sabato 6 luglio 2024

La "Lettera sull'umanismo" di Martin Heidegger

 

 Che cosa significa umanismo nel dibattito filosofico contemporaneo? È possibile mantenere la parola come qualcosa di significativo, oppure è necessario rivedere il concetto e la sua storia per decidere un suo eventuale rifiuto? Queste sono le domande che stanno alla base della riflessione di Heidegger nella sua Lettera sull’umanismo, elaborata a partire dalle sollecitazioni provenienti dal dibattito francese e giunta attraverso la mediazione di Jean Beaufret, destinatario della Lettera stessa e interlocutore privilegiato del filosofo di Messkirch.

1) Agire e pensare

"Dal giorno in cui la ricerca marxista assumerà la dimensione umana (cioè il progetto esistenziale) come fondamento del sapere antropologico, l'esistenzialismo non avrà più ragione d'essere: assorbito, superato e conservato dal momento totalizzante della filosofia, cesserà di essere un'indagine particolare per diventare il fondamento di ogni indagine" (1). Ecco l'esistenzialismo come fondamento umano-umanistico del marxismo. Umanismo, marxismo ed esistenzialismo vanno di pari passo nella concezione sartriana, secondo la quale, conseguentemente, assume particolare rilievo la "filosofia della prassi": "Ogni filosofia è pratica, anche quella che sembra a tutta prima la più contemplativa; il metodo è un'arma sociale e politica..." (2). Il sapere è ciò che viene elaborato per mettere i fatti in una relazione significativa (momento totalizzante della filosofia) che permetta di modificare le condizioni materiali e concrete dell'esistenza, che stanno alla base dell'alienazione dell'uomo. Nell'emancipazione come emancipazione dei soggetti umani reali e concreti vuole identificarsi l'umanismo di Sartre, ed emancipazione significa soprattutto guadagno dell'autentica dimensione umana, che è una dimensione di libertà intesa come facoltà di agire nel mondo attraverso un proprio progetto esistenziale, in modo che "cercando fuori di sé uno scopo - che è quella liberazione, quell’attuazione particolare - l'uomo si realizzerà precisamente come umano" (3). Il pensiero è lo strumento di siffatta realizzazione e di conseguenza diventa esclusivamente riflessione in vista di e sull'azione (nel caso di Sartre, azione liberatrice). Tale problematica viene ampiamente discussa nel dopoguerra in Francia e costituisce, come già detto, il bersaglio ideale della Lettera heideggeriana. Heidegger ci dice subito, in una netta presa di distanza dalle posizioni sartriane, che il pensiero non può essere pensiero della prassi perché pensare è già agire, non però nel senso di una identità ottenuta dialetticamente, ma a partire da una prospettiva ontologica. Laddove, infatti, il pensiero pensa ciò che gli compete, si colloca nella verità dell'essere e la verità è superiore a qualsiasi produzione di effetti: in tale ottica perde senso ogni distinzione tra teoria e prassi. Queste ultime sono il retaggio di un "pensiero inteso come techne, come procedimento del riflettere al servizio del fare e del produrre" (4) che perde di vista l'essenziale. L'essenziale non è l'esistenza come atto di esistere che precede il concetto che se ne ha (essenza), ma, al contrario di Sartre, il riferimento ontologico - "La stessa cosa è, infatti, pensare ed essere" -, perso il quale, al pensiero non resta che la disperata ricerca di autonomia rispetto alle scienze pratiche, la cui importanza invece aumenta progressivamente. È così che di fronte alla praxis il pensiero si giustifica come teoria, cioè come pura e disincarnata contemplazione. In ciò consiste la sua decadenza e il suo venir meno di fronte alla sempre più dilagante invadenza del sapere scientifico.

2) L'elemento del pensiero

 

L'essere è, da quanto sopra detto, l'elemento del pensiero, "ciò in base a cui un pensiero può essere un pensiero"; "l'essere può il pensiero", è il potere che volendo bene fa essere il pensiero, "l'essere è il potere del voler bene" (270-271). Così Heidegger connota il rapporto tra pensiero ed essere: l'essere è ciò che nel pensiero è primario perché ne dispiega l'essenza, la provenienza originaria, la verità. Il potere dell’essere sul pensiero è il fatto che nel nulla non si pensa. Questo potere agisce come un "voler bene". L'immagine del voler bene, del prendersi a cuore, è usata per caratterizzare l'azione dell'essere sul pensiero: da parte dell'essere il dono, il permettere, la compartecipazione, la benevolenza danno l'idea di come arriva a intendersi il reciproco rapportarsi di pensiero ed essere. Si tratta di un legame non meccanico, che va al di là delle possibilità di descrizione logica, e che nella sua profondità può essere reso solo mediante una metafora sentimentale che significa indissolubile attaccamento e radicale reciprocità. Si pensa nel quadro dell’ “è” della realtà, cioè dentro una matrice originaria di senso che avvolge tutte le cose e le rende disponibili ad essere pensate nella loro verità. Questa è d’altro canto pienamente dispiegata solo nel pensiero che la pensa, poiché non c’è senso d’essere se non nell’accoglienza che il pensiero ne produce.


