo. Umanismo, marxismo ed esistenzialismo vanno di pari passo nella
concezione sartriana, secondo la quale, conseguentemente, assume particolare
rilievo la "filosofia della prassi": "Ogni filosofia è pratica,
anche quella che sembra a tutta prima la più contemplativa; il metodo è un'arma
sociale e politica..." (2). Il sapere è ciò che viene elaborato per
mettere i fatti in una relazione significativa (momento totalizzante della
filosofia) che permetta di modificare le condizioni materiali e concrete
dell'esistenza, che stanno alla base dell'alienazione dell'uomo. Nell'emancipazione
come emancipazione dei soggetti umani reali e concreti vuole identificarsi
l'umanismo di Sartre, ed emancipazione significa soprattutto guadagno
dell'autentica dimensione umana, che è una dimensione di libertà intesa come
facoltà di agire nel mondo attraverso un proprio progetto esistenziale, in modo
che "cercando fuori di sé uno scopo - che è quella liberazione, quell’attuazione
particolare - l'uomo si realizzerà precisamente come umano" (3). Il
pensiero è lo strumento di siffatta realizzazione e di conseguenza diventa
esclusivamente riflessione in vista di e sull'azione (nel caso di Sartre,
azione liberatrice). Tale problematica viene ampiamente discussa nel dopoguerra
in Francia e costituisce, come già detto, il bersaglio ideale della Lettera heideggeriana.
Heidegger ci dice subito, in una netta presa di distanza dalle posizioni
sartriane, che il pensiero non può essere pensiero della prassi perché pensare
è già agire, non però nel senso di una identità ottenuta dialetticamente, ma a
partire da una prospettiva ontologica. Laddove, infatti, il pensiero pensa ciò
che gli compete, si colloca nella verità dell'essere e la verità è superiore a
qualsiasi produzione di effetti: in tale ottica perde senso ogni distinzione
tra teoria e prassi. Queste ultime sono il retaggio di un "pensiero inteso
come techne, come procedimento del riflettere al servizio del fare e del
produrre" (4) che perde di vista l'essenziale. L'essenziale non è
l'esistenza come atto di esistere che precede il concetto che se ne ha
(essenza), ma, al contrario di Sartre, il riferimento ontologico - "La
stessa cosa è, infatti, pensare ed essere" -, perso il quale, al pensiero
non resta che la disperata ricerca di autonomia rispetto alle scienze pratiche,
la cui importanza invece aumenta progressivamente. È così che di fronte alla praxis
il pensiero si giustifica come teoria, cioè come pura e disincarnata
contemplazione. In ciò consiste la sua decadenza e il suo venir meno di fronte
alla sempre più dilagante invadenza del sapere scientifico.
2) L'elemento del pensiero
L'essere è, da quanto sopra detto, l'elemento
del pensiero, "ciò in base a cui un pensiero può essere un pensiero";
"l'essere può il pensiero", è il potere che volendo bene
fa essere il pensiero, "l'essere è il potere del voler bene"
(270-271). Così Heidegger connota il rapporto tra pensiero ed essere: l'essere è
ciò che nel pensiero è primario perché ne dispiega l'essenza, la provenienza
originaria, la verità. Il potere dell’essere sul pensiero è il fatto che nel
nulla non si pensa. Questo potere agisce come un "voler bene".
L'immagine del voler bene, del prendersi a cuore, è usata per
caratterizzare l'azione dell'essere sul pensiero: da parte dell'essere il dono,
il permettere, la compartecipazione, la benevolenza danno l'idea di come arriva
a intendersi il reciproco rapportarsi di pensiero ed essere. Si tratta di un
legame non meccanico, che va al di là delle possibilità di descrizione logica,
e che nella sua profondità può essere reso solo mediante una metafora
sentimentale che significa indissolubile attaccamento e radicale reciprocità.
Si pensa nel quadro dell’ “è” della realtà, cioè dentro una matrice originaria
di senso che avvolge tutte le cose e le rende disponibili ad essere pensate
nella loro verità. Questa è d’altro canto pienamente dispiegata solo nel
pensiero che la pensa, poiché non c’è senso d’essere se non nell’accoglienza
che il pensiero ne produce.
3) Pensiero e linguaggio
Quando il pensiero perde il proprio elemento
e diventa techne, si determina una parallela degenerazione del
linguaggio. Che cos'è il linguaggio originariamente? Esso è la "casa
dell'essere" e i poeti e i pensatori ne sono i custodi perché con il loro
dire né "portano a compimento la manifestatività" (268). Nel
linguaggio è detto l'essere e tale manifestarsi dell'essere nella parola è ciò
che va mantenuto. Come? Nella custodia, appunto, che ne fanno i poeti e i
pensatori, dove il pensiero dell'essere diviene parola dell'essere, dove la
parola dice “gli aspetti del cielo in modo da adattarsi alle sue apparenze come
all’estraneo in cui il Dio sconosciuto si trasmette” (4.2). La poesia non è un
linguaggio che calcola, il suo “prendere misure”, riguarda una diversa
profondità, la sua è “un’architettonica del cielo” (4.3), il cui modello è un
senso che affiora nell’allusività di immagini inaudite, che attingono a una
sfera preclusa alle formule predefinite e alle semplici descrizioni
superficiali. Chi fa poesia, quindi pensa in modo speciale, perché si pone in
ascolto di quella verità “sconosciuta” dell’essere che è l’unico oggetto
veramente degno dell’uomo.
