Domenico D. Curtotti, l’ottimo
curatore di questo meritorio scritto martinettiano, ci avverte nella sua nota
introduttiva che “L’educazione della volontà rientra tra le opere di
filosofia popolare” dell’intellettuale piemontese, con le quali egli intendeva
portare avanti un lavoro “di educazione spirituale al di fuori della filosofia
‘professionale’”. Dunque, si tratta quasi di una prosecuzione di quelle “sue
mattutine lezioni universitarie” in cui “un prevalente pubblico di non
specialisti [...] partecipava come ad una funzione religiosa prima di
iniziare la giornata lavorativa” (pp. 5-6).
Si può quindi facilmente comprendere il
carattere manualistico e pratico di un testo che, pur non mancando della solita
vis teoretica dell’Autore, appare uscire dai confini della pubblicazione
accademica e anticipare ciò che oggi chiameremmo un esercizio di consulenza
filosofica. Qui, infatti, la riflessione si piega sulla vita e diventa pratica,
indirizzo quotidiano dell’esistenza, capacità di trasformare il Denken
in Erlebnis, il pensiero in concreta esperienza vissuta, cosa che
precisamente rimanda all’ideale della consulenza filosofica o delle pratiche
filosofiche.
Come avviene tutto ciò? Attraverso l’analisi
dell’elemento che rappresenta il centro della vita pratica: la volontà. La
volontà per Martinetti, da un punto di vista fenomenologico, appare come una
tensione, un conatus, radicato schopenhauerianamente nella vita
organica, che risale fino a penetrare la dimensione intellettiva e razionale,
trasformandosi da impulso cieco ad appunto volontà morale. Qui sta il segreto
della vita della coscienza, nel progredire dalla molteplicità disordinata degli
impulsi volti al soddisfacimento immediato e contraddittorio di istanze
pulsionali latenti nel biologico verso l’unificazione razionale del volere, la
sua stabilizzazione e il suo orientamento a un senso complessivo
dell’esistenza.
Da un punto di vista metafisico, l’illuminante saggio di Curtotti sulla metafisica monistica o henologica di Martinetti, posto in appendice, ci segnala che il motore di questo processo è “l’urgenza dell’unità” che “non ci fa paghi della nostra esistenza attuale e ci fa avvertire come dolorosa la nostra condizione” (p. 154). Tale urgenza coincide con “l’aspirazione ad una vita più piena e più alta”, che individua nella dimensione attuale e formale (in senso aristotelico) dell’unità - un’unità/coscienza universale, pensiero di pensiero, forma formarum che innerva tutto il reale e lo conduce per forza di attrazione a sé - il proprio primum mobile (il quale però ha insieme il carattere dinamico dello Spirito hegeliano e panteistico della natura naturans spinoziana e non quello statico del motore immobile aristotelico). Dall’individuazione di un simile bonum come di qualcosa che agisce indifferentemente in sé e in tutto l’universo, discende quell’atto di riflessione integrale, atto pratico e intellettuale al tempo stesso, che produce in ogni fase della vita spirituale l’unificazione della volontà e il suo passaggio dalla sua fase impulsiva a quella razionale e infine a quella morale in cui l’originario conatus “ha rigettato da sé ogni limitazione egoistica e straniera alla ragione, per convertirsi verso i beni assolutamente validi e universalmente umani” (p. 59).
Questo percorso-reditus
verso l’Uno-Bene non è però qualcosa di garantito, ma richiede in ogni momento
la capacità di attingere alla misteriosa energia che dall’Uno promana,
attraverso la capacità di porsi in ascolto del proprio dolore (che non è altro
che “l’altra faccia del desiderio di unità” [p. 154]), e di metterla al
servizio di uno sforzo di liberazione da tutto ciò che nella vita ha carattere
centrifugo, opaco, molteplice, informe.
Per tale motivo Martinetti, dopo
aver delineato il significato della volontà nella vita dell’uomo, si concentra
nel suo scritto sulle modalità del suo faticoso orientamento e del suo
dominio, riecheggiando una vasta tradizione che va da Epitteto agli Esercizi
spirituali di S. Ignazio di Loyola. Seguendo passo passo la scala dello
sviluppo del volere e approfondendone gli aspetti più rilevanti, l’Autore
giunge così a condensare in poche regole la saggezza pratica che si esprime
nella suddetta tradizione.
La prima massima è rivolta alla dimensione
fisica: “Abbi in primo luogo cura di mantenere il corpo sano e vigoroso:
prescrivi a te stesso un piccolo numero di norme igieniche semplici ed
essenziali e astringiti a seguirle regolarmente ogni giorno, finché siano
diventate in te altrettante abitudini” (pp. 71-72).