3) Pensiero e linguaggio

 

Quando il pensiero perde il proprio elemento e diventa techne, si determina una parallela degenerazione del linguaggio. Che cos'è il linguaggio originariamente? Esso è la "casa dell'essere" e i poeti e i pensatori ne sono i custodi perché con il loro dire né "portano a compimento la manifestatività" (268). Nel linguaggio è detto l'essere e tale manifestarsi dell'essere nella parola è ciò che va mantenuto. Come? Nella custodia, appunto, che ne fanno i poeti e i pensatori, dove il pensiero dell'essere diviene parola dell'essere, dove la parola dice “gli aspetti del cielo in modo da adattarsi alle sue apparenze come all’estraneo in cui il Dio sconosciuto si trasmette” (4.2). La poesia non è un linguaggio che calcola, il suo “prendere misure”, riguarda una diversa profondità, la sua è “un’architettonica del cielo” (4.3), il cui modello è un senso che affiora nell’allusività di immagini inaudite, che attingono a una sfera preclusa alle formule predefinite e alle semplici descrizioni superficiali. Chi fa poesia, quindi pensa in modo speciale, perché si pone in ascolto di quella verità “sconosciuta” dell’essere che è l’unico oggetto veramente degno dell’uomo.

 Ma se il pensiero perde l'essere, il linguaggio non riesce più a dirlo, cadendo sotto "la dittatura della dimensione pubblica" e divenendo "funzione mediatrice delle vie di comunicazione" (271). Ciò significa che il linguaggio assume un carattere strumentale, diventa una retorica che è funzionale a qualcos'altro, in questo caso alla comunicazione, alla mediazione di messaggi e alla comprensione: un comunicare come trasmettersi le nozioni necessarie a concertare le forze per dominare dispoticamente il reale, un comprendere che vuole instaurare un dominio sulle cose per renderle disponibili all'impiego. Insomma, il linguaggio qui spiega, fonda sistemi causali, permette di utilizzare le cose per gli scopi più disparati, ma non dice più la verità. Ecco allora la necessità per Heidegger di riguadagnare un silenzio terribile dignità al linguaggio perché "prima di parlare l'uomo deve innanzitutto lasciarsi reclamare dall'essere, col pericolo che sotto questo reclamo abbia poco o raramente qualcosa da dire" (273). Di fronte all’inondazione di parole a cui la modernità ci ha abituati, a una percezione di insignificanza e di dispersione che tale abbondanza spropositata ci suggerisce, al volgare e al dire-fuori-luogo proprio dei media che della parola fanno lo strumento dell’umana volontà di potenza, di fronte a tutto ciò Heidegger ci invita a una nuova regola del silenzio che ci abitui a "esistere nell'assenza di nomi" (273) perché solo così si può ritrovare la vicinanza dell'essere: quando la verità dell'essere giungerà al linguaggio, il pensiero perverrà a questo linguaggio "forse allora il linguaggio richiederà più che il precipitoso enunciare, il giusto silenzio" (296).

 

4) Umanismo e umanità dell'uomo

 

Dal discorso filosofico di Heidegger emerge una sostanziale preoccupazione per l'uomo e la sua umanità. Se per umanismo, infatti, si intende lo sforzo di ricondurre l'uomo alla sua essenza che è la "vicinanza dell'essere", allora anche il suo pensiero si può chiamare, e a buon diritto, umanismo. Nella storia del concetto vi è però sempre stata l'idea che l'umanità dell'uomo fosse stabilita in base a un'interpretazione dell'ente che finiva per perdere di vista l'essere e la sua verità, e ciò è ravvisabile anzitutto nell'interpretazione dell'uomo come animal rationale. Se concepiamo l'uomo come colui che all'interno del genere animale si differenzia mediante la differenza specifica razionale, noi rimaniamo sempre e comunque all'interno di un universale logico connotato dall' animalitas. L'uomo come animale razionale è sempre animal, anche se rationale, e con ciò non ci si interroga su come invece "l'essenza dell'uomo appartenga alla verità dell'essere" (276). "La metafisica - che elabora la suddetta interpretazione umanistica dell'uomo, n.d.r. - si chiude di fronte al semplice fatto essenziale che l'uomo si dispiega solo nella sua essenza in quanto chiamato dall'essere" (277). Ciò che distingue l'uomo non è una differenza specifica ma una differenza ontologica. L'uomo abita la casa dell'essere (che, come abbiamo visto, è il linguaggio che dice l'essere) ed è pertanto aperto alla sua verità: ciò lo caratterizza in maniera totale e lo rende qualcosa di assolutamente diverso dagli altri viventi e dagli enti in generale. In Essere e tempo, Heidegger aveva sottolineato che il Dasein (l’Esserci, ossia l’uomo) si caratterizzava come l'ente che si pone la domanda sull'essere. Non lo caratterizzava, dunque, un rapporto interno alle articolazioni della totalità degli enti, una collocazione interna a una totalità di cose, dentro la quale si ritroverebbe in un certo luogo la cosa-uomo, bensì il rapporto intimo che l'uomo, di là da ogni sua collocazione ontica, ritrova attraverso la domanda sul senso complessivo della realtà. Tale domanda lo apre alla realtà stessa e, saltando ogni mediazione, ne esprime il connotato distintivo rispetto a tutto il resto degli oggetti che appartengono al mondo. Questo è il valore dell'uomo, certamente superiore a quello di un ente animato, pur nobilitato dal possesso della ragione.