Ma se
il pensiero perde l'essere, il linguaggio non riesce più a dirlo, cadendo sotto
"la dittatura della dimensione pubblica" e divenendo "funzione
mediatrice delle vie di comunicazione" (271). Ciò significa che il
linguaggio assume un carattere strumentale, diventa una retorica che è
funzionale a qualcos'altro, in questo caso alla comunicazione, alla mediazione
di messaggi e alla comprensione: un comunicare come trasmettersi le nozioni
necessarie a concertare le forze per dominare dispoticamente il reale, un
comprendere che vuole instaurare un dominio sulle cose per renderle disponibili
all'impiego. Insomma, il linguaggio qui spiega, fonda sistemi causali, permette
di utilizzare le cose per gli scopi più disparati, ma non dice più la verità.
Ecco allora la necessità per Heidegger di riguadagnare un silenzio terribile
dignità al linguaggio perché "prima di parlare l'uomo deve innanzitutto
lasciarsi reclamare dall'essere, col pericolo che sotto questo reclamo abbia
poco o raramente qualcosa da dire" (273). Di fronte all’inondazione di
parole a cui la modernità ci ha abituati, a una percezione di insignificanza e
di dispersione che tale abbondanza spropositata ci suggerisce, al volgare e al
dire-fuori-luogo proprio dei media che della parola fanno lo strumento dell’umana
volontà di potenza, di fronte a tutto ciò Heidegger ci invita a una nuova
regola del silenzio che ci abitui a "esistere nell'assenza di nomi"
(273) perché solo così si può ritrovare la vicinanza dell'essere: quando la
verità dell'essere giungerà al linguaggio, il pensiero perverrà a questo
linguaggio "forse allora il linguaggio richiederà più che il precipitoso
enunciare, il giusto silenzio" (296).
4) Umanismo e umanità dell'uomo
Dal discorso filosofico di Heidegger emerge
una sostanziale preoccupazione per l'uomo e la sua umanità. Se per umanismo,
infatti, si intende lo sforzo di ricondurre l'uomo alla sua essenza che è la
"vicinanza dell'essere", allora anche il suo pensiero si può
chiamare, e a buon diritto, umanismo. Nella storia del concetto vi è
però sempre stata l'idea che l'umanità dell'uomo fosse stabilita in base a un'interpretazione
dell'ente che finiva per perdere di vista l'essere e la sua verità, e ciò è
ravvisabile anzitutto nell'interpretazione dell'uomo come animal rationale.
Se concepiamo l'uomo come colui che all'interno del genere animale si
differenzia mediante la differenza specifica razionale, noi rimaniamo
sempre e comunque all'interno di un universale logico connotato dall' animalitas.
L'uomo come animale razionale è sempre animal, anche se rationale,
e con ciò non ci si interroga su come invece "l'essenza dell'uomo
appartenga alla verità dell'essere" (276). "La metafisica - che
elabora la suddetta interpretazione umanistica dell'uomo, n.d.r. - si chiude di
fronte al semplice fatto essenziale che l'uomo si dispiega solo nella sua
essenza in quanto chiamato dall'essere" (277). Ciò che distingue l'uomo
non è una differenza specifica ma una differenza ontologica. L'uomo abita la
casa dell'essere (che, come abbiamo visto, è il linguaggio che dice l'essere)
ed è pertanto aperto alla sua verità: ciò lo caratterizza in maniera totale e
lo rende qualcosa di assolutamente diverso dagli altri viventi e dagli enti in
generale. In Essere e tempo, Heidegger aveva sottolineato che il Dasein
(l’Esserci, ossia l’uomo) si caratterizzava come l'ente che si pone la domanda
sull'essere. Non lo caratterizzava, dunque, un rapporto interno alle
articolazioni della totalità degli enti, una collocazione interna a una
totalità di cose, dentro la quale si ritroverebbe in un certo luogo la
cosa-uomo, bensì il rapporto intimo che l'uomo, di là da ogni sua collocazione
ontica, ritrova attraverso la domanda sul senso complessivo della realtà. Tale
domanda lo apre alla realtà stessa e, saltando ogni mediazione, ne esprime il
connotato distintivo rispetto a tutto il resto degli oggetti che appartengono
al mondo. Questo è il valore dell'uomo, certamente superiore a quello di un
ente animato, pur nobilitato dal possesso della ragione.
5) L'esistenza dell'uomo
Dire che l'uomo è
originariamente aperto alla verità dell'essere vuole significare che l'uomo e-siste.