Dalla cura del corpo (in cui il
termine “igienico” non riguarda ovviamente la pulizia, ma la complessiva
funzionalità), necessaria come base di un vigore che partecipa in generale al
rafforzamento della volontà, Martinetti rivolge l’attenzione alla volontà
razionale: “Procura, per mezzo di una seria riflessione sulla vita e sui suoi
compiti, di tracciare a te medesimo una legge ideale della condotta che si
estenda a tutta la tua vita: esprimila in un piccolo numero di massime chiare,
semplici, pratiche” (p. 91). Si tratta qui di un indirizzo rivolto
principalmente all’aspetto della coerenza della volontà che, pur procedente da
un pensiero consapevole, deve condensarsi in sentenze aventi un’apodittica
concisione e chiarezza per poter funzionare da criterio efficace.
Il controllo dei “risultati” è successivamente
affidato alla terza regola, relativa alla meditazione: “Dedica ogni giorno un
breve tempo alla meditazione della regola della tua vita; esamina e giudica,
con il suo aiuto, la tua condotta di ogni giorno; confortata con la lettura di
qualche libro dell’anima; tieni rigorosamente lontano da te ogni spettacolo,
ogni lettura, ogni parola che sia in contrasto con le tue convinzioni morali”
(p. 98).
La quarta valorizza la dimensione
della virtù come habitus, inteso al modo di uno strumento che ci
permette di far passare nella sfera subconscia comportamenti prima attuati con
dispendio di energie e ora, grazie alla ripetizione, divenuti meccanici. Grazie
a ciò, la vita morale progredisce perché lo sforzo della volontà si può
dirigere verso un obiettivo ulteriore e più alto. Quindi la regola parla di
“tradurre in pratica la tua norma di vita, assoggetta(re) l’attività tua, e
quanto al tempo e quanto al modo, ad una regolarità costante, in maniera di
trasformarla, per quanto possibile, in un sistema di abitudini” (p. 103).
L’ultima legge riguarda il fatto che l’educazione della volontà non è un fine perseguibile solipsisticamente: “Per rendere più facile e più sicura la subordinazione della tua vita ai tuoi fini supremi, associa i tuoi sforzi a quelli di coloro che percorrono la stessa via, ma ricordando sempre che l’associazione è mezzo, non fine, e che non deve soffocare ciò che vi è in te di più sacro, la libera volontà della tua personalità morale” (p. 110).
Questo piccolo apparato di saggezza pratica ha il pregio non
indifferente di essere formale, ovvero applicabile a diversi contenuti morali,
anche se invero, per Martinetti, il carattere formale dell’Uno-Bene ha anche
una dimensione materiale, coincidendo con un processo di unificazione e
universalizzazione della vita concreta, ossia ancora con una sorta di
purificazione razionale dell’esistenza fattuale, che giunge dalla multiforme e dispersa quotidianità fino ai principi
primi.
La semplicità delle massime, pur
raggiunta a chiusura di un ragionamento, se non complicato in sé, comunque
teoreticamente impegnato, ne costituisce un altro motivo di apprezzamento, a
vantaggio della vocazione pratica e dell’utilizzabilità dello scritto. In
generale una sua lettura attenta e condotta nello stesso spirito con il quale è
stato steso, cioè secondo l’idea di una concordanza di teoresi e prassi, di
vita e cultura, di ragione e volontà, appare in grado di produrre un impatto
fecondo nel lettore contemporaneo. Questi, ormai assuefatto alla vulgata
secondo cui “bisogna andare dove ti porta il cuore”, in un mondo che esalta in
ogni momento la dimensione estetica di una vita consegnata alla godibilità
dell’istante e al nomadismo irresponsabile dei fini e dei mezzi, può trovare
nel pensiero di Martinetti un vero e proprio antidoto che consente di inaridire
le fonti del suo disagio e dell’incapacità di individuare un senso al suo stare al
mondo (un senso reso irreperibile poiché soffocato nell’indifferente molteplicità
e disseminazione dei sensi).
Tutto ciò si determina rimanendo su un piano di
stimabilissimo rigore razionale, che guarda al religioso con occhio attento ma
inesorabilmente fermo contro ogni degenerazione sia nell’ipocrisia di tutto
quanto è puramente cultuale - dove il gesto liturgico è confinato alla sua pura apparenza sociale e il suo simbolismo è interrotto dalla vacuità del suo retroterra metafisico e teologico - sia nell’irragionevolezza frivola, quando non
fanatica, della sola, mutevole e incostante ispirazione carismatica - dove l'entusiasmo copre il medesimo vuoto di sostanza etica e spirituale.
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