 

5) L'esistenza dell'uomo

 

Dire che l'uomo è originariamente aperto alla verità dell'essere vuole significare che l'uomo e-siste. Ek-sistere è stare fuori, precisamente hinaustehen, dice Heidegger, ossia "stare-fuori-verso". Verso che cosa l'uomo sta fuori? Verso la verità dell'essere. Questa è l'essenza. L'essenza è, cioè, la sua e-sistenza,  non però pensata secondo lo schema metafisico di una realtà, appunto esistente, in contrapposizione a una semplice possibilità, non ancora esistente, e nemmeno classicamente, come realizzazione nel mondo reale di una essenza solo pensata: bisogna uscire da quegli ambiti dottrinali che non esperiscono la verità dell'essere e rimangono su un piano puramente esistentivo (come il termine ontico, contrapposto a ontologico, allude alla differenza tra ciò che riguarda semplicemente gli enti e ciò che attiene invece al senso generale dell'essere, il termine esistentivo si riferisce a un modo di esistere superficiale e comune che riguarda il semplice appartenere al mondo degli enti che occupano un certo ambiente, di contro a esistenziale che si connette invece al senso profondo del vivere che proviene da un rapporto con l'essere e la sua verità). Se si guarda al contrario all'uomo, avendo in vista la dimensione dell'essere, cioè sotto il profilo esistenziale, si capisce come "l'essenza si determina non più in base all'esse essentiae o all'esse existentiae, ma in base all’estaticità dell'Esserci", cioè al fatto che la vita dell'uomo (Esserci) è dislocata verso la verità complessiva dell'essere, è una vita pensante e problematizzante, che non può fare a meno di domandarsi "perché?" e "che significa tutto ciò?". Dunque, "come esistente, l'uomo sopporta l'esserci - cioè il trovarsi a vivere in un certo mondo, domandandosi il perché, n.d.r. - assumendo nella sua cura - in questa sua preoccupazione per la totalità del reale, n.d.r. -  il "ci" - cioè il mondo in cui si trova ad essere l'uomo, n.d.r. -  come radura dell'essere -  ovvero come il luogo illuminato dal senso della verità delle cose, una radura, cioè la parte luminosa di un bosco che per il resto rimane nell'oscurità, e che però di volta in volta, mediante la domanda umana e l'ascolto della verità che proviene dal nostro interagire con gli enti, parzialmente si illumina e ci dice qualcosa di significativo riguardo alla nostra vita, n.d.r. -  L'Esserci, a sua volta, è in quanto gettato  - gettatezza significa quel trovarsi a vivere in un mondo, quel puro “che c’è e ha da essere”,  quell’”effettività dell’essere consegnato” a un mondo in cui “il donde e il dove rimangono  […] nascosti” (4.3), n.d.r. - . Esso è nel getto dell'essere come destino destinante" (280). In questa complicata frase, che già abbiamo interpolato con qualche piccola glossa, compaiono parole e concetti importanti per una chiarificazione del significato dell'e-sistenza. L'Esserci-uomo è estatico, cioè sta fuori (ek-siste) nel "ci", nel mondo, che è radura dell'essere ossia luogo in cui l'essere avviene nella sua verità, che si disvela luminosamente. A sua volta l'Esserci-uomo è gettato nella radura dell'essere dall'essere, è l'essere stesso che invia, destina l’uomo nella radura, laddove il bosco della realtà si dirada, disvelandosi nella sua verità: l'essenza-esistenza dell'uomo sta proprio in questo invio dell'essere. La coincidenza dei due termini di essenza ed esistenza e la riduzione dell'uno all'altro non sono perciò pensati in maniera tradizionale ponendo a proprio piacimento l'accento di volta in volta sul concetto (essenza) o sulla realtà concreta (esistenza), ma vengono indagati da una prospettiva ontologica per la quale il riferimento all'essere rende inservibili le categorie metafisiche di idealismo e di empirismo. È qui ben visibile il distacco dalle posizioni esistenzialiste e in particolare all'esistenzialismo sartriano che, pur ribaltando la concezione classica della precedenza dell'essenza sull'esistenza, ne resta sempre prigioniero perché pensa i due termini metafisicamente e il "rovesciamento di una tesi metafisica rimane una tesi metafisica" (281). Il punto per Heidegger sta nel pensare, quando si rivolge l'attenzione all'uomo, la dimensione della verità dell'essere che vi appare e, pensandola, egli arriva a stabilire che cosa sia l'esistenza senza cadere nell'esistenzialismo: "Così nella determinazione dell'umanità dell'uomo come e-sistenza ciò che importa è che l'essenziale non sia l'uomo ma l’essere come dimensione delle estaticità dell'esistenza" stessa (287). La visione heideggeriana è ontocentrica, quella sartriana è antropocentrica, e infatti alla frase di Sartre: "Noi siamo su un piano in cui si danno solamente gli uomini", Heidegger sostituisce coerentemente l'espressione: "Noi siamo su un piano in cui si dà principalmente l'essere" (287).