Ek-sistere è stare fuori, precisamente hinaustehen, dice
Heidegger, ossia "stare-fuori-verso". Verso che cosa l'uomo sta
fuori? Verso la verità dell'essere. Questa è l'essenza. L'essenza è, cioè, la
sua e-sistenza, non però pensata
secondo lo schema metafisico di una realtà, appunto esistente, in
contrapposizione a una semplice possibilità, non ancora esistente, e nemmeno
classicamente, come realizzazione nel mondo reale di una essenza solo pensata:
bisogna uscire da quegli ambiti dottrinali che non esperiscono la verità
dell'essere e rimangono su un piano puramente esistentivo (come il termine ontico,
contrapposto a ontologico, allude alla differenza tra ciò che riguarda
semplicemente gli enti e ciò che attiene invece al senso generale dell'essere,
il termine esistentivo si riferisce a un modo di esistere superficiale e comune
che riguarda il semplice appartenere al mondo degli enti che occupano un certo
ambiente, di contro a esistenziale che si connette invece al senso
profondo del vivere che proviene da un rapporto con l'essere e la sua verità).
Se si guarda al contrario all'uomo, avendo in vista la dimensione dell'essere,
cioè sotto il profilo esistenziale, si capisce come "l'essenza si
determina non più in base all'esse essentiae o all'esse existentiae,
ma in base all’estaticità dell'Esserci", cioè al fatto che la vita
dell'uomo (Esserci) è dislocata verso la verità complessiva dell'essere, è una
vita pensante e problematizzante, che non può fare a meno di domandarsi
"perché?" e "che significa tutto ciò?". Dunque, "come
esistente, l'uomo sopporta l'esserci - cioè il trovarsi a vivere in un certo
mondo, domandandosi il perché, n.d.r. - assumendo nella sua cura - in questa
sua preoccupazione per la totalità del reale, n.d.r. - il "ci" - cioè il mondo in cui si
trova ad essere l'uomo, n.d.r. - come
radura dell'essere - ovvero come il
luogo illuminato dal senso della verità delle cose, una radura, cioè la parte
luminosa di un bosco che per il resto rimane nell'oscurità, e che però di volta
in volta, mediante la domanda umana e l'ascolto della verità che proviene dal
nostro interagire con gli enti, parzialmente si illumina e ci dice qualcosa di
significativo riguardo alla nostra vita, n.d.r. - L'Esserci, a sua volta, è in quanto gettato
- gettatezza significa quel
trovarsi a vivere in un mondo, quel puro “che c’è e ha da essere”, quell’”effettività dell’essere consegnato” a
un mondo in cui “il donde e il dove rimangono
[…] nascosti” (4.3), n.d.r. - . Esso è nel getto dell'essere come
destino destinante" (280). In questa complicata frase, che già abbiamo
interpolato con qualche piccola glossa, compaiono parole e concetti importanti
per una chiarificazione del significato dell'e-sistenza. L'Esserci-uomo è
estatico, cioè sta fuori (ek-siste) nel "ci", nel mondo, che è
radura dell'essere ossia luogo in cui l'essere avviene nella sua
verità, che si disvela luminosamente. A sua volta l'Esserci-uomo è gettato
nella radura dell'essere dall'essere, è l'essere stesso che invia, destina l’uomo
nella radura, laddove il bosco della realtà si dirada, disvelandosi nella sua
verità: l'essenza-esistenza dell'uomo sta proprio in questo invio dell'essere.
La coincidenza dei due termini di essenza ed esistenza e la riduzione dell'uno
all'altro non sono perciò pensati in maniera tradizionale ponendo a proprio
piacimento l'accento di volta in volta sul concetto (essenza) o sulla realtà
concreta (esistenza), ma vengono indagati da una prospettiva ontologica per la
quale il riferimento all'essere rende inservibili le categorie metafisiche di
idealismo e di empirismo. È qui ben visibile il distacco dalle posizioni
esistenzialiste e in particolare all'esistenzialismo sartriano che, pur
ribaltando la concezione classica della precedenza dell'essenza sull'esistenza,
ne resta sempre prigioniero perché pensa i due termini metafisicamente e il
"rovesciamento di una tesi metafisica rimane una tesi metafisica"
(281). Il punto per Heidegger sta nel pensare, quando si rivolge l'attenzione
all'uomo, la dimensione della verità dell'essere che vi appare e, pensandola,
egli arriva a stabilire che cosa sia l'esistenza senza cadere
nell'esistenzialismo: "Così nella determinazione dell'umanità dell'uomo
come e-sistenza ciò che importa è che l'essenziale non sia l'uomo ma l’essere
come dimensione delle estaticità dell'esistenza" stessa (287). La visione
heideggeriana è ontocentrica, quella sartriana è antropocentrica, e infatti
alla frase di Sartre: "Noi siamo su un piano in cui si danno solamente gli
uomini", Heidegger sostituisce coerentemente l'espressione: "Noi
siamo su un piano in cui si dà principalmente l'essere" (287).
6) L'essere
Con l'entrata nella tematica propria
dell'essere, giungiamo al centro della problematica heideggeriana. "Che
cos'è l'essere?" si domanda Heidegger, recependo duemila anni di
riflessione filosofica occidentale. Nela risposta egli applica la fondamentale
scoperta della differenza tra essere niente. L'essere viene distinto
ontologicamente da ciò-che-è, l’ente, cosa che la metafisica non ha mai
fatto, ci spiega Umberto Galimberti, perché "ha sempre pensato l'essere
come semplice presenza dell’ente" (5), trattandolo "come l'identico
all'ente, come il carattere comune di tutti gli enti (ad esempio l'idea
platonica, intesa come il permanere nel divenire, n.d.r.) e quindi come un
concetto generalissimo che troverà la sua verificazione nella risoluzione
hegeliana dell'essere nel nulla e nella riduzione nietzschiana dell'essere a
'ultimo fumo della realtà che svanisce’" (6). L'essere, pertanto, non è
l'ente anche se è solo nell'ente e traspare attraverso l’ente.
Ciò vuol dire che solo nella presenza dell'ente noi esperiamo l'essere, ma che
se vogliamo esperirne la verità, dobbiamo andare oltre questa presenza verso
ciò che nell'ente si dà come essere: non una cosa che produce e causa
un'altra cosa bensì un significato totale che sta dietro a una presenza
parziale. Ma se noi abbiamo l'essere solo nell'ente, ci si può chiedere con
Adorno "che cosa denoti l'essere a differenza dell’ente" (7). Questa
domanda, direbbe forse Heidegger, mostra una volontà di definizione dell'essere
che ci riporta in un ambito metafisico perché vuole comprenderlo a partire da
altro - come fa chiunque definisca qualcosa - inserendolo in un genus
proximum e aggiungendovi una differentia specifica. L'essere,
viceversa, e ciò che si comprende solo partire da sé, una sfera ben rotonda di
significati che intensamente sono, si propongono e si manifestano, a partire
dalla quale si può intendere tutto il resto. Per questo alla domanda: "Che
cos'è l'essere?" Heidegger risponde: "L'essere è se stesso",
perché non può essere ulteriormente determinato, essendo un'assoluta identità
attivamente significante e non passivamente oggetto di definizione, a
differenza degli enti che sono sempre qualcosa, ossia passivo oggetto di
predicazione nella relazione che intrattengono con altri enti. Perché allora
l'uomo è in grado di parlare dell'essere? Perché secondo Heidegger l'essere è
vicino, l'essere "è la semplice vicinanza di un dominare non
invadente" (286) e tale vicinanza è data dal e nel linguaggio, "casa
dell'essere", e "dimora dell'uomo". L'essere e l'uomo coabitano
nel linguaggio il quale, è bene ricordarlo, non preesiste e non è una funzione
dell'uomo - lo è solamente nella sua dimensione ontica, logica, apofantica e
predicativa di descrizione scientifico causale dell'ente, il linguaggio
idealizzato dai neopositivisti, tanto per capirci -, ma è "fatto avvenire
e disposto dall'essere" (286), così che l'uomo non lo usa, ma appunto lo
abita, vi è da sempre immerso come in ciò che gli è proprio e che tuttavia non
ha costruito lui. Perciò l'uomo, aperto alla verità dell'essere nel linguaggio,
è in grado di dire come essa "avvenga", si offra allo sguardo e al
pensiero; è capace di parlare del suo manifestarsi e al tempo stesso
nascondersi, perché nulla nell'essere è chiaro come un fatto positivo e come
una formula acclarata e stabile ma è bensì circonfuso di una caligine
difficilmente penetrabile e si offre solo in improvvise e chiaroscurali
illuminazioni.
Ciò comunque permette
all'uomo, aperto alla verità dell'essere nel linguaggio, di dire come essa
avvenga, di parlare del suo manifestarsi e nascondersi e di come egli stesso
venga coinvolto nel destino di questa dialettica. Heidegger ce ne parla anche
sulla scorta della tradizione che proviene da un grande sapiente di Grecia, Parmenide.
Costui disse: "Ésti gar èinai", "È infatti
l'essere", ma la sua espressione può essere oggi fonte di ambiguità perché
"abitualmente l' ‘è' viene detto di qualcosa-che-è. Questo qualcosa noi lo
chiamiamo ente. Ma l’essere non è l'ente" (288). Dire che l'essere
"è" conduce oggi ha il dimenticarsi ancora di ciò che permette il
riconoscimento dell'essere, ossia della differenza ontologica che lo qualifica
come altro rispetto all'ente (o meglio che rende l'altro - l'ente - altro
rispetto allo stesso - l'essere). Quindi, in attesa che l'"è"
dell'essere sia pensato nella sua verità, Heidegger usa provvisoriamente
l'espressione "si dà". L'essere si offre allo sguardo comprensivo di
chi si interroga e lo interroga, ponendosi in un atteggiamento ricettivo e
"grato", ponendosi in quell'ottica antica della meraviglia e
dell'ascolto umile e, vorremmo dire, eucaristico. L'essere che si dà è dono da
accogliere e mentre viene accolto, illumina e apre orizzonti, di là dalla
presenza impositiva dell'ente come oggetto e come cosa. Tuttavia, pure il
"si dà" non è usato casualmente: "Esso - sostiene Heidegger -
domina come il destino dell'essere" (288). Il fatto che "si dà all'essere"
è, dono cioè invio dell'essere. Questo si destina, si invia, storicamente e la
storia è identificata proprio dall'inviarsi dell'essere. Come si dà l'essere
nella storia? Si dà come radura, come diradamento della sua verità: la sua
verità viene alla luce, emerge dall'oscurità, ma nella radura l'essere si dà e
contemporaneamente si nega. Ciò conduce a dire che il darsi dell'essere
"pensato come destino" e un darsi e negarsi, cioè che nel darsi
storico dell'essere, l'essere può rimanere nascosto, cosa che si è precisamente
verificata nella storia della metafisica con l'oblio della differenza
ontologica. Come viene coinvolto l'uomo del destino dell'essere? L'essere si
trasmette all'uomo nella radura, cioè nello stesso luogo dove esso si apre
nella sua verità e dove d'altro canto l'uomo viene da esso gettato: l'essere
dell'uomo nella radura è il "ci" dell'Esserci umano: nel
"ci" l'essere si dà all'uomo e l'uomo è destinato dall'essere. Così
essi si co-appartengono originariamente. L'uomo è per essenza l'apertura al
senso dell'essere, l'essere è per essenza offerta alla comprensione da parte
dell'uomo.