 

6) L'essere

 

Con l'entrata nella tematica propria dell'essere, giungiamo al centro della problematica heideggeriana. "Che cos'è l'essere?" si domanda Heidegger, recependo duemila anni di riflessione filosofica occidentale. Nela risposta egli applica la fondamentale scoperta della differenza tra essere niente. L'essere viene distinto ontologicamente da ciò-che-è, l’ente, cosa che la metafisica non ha mai fatto, ci spiega Umberto Galimberti, perché "ha sempre pensato l'essere come semplice presenza dell’ente" (5), trattandolo "come l'identico all'ente, come il carattere comune di tutti gli enti (ad esempio l'idea platonica, intesa come il permanere nel divenire, n.d.r.) e quindi come un concetto generalissimo che troverà la sua verificazione nella risoluzione hegeliana dell'essere nel nulla e nella riduzione nietzschiana dell'essere a 'ultimo fumo della realtà che svanisce’" (6). L'essere, pertanto, non è l'ente anche se è solo nell'ente e traspare attraverso l’ente. Ciò vuol dire che solo nella presenza dell'ente noi esperiamo l'essere, ma che se vogliamo esperirne la verità, dobbiamo andare oltre questa presenza verso ciò che nell'ente si dà come essere: non una cosa che produce e causa un'altra cosa bensì un significato totale che sta dietro a una presenza parziale. Ma se noi abbiamo l'essere solo nell'ente, ci si può chiedere con Adorno "che cosa denoti l'essere a differenza dell’ente" (7). Questa domanda, direbbe forse Heidegger, mostra una volontà di definizione dell'essere che ci riporta in un ambito metafisico perché vuole comprenderlo a partire da altro - come fa chiunque definisca qualcosa - inserendolo in un genus proximum e aggiungendovi una differentia specifica. L'essere, viceversa, e ciò che si comprende solo partire da sé, una sfera ben rotonda di significati che intensamente sono, si propongono e si manifestano, a partire dalla quale si può intendere tutto il resto. Per questo alla domanda: "Che cos'è l'essere?" Heidegger risponde: "L'essere è se stesso", perché non può essere ulteriormente determinato, essendo un'assoluta identità attivamente significante e non passivamente oggetto di definizione, a differenza degli enti che sono sempre qualcosa, ossia passivo oggetto di predicazione nella relazione che intrattengono con altri enti. Perché allora l'uomo è in grado di parlare dell'essere? Perché secondo Heidegger l'essere è vicino, l'essere "è la semplice vicinanza di un dominare non invadente" (286) e tale vicinanza è data dal e nel linguaggio, "casa dell'essere", e "dimora dell'uomo". L'essere e l'uomo coabitano nel linguaggio il quale, è bene ricordarlo, non preesiste e non è una funzione dell'uomo - lo è solamente nella sua dimensione ontica, logica, apofantica e predicativa di descrizione scientifico causale dell'ente, il linguaggio idealizzato dai neopositivisti, tanto per capirci -, ma è "fatto avvenire e disposto dall'essere" (286), così che l'uomo non lo usa, ma appunto lo abita, vi è da sempre immerso come in ciò che gli è proprio e che tuttavia non ha costruito lui. Perciò l'uomo, aperto alla verità dell'essere nel linguaggio, è in grado di dire come essa "avvenga", si offra allo sguardo e al pensiero; è capace di parlare del suo manifestarsi e al tempo stesso nascondersi, perché nulla nell'essere è chiaro come un fatto positivo e come una formula acclarata e stabile ma è bensì circonfuso di una caligine difficilmente penetrabile e si offre solo in improvvise e chiaroscurali illuminazioni.

Ciò comunque permette all'uomo, aperto alla verità dell'essere nel linguaggio, di dire come essa avvenga, di parlare del suo manifestarsi e nascondersi e di come egli stesso venga coinvolto nel destino di questa dialettica. Heidegger ce ne parla anche sulla scorta della tradizione che proviene da un grande sapiente di Grecia, Parmenide. Costui disse: "Ésti gar èinai", "È infatti l'essere", ma la sua espressione può essere oggi fonte di ambiguità perché "abitualmente l' ‘è' viene detto di qualcosa-che-è. Questo qualcosa noi lo chiamiamo ente. Ma l’essere non è l'ente" (288). Dire che l'essere "è" conduce oggi ha il dimenticarsi ancora di ciò che permette il riconoscimento dell'essere, ossia della differenza ontologica che lo qualifica come altro rispetto all'ente (o meglio che rende l'altro - l'ente - altro rispetto allo stesso - l'essere). Quindi, in attesa che l'"è" dell'essere sia pensato nella sua verità, Heidegger usa provvisoriamente l'espressione "si dà". L'essere si offre allo sguardo comprensivo di chi si interroga e lo interroga, ponendosi in un atteggiamento ricettivo e "grato", ponendosi in quell'ottica antica della meraviglia e dell'ascolto umile e, vorremmo dire, eucaristico. L'essere che si dà è dono da accogliere e mentre viene accolto, illumina e apre orizzonti, di là dalla presenza impositiva dell'ente come oggetto e come cosa. Tuttavia, pure il "si dà" non è usato casualmente: "Esso - sostiene Heidegger - domina come il destino dell'essere" (288). Il fatto che "si dà all'essere" è, dono cioè invio dell'essere. Questo si destina, si invia, storicamente e la storia è identificata proprio dall'inviarsi dell'essere. Come si dà l'essere nella storia? Si dà come radura, come diradamento della sua verità: la sua verità viene alla luce, emerge dall'oscurità, ma nella radura l'essere si dà e contemporaneamente si nega. Ciò conduce a dire che il darsi dell'essere "pensato come destino" e un darsi e negarsi, cioè che nel darsi storico dell'essere, l'essere può rimanere nascosto, cosa che si è precisamente verificata nella storia della metafisica con l'oblio della differenza ontologica. Come viene coinvolto l'uomo del destino dell'essere? L'essere si trasmette all'uomo nella radura, cioè nello stesso luogo dove esso si apre nella sua verità e dove d'altro canto l'uomo viene da esso gettato: l'essere dell'uomo nella radura è il "ci" dell'Esserci umano: nel "ci" l'essere si dà all'uomo e l'uomo è destinato dall'essere. Così essi si co-appartengono originariamente. L'uomo è per essenza l'apertura al senso dell'essere, l'essere è per essenza offerta alla comprensione da parte dell'uomo.