6.1) L'essere come patria
L'uomo come e-sistente
abita nella radura dell'essere che è il "ci" dell'Esserci. In tale
senso viene chiarito il concetto di vicinanza dell'essere all'uomo. La
vicinanza dell'essere appartiene all'uomo e l'uomo vi si riferisce come alla
sua patria. L'idea di patria ha qui un fondamento ontologico in rapporto con la
sua più profonda identità. Se l'uomo perde la patria, smarrisce il motivo della
sua originaria vicinanza all'essere, il suo originario di essenziale
radicamento. La condizione che ne risulta è quello della spaesatezza (Heimatlosigkeit,
290-291). Essa "è il segno dell'oblio dell'essere" che diviene
"destino mondiale" (292) ed elemento distintivo dell'uomo nel periodo
storico della contemporaneità. Ciò perché è lo stesso essere che destina la spaesatezza
storicamente come sua verità e nel suo destino l'uomo è sempre coinvolto. Tutto
proviene dall'essere, anche il suo oblio metafisico, che genera spaesatezza, è
un destino-invio dell'essere. L'essere può inviarsi e destinarsi come obliato e
nascosto o come manifestato e rivelato. Ciò significa che da un lato l'errare
dell'oblio è sempre suscettibile di essere pensato e il sentiero della verità è
pur sempre rinvenibile in mezzo agli sviamenti dell'errore; dall'altro che la
radura che manifesta la reciproca appartenenza dell'uomo e della verità
dell'essere non implica che tale verità sia un possesso definitivo o un
patrimonio completamente disponibile. Nella spaesatezza si può incontrare la
verità, perché la spaesatezza viene dalla verità, e dalla verità si può scadere
nell'oblio e nell'oscura dimenticanza. Anche, per esempio, l'inquietante
fenomeno della tecnica contemporanea, che Heidegger affronterà nel breve e
importante testo La questione della tecnica, "nella sua essenza è
un destino, nella storia dell'essere, della verità dell'essere che riposa
nell'oblio", 293). Ritornare alla patria vuol dire ritrovare una via verso
il disvelamento della verità dell'essere: "Di fronte all'essenziale
spaesatezza, il futuro destino dell'uomo si mostra al pensiero che pensa la
storia dell'essere nel fatto che egli trovi una via verso la verità dell'essere
e si metta in cammino verso questa scoperta" (294), la scoperta di una
nuova patria, oltre quella posticcia fornita dalle ideologie del Novecento (la
Nazione, la Classe, l'Umanità), nessuna delle quali riesce ad emanciparsi dal
sostanziale nichilismo della metafisica, cioè dal nulla di un oblio della
verità inconsapevole di sé e della sua dispersione.
6.2) Essere e Dio
In generale il pensiero di Heidegger è
percorso da un continuo confronto con la riflessione cristiana e
cristiano-tomistica, un po' per il suo curriculum di studioso che lo ha
visto spesso volentieri impegnato con autori cristiani (Duns Scoto, per
esempio), un po' per la coscienza che l'uscita dalla metafisica occidentale,
meta agognata che permetterebbe il disvelamento dell'essere nella sua verità,
non può che prendere le mosse dal riconoscimento e dall'assunzione di questa
tradizione come condizione necessaria per il suo stesso oltrepassamento. E
questa tradizione è tradizione cristiana.
In particolare, nella Lettera
sull'umanismo ricorre il riferimento a Dio o al cristianesimo in occasioni
diverse e relativamente a differenti argomenti (almeno otto volte, cfr. pp.
273, 274, 280, 284, 291, 299, 301-302-303, 306). Nell'ambito di tali
riferimenti, Heidegger si trova ad affrontare il problema più importante: il
rapporto tra la sua idea di essere, l'idea di Dio e il suo esserci (cfr.