 

6.1) L'essere come patria

 

L'uomo come e-sistente abita nella radura dell'essere che è il "ci" dell'Esserci. In tale senso viene chiarito il concetto di vicinanza dell'essere all'uomo. La vicinanza dell'essere appartiene all'uomo e l'uomo vi si riferisce come alla sua patria. L'idea di patria ha qui un fondamento ontologico in rapporto con la sua più profonda identità. Se l'uomo perde la patria, smarrisce il motivo della sua originaria vicinanza all'essere, il suo originario di essenziale radicamento. La condizione che ne risulta è quello della spaesatezza (Heimatlosigkeit, 290-291). Essa "è il segno dell'oblio dell'essere" che diviene "destino mondiale" (292) ed elemento distintivo dell'uomo nel periodo storico della contemporaneità. Ciò perché è lo stesso essere che destina la spaesatezza storicamente come sua verità e nel suo destino l'uomo è sempre coinvolto. Tutto proviene dall'essere, anche il suo oblio metafisico, che genera spaesatezza, è un destino-invio dell'essere. L'essere può inviarsi e destinarsi come obliato e nascosto o come manifestato e rivelato. Ciò significa che da un lato l'errare dell'oblio è sempre suscettibile di essere pensato e il sentiero della verità è pur sempre rinvenibile in mezzo agli sviamenti dell'errore; dall'altro che la radura che manifesta la reciproca appartenenza dell'uomo e della verità dell'essere non implica che tale verità sia un possesso definitivo o un patrimonio completamente disponibile. Nella spaesatezza si può incontrare la verità, perché la spaesatezza viene dalla verità, e dalla verità si può scadere nell'oblio e nell'oscura dimenticanza. Anche, per esempio, l'inquietante fenomeno della tecnica contemporanea, che Heidegger affronterà nel breve e importante testo La questione della tecnica, "nella sua essenza è un destino, nella storia dell'essere, della verità dell'essere che riposa nell'oblio", 293). Ritornare alla patria vuol dire ritrovare una via verso il disvelamento della verità dell'essere: "Di fronte all'essenziale spaesatezza, il futuro destino dell'uomo si mostra al pensiero che pensa la storia dell'essere nel fatto che egli trovi una via verso la verità dell'essere e si metta in cammino verso questa scoperta" (294), la scoperta di una nuova patria, oltre quella posticcia fornita dalle ideologie del Novecento (la Nazione, la Classe, l'Umanità), nessuna delle quali riesce ad emanciparsi dal sostanziale nichilismo della metafisica, cioè dal nulla di un oblio della verità inconsapevole di sé e della sua dispersione.

 

6.2) Essere e Dio

 

In generale il pensiero di Heidegger è percorso da un continuo confronto con la riflessione cristiana e cristiano-tomistica, un po' per il suo curriculum di studioso che lo ha visto spesso volentieri impegnato con autori cristiani (Duns Scoto, per esempio), un po' per la coscienza che l'uscita dalla metafisica occidentale, meta agognata che permetterebbe il disvelamento dell'essere nella sua verità, non può che prendere le mosse dal riconoscimento e dall'assunzione di questa tradizione come condizione necessaria per il suo stesso oltrepassamento. E questa tradizione è tradizione cristiana. 