284). Se presso gli autori cristiani è immediata l'identificazione di Dio con
l'essere (obliato e scambiato con l'ente massimo, secondo Heidegger), per il
filosofo tedesco essa è da respingere nella maniera più assoluta: "Essere
non è né Dio, né un fondamento del mondo" (284). Se Dio non è essere,
viene da pensare che la filosofia heideggeriana tenda a negarne totalmente
l'esistenza, fatto che sarebbe confermato, a partire da Essere tempo,
dalla determinazione radicalmente secolarizzata dell'uomo come
essere-nel-mondo. Ma proprio qui interviene Heidegger dicendo che con
essere-nel-mondo non si intende affatto "l’ente terreno in
contrapposizione a quello celeste, né il 'mondano' in opposizione allo
'spirituale'" (301), bensì l'apertura dell'Esserci alla totalità
dell'essere. Di conseguenza con questa definizione dell'uomo "nulla è
ancora deciso circa l'esserci di Dio o il suo non essere" (302). Questa
non decisione circa la realtà di Dio non vuol tuttavia dire indifferenza o
presuntuosa noncuranza, ma vuole rimandare a qualcosa di essenziale, al fatto
cioè che "solo a partire dalla verità dell'essere si può pensare
all'essenza del sacro. Solo a partire dall'essenza del sacro si può pensare
l'essenza della divinità. Solo alla luce dell'essenza della divinità si può
pensare e dire che cosa debba nominare Dio" (303). In sostanza anche qui
Dio, che non è essere, va pensato a partire dalla verità dell'essere. Nella
"gerarchia celeste" di Heidegger al vertice si trova il sacro, la cui
essenza è donata dall'essere; esso determina lo spazio della divinità, che a
sua volta stabilisce al terzo livello la realtà di Dio (cfr. 291). Il distacco
dalla metafisica cristiana risulta netto quando si pensi invece alla
gerarchizzazione che essa opera nel momento in cui pone Dio al vertice, che
determina lo spazio della divinità, al cui interno si colloca come terzo
elemento il sacro. Tutto nel cristianesimo dipende da Dio come essere
sussistente. Il punto discriminante è esattamente quest'ultimo. "Dice
Heidegger: 'Essente è una roccia, un animale, un'opera d'arte, una macchina, un
angelo, Dio'. Perciò Dio non cade affatto al di fuori dell'essere, ma viene
anch'egli contenuto in esso, è anche egli uno dei molti essenti che poggiano
nell'essere uno ... Dio non 'è' nel pieno senso della parola ma viene posto per
diminuzione dell' 'essere stesso'" (8). Johannes Lotz, allievo di
Heidegger, da tutto ciò trae la logica conclusione che il modo heideggeriano di
pensare Dio è singolarmente vicino a quanto dal nostro filosofo è attribuito
alla metafisica: "Entrambi modi di pensare concordano nel fatto di vedere
Dio come essente" (9), infatti anche per la metafisica Dio è "l'ente
sommo, l'ente sopra sensibile", ma pur sempre ente. "Chi prende
seriamente l'imbarazzo che ne consegue 'preferisce oggi tacere su Dio
nell'ambito del pensiero'" (10).
7) Fraintendimenti sull'umanismo
Già altrove si è visto che per Heidegger
umanismo vuol dire, nel significato più immediato, valorizzazione dell'uomo.
Ora, se questo è vero, è altresì vero che la preoccupazione principale di una
dottrina umanistica deve essere diretta al ritrovamento della più profonda
dignità umana. Ma essa sta sicuramente nel fatto che nell'uomo, come più volte
ribadito, ciò che conta non è l'uomo stesso, ma la verità dell'essere che ne
governa l'essenza. Così "l'uomo non è (più) il padrone dell'ente"
(295), dominatore della realtà esistente, ma è "pastore dell'essere",
vicino dell'essere e suo custode. Nella perdita del potere sul mondo, l'uomo
"non perde nulla, anzi ci guadagna in quanto perviene alla verità
dell'essere" (295). L'idea di umanismo qui presentata si oppone all'idea
corrente che considera l'uomo onticamente al centro dell'universo e assoluto
signore del reale. Tale dottrina poggia su una modalità di pensiero che,
nell'attenzione alla coerenza formale dell'interpretazione dell'ente volta al
suo dominio, perde di vista l'essere come suo elemento. Questa modalità è la
logica, cioè la tradizione di quella disciplina che vigila sul rispetto dei
principi di identità, non contraddizione, terzo escluso e che determina le
regole della predicazione e della deduzione come condizioni di ogni approccio a
una descrizione del reale che sia dotata di senso. La disciplina logica che
regola il discorso apofantico inteso a restituire per mezzo del pensiero lo
stato delle cose, ha sorretto le espressioni principali del discorso filosofico
occidentale, fino alle sue ultime propaggini scientifico-tecnologiche. Essa ha
attraversato la nostra storia, come storia dell’oblio dell’essere, e ha
costruito un discorso dal quale è scaturita la civiltà occidentale e che la
storia della civiltà occidentale ha legittimato come il proprio sostrato
ideologico e spirituale. Perciò Heidegger riconosce che la logica ha permesso
di costruire un apparato concettuale che fino ad ora ha fondato la civile
convivenza degli uomini e, in certa misura, pur nell'oblio della Verità, li ha