In particolare, nella Lettera sull'umanismo ricorre il riferimento a Dio o al cristianesimo in occasioni diverse e relativamente a differenti argomenti (almeno otto volte, cfr. pp. 273, 274, 280, 284, 291, 299, 301-302-303, 306). Nell'ambito di tali riferimenti, Heidegger si trova ad affrontare il problema più importante: il rapporto tra la sua idea di essere, l'idea di Dio e il suo esserci (cfr. 284). Se presso gli autori cristiani è immediata l'identificazione di Dio con l'essere (obliato e scambiato con l'ente massimo, secondo Heidegger), per il filosofo tedesco essa è da respingere nella maniera più assoluta: "Essere non è né Dio, né un fondamento del mondo" (284). Se Dio non è essere, viene da pensare che la filosofia heideggeriana tenda a negarne totalmente l'esistenza, fatto che sarebbe confermato, a partire da Essere tempo, dalla determinazione radicalmente secolarizzata dell'uomo come essere-nel-mondo. Ma proprio qui interviene Heidegger dicendo che con essere-nel-mondo non si intende affatto "l’ente terreno in contrapposizione a quello celeste, né il 'mondano' in opposizione allo 'spirituale'" (301), bensì l'apertura dell'Esserci alla totalità dell'essere. Di conseguenza con questa definizione dell'uomo "nulla è ancora deciso circa l'esserci di Dio o il suo non essere" (302). Questa non decisione circa la realtà di Dio non vuol tuttavia dire indifferenza o presuntuosa noncuranza, ma vuole rimandare a qualcosa di essenziale, al fatto cioè che "solo a partire dalla verità dell'essere si può pensare all'essenza del sacro. Solo a partire dall'essenza del sacro si può pensare l'essenza della divinità. Solo alla luce dell'essenza della divinità si può pensare e dire che cosa debba nominare Dio" (303). In sostanza anche qui Dio, che non è essere, va pensato a partire dalla verità dell'essere. Nella "gerarchia celeste" di Heidegger al vertice si trova il sacro, la cui essenza è donata dall'essere; esso determina lo spazio della divinità, che a sua volta stabilisce al terzo livello la realtà di Dio (cfr. 291). Il distacco dalla metafisica cristiana risulta netto quando si pensi invece alla gerarchizzazione che essa opera nel momento in cui pone Dio al vertice, che determina lo spazio della divinità, al cui interno si colloca come terzo elemento il sacro. Tutto nel cristianesimo dipende da Dio come essere sussistente. Il punto discriminante è esattamente quest'ultimo. "Dice Heidegger: 'Essente è una roccia, un animale, un'opera d'arte, una macchina, un angelo, Dio'. Perciò Dio non cade affatto al di fuori dell'essere, ma viene anch'egli contenuto in esso, è anche egli uno dei molti essenti che poggiano nell'essere uno ... Dio non 'è' nel pieno senso della parola ma viene posto per diminuzione dell' 'essere stesso'" (8). Johannes Lotz, allievo di Heidegger, da tutto ciò trae la logica conclusione che il modo heideggeriano di pensare Dio è singolarmente vicino a quanto dal nostro filosofo è attribuito alla metafisica: "Entrambi modi di pensare concordano nel fatto di vedere Dio come essente" (9), infatti anche per la metafisica Dio è "l'ente sommo, l'ente sopra sensibile", ma pur sempre ente. "Chi prende seriamente l'imbarazzo che ne consegue 'preferisce oggi tacere su Dio nell'ambito del pensiero'" (10).


7) Fraintendimenti sull'umanismo

 

Già altrove si è visto che per Heidegger umanismo vuol dire, nel significato più immediato, valorizzazione dell'uomo. Ora, se questo è vero, è altresì vero che la preoccupazione principale di una dottrina umanistica deve essere diretta al ritrovamento della più profonda dignità umana. Ma essa sta sicuramente nel fatto che nell'uomo, come più volte ribadito, ciò che conta non è l'uomo stesso, ma la verità dell'essere che ne governa l'essenza. Così "l'uomo non è (più) il padrone dell'ente" (295), dominatore della realtà esistente, ma è "pastore dell'essere", vicino dell'essere e suo custode. Nella perdita del potere sul mondo, l'uomo "non perde nulla, anzi ci guadagna in quanto perviene alla verità dell'essere" (295). L'idea di umanismo qui presentata si oppone all'idea corrente che considera l'uomo onticamente al centro dell'universo e assoluto signore del reale. Tale dottrina poggia su una modalità di pensiero che, nell'attenzione alla coerenza formale dell'interpretazione dell'ente volta al suo dominio, perde di vista l'essere come suo elemento. Questa modalità è la logica, cioè la tradizione di quella disciplina che vigila sul rispetto dei principi di identità, non contraddizione, terzo escluso e che determina le regole della predicazione e della deduzione come condizioni di ogni approccio a una descrizione del reale che sia dotata di senso. La disciplina logica che regola il discorso apofantico inteso a restituire per mezzo del pensiero lo stato delle cose, ha sorretto le espressioni principali del discorso filosofico occidentale, fino alle sue ultime propaggini scientifico-tecnologiche. Essa ha attraversato la nostra storia, come storia dell’oblio dell’essere, e ha costruito un discorso dal quale è scaturita la civiltà occidentale e che la storia della civiltà occidentale ha legittimato come il proprio sostrato ideologico e spirituale. Perciò Heidegger riconosce che la logica ha permesso di costruire un apparato concettuale che fino ad ora ha fondato la civile convivenza degli uomini e, in certa misura, pur nell'oblio della Verità, li ha preservati da forme più radicali di nichilismo (perché, lo sappiamo, l'oblio della verità è comunque un darsi della verità in quanto obliata). Il filosofo tedesco nega, pertanto, che contestare quella visione del mondo "logica", porti alla pura e completa negazione di ciò che essa ha costruito nei secoli, come se tutto quel che, in termini aristotelici, è l'opposto della visione del mondo “logico” debba essere il suo contrario assolutamente negativo. Se questa è l'alternativa - dice Heidegger - non ci si può nemmeno più interrogare sul positivo della logica senza cadere nel nichilismo, perché ciò equivarrebbe a metterlo in discussione e con ciò a evidenziarne le definizioni troppo ristrette ed i limiti angusti. Il risultato sarebbe che pure detto positivo rimarrebbe non pensato. Ecco perché con la logica muore il pensiero ed è impedito lo sguardo da una "prospettiva libera" su qualcos'altro che non sia il "positivo" preventivamente deciso e apoditticamente assunto. L'atteggiamento che ne deriva è quello della condanna di chi dal punto di vista del "vero è più radicale umanismo" si allontana dalla dottrina dai valori propri dell'"umanismo logico": chi mette in dubbio la validità della logica è un irrazionalista; chi ha qualche perplessità sui cosiddetti valori è immorale; chi contesta anche parzialmente Dio è un ateo; tutti infine sono nichilisti irresponsabili. Le suddette accuse si fanno spazio grazie all'inconsapevolezza del fatto che in realtà l'obiettivo di coloro che vengono così biasimati è di arrivare, attraverso il pensiero, a una rifondazione del pensare, dell'etica, della religione, per far loro assumere una dignità autenticamente sgorgante dalla verità dell'essere che l'uomo esperisce in quanto e-sistente. Non la morte della logica, dunque, ma il superamento delle sue limitatezze formali e della sua strisciante volontà di potenza, sono indicati da Heidegger come la condizione e al tempo stesso l’espressione di una più vasta pienezza di pensiero, che ai puri aspetti meccanicistici e utilitaristici del ragionare opponga l’autenticità palingenetica e liberante di una profonda vocazione ontologica. Solo di qui sgorgherà un umanismo parimenti autentico.