preservati da forme più radicali di nichilismo (perché, lo sappiamo, l'oblio
della verità è comunque un darsi della verità in quanto obliata). Il filosofo
tedesco nega, pertanto, che contestare quella visione del mondo
"logica", porti alla pura e completa negazione di ciò che essa ha
costruito nei secoli, come se tutto quel che, in termini aristotelici, è l'opposto
della visione del mondo “logico” debba essere il suo contrario
assolutamente negativo. Se questa è l'alternativa - dice Heidegger - non ci si
può nemmeno più interrogare sul positivo della logica senza cadere nel
nichilismo, perché ciò equivarrebbe a metterlo in discussione e con ciò a
evidenziarne le definizioni troppo ristrette ed i limiti angusti. Il risultato sarebbe
che pure detto positivo rimarrebbe non pensato. Ecco perché con la
logica muore il pensiero ed è impedito lo sguardo da una "prospettiva
libera" su qualcos'altro che non sia il "positivo"
preventivamente deciso e apoditticamente assunto. L'atteggiamento che ne deriva
è quello della condanna di chi dal punto di vista del "vero è più radicale
umanismo" si allontana dalla dottrina dai valori propri
dell'"umanismo logico": chi mette in dubbio la validità della logica
è un irrazionalista; chi ha qualche perplessità sui cosiddetti valori è
immorale; chi contesta anche parzialmente Dio è un ateo; tutti infine sono
nichilisti irresponsabili. Le suddette accuse si fanno spazio grazie
all'inconsapevolezza del fatto che in realtà l'obiettivo di coloro che vengono
così biasimati è di arrivare, attraverso il pensiero, a una rifondazione del
pensare, dell'etica, della religione, per far loro assumere una dignità
autenticamente sgorgante dalla verità dell'essere che l'uomo esperisce in
quanto e-sistente. Non la morte della logica, dunque, ma il superamento delle
sue limitatezze formali e della sua strisciante volontà di potenza, sono
indicati da Heidegger come la condizione e al tempo stesso l’espressione di una
più vasta pienezza di pensiero, che ai puri aspetti meccanicistici e
utilitaristici del ragionare opponga l’autenticità palingenetica e liberante di
una profonda vocazione ontologica. Solo di qui sgorgherà un umanismo parimenti
autentico.
8) La nuova etica
Se il vero umanismo ha una radice ontologica,
sarà allora necessario completare l'ontologia con un'etica, affiancando al
"tu sei" dell'uomo un "tu devi" fondato
sull'identificazione di un "bene". Heidegger in questo campo non
vuole essere meno rivoluzionario che in quello ontologico: fatta salva
l'esigenza "pensata in modo originario" di trarre dalla conoscenza
dell'essenza dell' humanitas "delle indicazioni per la vita attiva
da dare a quest'ultima" (309), egli ci avverte che il pensiero che
"domanda della verità dell'essere... non è né etica, né ontologia"
(308). Perché? Perché etica e ontologia sono disciplina frutto di una
riflessione che, lontana dal suo elemento e posta in una sorta di esilio logico,
si volge a sezionare il pensiero per farlo rientrare in un sistema di
spiegazioni e fondazioni: il fine, si ribadisce, è il dominio dell'ente, la
conseguenza è l'oblio dell' aletheuein, cioè del disvelarsi della
verità, sostituito dal tentativo di com-prendere, di oggettivare, di calcolare.
I pensatori iniziali, invece, "non conoscevano né una logica, né un'etica,
né una fisica ... essi pensavano invece la physis con una profondità e
un'ampiezza mai più raggiunte" (305). E, così come la physis,
pensavano l'ethos nella sua verità, senza bisogno di un'etica.
Illuminante, infatti, per la comprensione del significato originario di etica
è l'espressione di Eraclito: "Éthos anthròpo dàimon" che,
tradotto correttamente, suona: "Il soggiorno (ethos) è per l'uomo
il dio (daimon)", e cioè:" L'uomo in quanto uomo abita nella
vicinanza di Dio" (306). Ethos indica qui il luogo dell'apertura
dell'essere, luogo dove l'uomo abita gettatovi dall'essere stesso. "Ora,
se in conformità al significato fondamentale della parola ethos, il
termine etica vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno
dell'uomo, allora il pensiero che pensa alla verità dell'essere come elemento
iniziale dell'uomo in quanto esistente è già l'etica originaria"
(307-308). Ethos, quindi, come vicinanza dell'essere: l'ancoraggio è di
nuovo all'essere e con esso viene scavalcata la distinzione tra etica e
ontologia. Non c'è un "tu devi" differente da un "tu sei"
perché "più essenziale di ogni fissazione di regole è che l'uomo trovi
soggiorno nella verità dell'essere" (312) da dove, a guisa di
un'assegnazione, proviene la regola in quanto consegna dell'essere (legge
infatti deriva da nemein che vuol dire assegnare e dispiega il
suo senso come "assegnazione dell'essere"). Con ciò viene soddisfatta
l'esigenza di trovare il modello di una condotta in un'epoca che ha smarrito il
significato dell'agire. L'agire trova precisamente la sua pienezza solo nella sfera
dell'essere, nella quale di volta in volta siamo portati da un pensiero rammemorante.