 

8) La nuova etica

 

Se il vero umanismo ha una radice ontologica, sarà allora necessario completare l'ontologia con un'etica, affiancando al "tu sei" dell'uomo un "tu devi" fondato sull'identificazione di un "bene". Heidegger in questo campo non vuole essere meno rivoluzionario che in quello ontologico: fatta salva l'esigenza "pensata in modo originario" di trarre dalla conoscenza dell'essenza dell' humanitas "delle indicazioni per la vita attiva da dare a quest'ultima" (309), egli ci avverte che il pensiero che "domanda della verità dell'essere... non è né etica, né ontologia" (308). Perché? Perché etica e ontologia sono disciplina frutto di una riflessione che, lontana dal suo elemento e posta in una sorta di esilio logico, si volge a sezionare il pensiero per farlo rientrare in un sistema di spiegazioni e fondazioni: il fine, si ribadisce, è il dominio dell'ente, la conseguenza è l'oblio dell' aletheuein, cioè del disvelarsi della verità, sostituito dal tentativo di com-prendere, di oggettivare, di calcolare. I pensatori iniziali, invece, "non conoscevano né una logica, né un'etica, né una fisica ... essi pensavano invece la physis con una profondità e un'ampiezza mai più raggiunte" (305). E, così come la physis, pensavano l'ethos nella sua verità, senza bisogno di un'etica. Illuminante, infatti, per la comprensione del significato originario di etica è l'espressione di Eraclito: "Éthos anthròpo dàimon" che, tradotto correttamente, suona: "Il soggiorno (ethos) è per l'uomo il dio (daimon)", e cioè:" L'uomo in quanto uomo abita nella vicinanza di Dio" (306). Ethos indica qui il luogo dell'apertura dell'essere, luogo dove l'uomo abita gettatovi dall'essere stesso. "Ora, se in conformità al significato fondamentale della parola ethos, il termine etica vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell'uomo, allora il pensiero che pensa alla verità dell'essere come elemento iniziale dell'uomo in quanto esistente è già l'etica originaria" (307-308). Ethos, quindi, come vicinanza dell'essere: l'ancoraggio è di nuovo all'essere e con esso viene scavalcata la distinzione tra etica e ontologia. Non c'è un "tu devi" differente da un "tu sei" perché "più essenziale di ogni fissazione di regole è che l'uomo trovi soggiorno nella verità dell'essere" (312) da dove, a guisa di un'assegnazione, proviene la regola in quanto consegna dell'essere (legge infatti deriva da nemein che vuol dire assegnare e dispiega il suo senso come "assegnazione dell'essere"). Con ciò viene soddisfatta l'esigenza di trovare il modello di una condotta in un'epoca che ha smarrito il significato dell'agire. L'agire trova precisamente la sua pienezza solo nella sfera dell'essere, nella quale di volta in volta siamo portati da un pensiero rammemorante. Il pensiero, in quanto viene al linguaggio, dice l'essere, in quanto ci conduce nella casa dell'essere rammemorandoci che quella è anche la nostra dimora, si identifica con l'agire, ma un agire che non aspira a un risultato pratico, trovando bensì il suo unico nutrimento e la sua unica "finalità" nell'essere e nella sua verità. Etica, pertanto, non vi può essere se non c'è sguardo all'essere e alla verità, poiché la verità dell'essere è "il sostegno per ogni contegno" (312). Se nell'agire è la verità a dover venir salvaguardata, è "inutile" un pensiero che pensi l'agire, diverso dal pensiero della verità, e ciò fa venir meno la necessità di tutte le filosofie della prassi. Il discorso ontologico è ipso facto etico, e annulla l’etica nella sua autonomia, in modo specularmente inverso a quanto aveva fatto Kant, che aveva annullano l’onto-teologia nell’etica. Se vogliamo, mentre con Kant l’esito è il suo rigorismo morale costruito attorno al fatto di ragione, quello stesso che assorbe con la sua normatività ogni forma di pensiero e di esperienza dell’essere, con Heidegger si produce una sorta di misticismo dell’essere e una specie di intuizionismo etico che discende direttamente dal rapporto del soggetto storico con la chiamata destinante della Verità, la quale a sua volta non si fenomenizza se non nel linguaggio rammemorante del pensiero e della poesia. All’autonomia kantiana