Il pensiero, in quanto viene al linguaggio, dice l'essere, in quanto ci conduce
nella casa dell'essere rammemorandoci che quella è anche la nostra dimora, si
identifica con l'agire, ma un agire che non aspira a un risultato pratico,
trovando bensì il suo unico nutrimento e la sua unica "finalità"
nell'essere e nella sua verità. Etica, pertanto, non vi può essere se non c'è
sguardo all'essere e alla verità, poiché la verità dell'essere è "il
sostegno per ogni contegno" (312). Se nell'agire è la verità a dover venir
salvaguardata, è "inutile" un pensiero che pensi l'agire, diverso dal
pensiero della verità, e ciò fa venir meno la necessità di tutte le filosofie
della prassi. Il discorso ontologico è ipso facto etico, e annulla
l’etica nella sua autonomia, in modo specularmente inverso a quanto aveva fatto
Kant, che aveva annullano l’onto-teologia nell’etica. Se vogliamo, mentre con
Kant l’esito è il suo rigorismo morale costruito attorno al fatto di ragione, quello
stesso che assorbe con la sua normatività ogni forma di pensiero e di
esperienza dell’essere, con Heidegger si produce una sorta di misticismo
dell’essere e una specie di intuizionismo etico che discende direttamente dal
rapporto del soggetto storico con la chiamata destinante della Verità, la quale
a sua volta non si fenomenizza se non nel linguaggio rammemorante del pensiero
e della poesia. All’autonomia kantiana della ragione e dell’imperativo, viene
contrapposta l’autonomia e l’autonormatività dell’essere, che non prende la
forma di un imperativo del dovere, ma di una risposta alle sfide della
storia-destinale, pensate mediante un percorso che attraversa le epoche del
pensiero, e poggianti su un assoluto in sé indicibile e inesprimibile. Appunto
una mistica dell’azione guidata dall’intuizione di un destino che riposa nel
pleroma dell’essere, circonfuso di insuperabile e inoggettivabile oscurità e
tuttavia suscettibile di essere parizalmente colto nel luogo della sua radura.
Siamo agli opposti anche dell’esistenzialismo sartriano che finisce per
produrre un’etica del tutto secolarizzata nelle politiche di emancipazione,
nelle quali, peraltro, complice l’ispirazione marxista, la tattica della
rivoluzione con i suoi compromessi e le sue crudeltà ha un ruolo determinante. Heidegger,
ritornando sul problema dell'agire e confermando quanto aveva asserito
all'inizio della Lettera, chiude peraltro i conti con l'esistenzialismo
sartriano, con cui non ha mai smesso di confrontarsi nella stesura del suo
testo, e completa il ribaltamento ontologico della prospettiva esistenzialistica
per cui "ogni filosofia è filosofia della prassi". Anzi Sartre è da
lui non senza ragioni confinato nell'ambito della metafisica, dimodoché viene
sottolineata la totale alterità dei due pensieri, l'uno ancora imprigionato fra
gli enti, l'altro se non nella casa dell'essere, almeno "con lo sguardo
verso il mattino". Dalla polemica con Sartre risulta alla fine la
concezione di una diversa, più profonda e più alta militanza che supera il pur
nobile slancio del filosofo francese quando aspira a farsi megafono della
liberazione dall’oppressione: la filosofia è sì impegno e responsabilità, non
però impegno nell'azione e responsabilità verso l'umanità (qualunque cosa ciò
possa significare), ma impegno responsabilità verso l'essere, ineffabile e
incommensurabile, che tuttavia ci reclama misurarci con lui perché questo è il
suo destino e a questo siamo destinati. Noi che cosa possiamo "fare"?
Ascoltare la voce dell'essere e cor-rispondere, trovando in ciò la nostra
umanità. Lì è la dimensione autentica e la possibilità di essere liberi. Oltre
ogni illusoria proposta di emancipazione, oltre ogni "etica senza
fede", Heidegger sembra rammemorarci che ancora, nonostante tutto e pur
nella spaesatezza della nostra condizione storico-spirituale, "la verità
ci farà liberi".
1) J.P. Sartre, Critique de la raison dialectique,
Gallimard, Paris 1960, p. 111, in A. Negri (cur.), Novecento filosofico e
scientifico, Marzorati, Milano 1991, vol 1, p. 326.
2) Ibidem.
3) J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, tr.
it., Mursia, Milano 1964, p. 92.
4) M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, tr. it., in
Idem, Segnavia, Adelphi, Milano 1997, pp. 267-315, qui p. 268. D’ora in
poi le citazioni della Lettera saranno indicate con il numero della pagina tra
parentesi, accanto alla frase citata.
4.2) M. Heidegger, Poeticamente abita l’uomo, tr.
it., in Idem, Saggi e discorsi, pp. 125-138, qui p.135.
4.3) M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P.
Chiodi, Longanesi, Milano 19909, pp. 172-173.
5) U. Galimberti, Invito al pensiero di Heidegger,
Mursia, Milano 1986, p. 46.
6) Ivi, p. 48.
7) Ivi, p. 32.
8) J. Lotz, Dall’essere al sacro. Il pensiero metafisico
dopo Heidegger, Queriniana, Brescia 1992, p. 13.
9) Ivi, p. 18.
10) Ibidem.