della ragione e dell’imperativo, viene contrapposta l’autonomia e l’autonormatività dell’essere, che non prende la forma di un imperativo del dovere, ma di una risposta alle sfide della storia-destinale, pensate mediante un percorso che attraversa le epoche del pensiero, e poggianti su un assoluto in sé indicibile e inesprimibile. Appunto una mistica dell’azione guidata dall’intuizione di un destino che riposa nel pleroma dell’essere, circonfuso di insuperabile e inoggettivabile oscurità e tuttavia suscettibile di essere parizalmente colto nel luogo della sua radura. Siamo agli opposti anche dell’esistenzialismo sartriano che finisce per produrre un’etica del tutto secolarizzata nelle politiche di emancipazione, nelle quali, peraltro, complice l’ispirazione marxista, la tattica della rivoluzione con i suoi compromessi e le sue crudeltà ha un ruolo determinante. Heidegger, ritornando sul problema dell'agire e confermando quanto aveva asserito all'inizio della Lettera, chiude peraltro i conti con l'esistenzialismo sartriano, con cui non ha mai smesso di confrontarsi nella stesura del suo testo, e completa il ribaltamento ontologico della prospettiva esistenzialistica per cui "ogni filosofia è filosofia della prassi". Anzi Sartre è da lui non senza ragioni confinato nell'ambito della metafisica, dimodoché viene sottolineata la totale alterità dei due pensieri, l'uno ancora imprigionato fra gli enti, l'altro se non nella casa dell'essere, almeno "con lo sguardo verso il mattino". Dalla polemica con Sartre risulta alla fine la concezione di una diversa, più profonda e più alta militanza che supera il pur nobile slancio del filosofo francese quando aspira a farsi megafono della liberazione dall’oppressione: la filosofia è sì impegno e responsabilità, non però impegno nell'azione e responsabilità verso l'umanità (qualunque cosa ciò possa significare), ma impegno responsabilità verso l'essere, ineffabile e incommensurabile, che tuttavia ci reclama misurarci con lui perché questo è il suo destino e a questo siamo destinati. Noi che cosa possiamo "fare"? Ascoltare la voce dell'essere e cor-rispondere, trovando in ciò la nostra umanità. Lì è la dimensione autentica e la possibilità di essere liberi. Oltre ogni illusoria proposta di emancipazione, oltre ogni "etica senza fede", Heidegger sembra rammemorarci che ancora, nonostante tutto e pur nella spaesatezza della nostra condizione storico-spirituale, "la verità ci farà liberi".

1) J.P. Sartre, Critique de la raison dialectique, Gallimard, Paris 1960, p. 111, in A. Negri (cur.), Novecento filosofico e scientifico, Marzorati, Milano 1991, vol 1, p. 326.

2) Ibidem.

3) J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, tr. it., Mursia, Milano 1964, p. 92.

4) M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, tr. it., in Idem, Segnavia, Adelphi, Milano 1997, pp. 267-315, qui p. 268. D’ora in poi le citazioni della Lettera saranno indicate con il numero della pagina tra parentesi, accanto alla frase citata.

4.2) M. Heidegger, Poeticamente abita l’uomo, tr. it., in Idem, Saggi e discorsi, pp. 125-138, qui p.135.

4.3) M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 19909, pp. 172-173.

5) U. Galimberti, Invito al pensiero di Heidegger, Mursia, Milano 1986, p. 46.

6) Ivi, p. 48.

7) Ivi, p. 32.

8) J. Lotz, Dall’essere al sacro. Il pensiero metafisico dopo Heidegger, Queriniana, Brescia 1992, p. 13.

9) Ivi, p. 18.

10) Ibidem.

3 commenti:

  1. Ottimo saggio, Massimo, che ci libera (come area cultural-politica) anche da quelle "masturbazioni intellettuali", tanto di Dx quanto di S, dell'Heidegger "filosofo nazista".

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  2. Grazie Leonardo... sì, autentici pretesti per evitare di prendersi la briga di capire uno dei più grandi filosofi del Novecento.

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  3. Grazie davvero, questo saggio, che finalmente sono riuscito a leggere, è un balsamo per l'anima. Mi ha trasmesso, tra le tante cose, anche la speranza che un'altra modernità sia possibile. Grazie a te, e a Heidegger, naturalmente.

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