Messer Chichibio, ci tramanda Boccaccio, è un cuoco arguto, ma con un debole per il sesso debole. Ricevuta dal suo padrone una gru e cucinatala con gran cura, cede alla tentazione della bella Brunetta e le concede di mangiarsi una coscia dell’animale. Compiuto il misfatto, si trova costretto a portare in tavola un arrosto monco, la cui menomazione è però subito notata dal signore, Corrado … "Vedremo domani, dice questi, se è vero quello che mi racconti, cioè se le gru hanno una zampa sola". In campagna, il giorno dopo, uno stormo di gru dormienti effettivamente si regge su un solo arto, ma, scosse dal sonno con un energico oooh ooooh, gli uccelli scappano tirando fuori anche il secondo. Il cuoco è messo alle strette e per lui si annuncia un esito infausto della vicenda, visto che già Corrado lo apostrofa minacciosamente come ghiottone. Ma a questo punto salta fuori una risposta al confine tra l’ironia, la presa in giro e il colpo di genio: “Messer, sì, ma voi non gridaste oh oh a quella di iersera, ché se così gridato aveste, ella avrebbe così l’altra coscia e l’altro pié fuor mandata, come hanno fatto queste”. Al padrone “piacque tanto questa risposta che tutta la sua ira si convertì in festa e riso”.
Noi, dunque, siamo messi in guardia, quando entriamo nel bel ristorante che reca il nome di questo sveglio chef innamorato e audace: potremmo trovarci nel piatto qualche manicaretto debitamente riporzionato, e incappare in qualche spiegazione raffinatamente ironica e autoassolutoria. Ma in realtà si tratta di qualcosa di più profondo. Chichibio è “il cuoco” perché compito della cucina è l’artificio, il savoir-faire che manipola la sua materia che non è più cibo ma diventa piatto. Dunque l’astuzia è quella della mano e della sapienza, e l’arguzia è l’intelligente trovata tecnica, la geniale scorciatoia del camminatore esperto che porta i suoi amici alla tavola in un “finale di festa e riso”, cioè alla meta del gusto.
E devo dire che lo chef Piero, che ci ha onorato di una visita all’officina dove si forgiano le sue creazioni, onora in modo speciale questa sua vocazione alla buona e godibile artificialità culinaria. Così Chichibio è diventato per noi al tempo stesso una Beatrice dantesca perché, se ben pensata, una cena è un viaggio, e, se ben confezionata, sa meravigliare come una commedia, non dico divina, ma umana nel più squisito dei modi.
Ma ogni viaggio ha il suo paesaggio, in cui è incastonato come una pietra preziosa in un anello. Il nostro speciale orizzonte è stato quello dell’antica Villa dei Priori di Monsampolo del Tronto, con un parco verdissimo e morbido, ombreggiato da noci, magnolie e secolari pini marittimi. Qui un casale della metà del secolo XIX, nella forma architettonica di una tradizionale villa agricola, è stato completamente ristrutturato per diventare il luogo di un'ospitalità che va oltre la semplice ristorazione e offre stanze finemente arredate con gusto belle époque da Gino, vero e proprio artista di casa, in un ambiente ricco di storia e di bellezza che la gentilissima Lucia ci mostrato, quasi a soddisfare gli occhi prima che il palato.
Con questo bagaglio vintage, ci siamo allora messi in cammini lungo il primo cielo del nostro universo gustativo, laddove abbiamo incontrato tre preludi di grande bellezza: pesciolini fritti in saor, mazzancolle su un letto di crema di patate con una decorazione di porri fritti e croccanti e carpaccio di spigola e panzanella. Notevole qui è stata l’aggiunta di un filo di olio crudo, con la sua naturale leggera piccantezza, nella crema di patate, e il contrasto tra la dolcezza del pomodorino della panzanella e la nota acidula della spigola marinata. Dai contrasti nobile armonia, dice Eraclito, e ciò che vale per il cosmo a maggior ragione funziona per il microcosmo gastronomico!.
Dopo il preludio ecco la vera e propria suite musicale del primo piatto, un cielo ancora più alto che ospita degli spettacolari spaghetti con frutti di mare, scampi, vongole, cozze, canocchie e pomodorini leggermente piccanti. Il profumo annuncia le successive complesse sensazioni date dall’incontrarsi dei sapori del mare nella cremosità del loro condimento, una sorta di linfa delicata in grado di legarsi gentilmente ad ogni spaghetto portando il messaggio saporoso del crostacei. Ma l’eccezionalità del piatto risiede nella qualità della pasta proveniente dal pastificio Mancini, un’eccellenza marchigiana che offre grani selezionati, trafilatura in bronzo ed essiccatura lenta e a bassa temperatura. La cottura di questo spaghetto ci è parsa pure eccezionalmente azzeccata: abbiamo ricevuto l’impressione che con un secondo in più o un secondo in meno non sarebbe stata la stessa cosa, e non si sarebbe raggiunto il risultato perfetto di lasciarsi masticare resistendo al dente, ma con docilità, quasi che ogni boccone fosse una piccola vittoria, una piccola soddisfazione da ripetersi ad ogni forchettata, in modo da non stancarsi mai attendendo la successiva.
A proseguire, la stessa felice armonia di contrasti abbiamo incontrato nel secondo: l’originale accostamento di un filetto di branzino con delle patatine tagliate a chips che ha unito morbidezza, croccantezza e delicatezza dei sapori: la patatina con pochissimo sale, lasciava infatti spazio alla spigola che sciogliendosi in bocca trovava sporadici episodi di croccante che offrivano quella variazione di toni e consistenze che è uno dei segreti del gusto.
A questo crescendo sensoriale non mancava che il dolce, potremmo dire il cielo dantesco delle stelle fisse, di molto vicino al sole che tutto illumina. È stato un gran finale: parfait alla menta e cioccolato. Si dice parfait perché è perfetto: spumoso come una mousse, morbido come un sorbetto e non ancora freddo come un gelato. Dentro questa matrice, per l’occasione aromatizzata alla menta, vagavano massi erratici di cioccolato fondente, tali per cui il classico accostamento after eight cioccolato-menta prendeva le forme di un big bang gustativo dentro un universo di sapori in accelerante espansione.
Al suo punto massimo, tutto doveva, però, tornare nella quiete, per legge dei cicli e della Giustizia: ecco allora nelle avvolgenti atmosfere del caffè e del rum Zacapa 23 años quella dolce tranquillità che lascia una sazietà goduta nell’allegra conversazione.
Che dire, messer Chichibio? Le tue astuzie e le tue arguzie le abbiamo sperimentate, ma non come il tuo padrone Corrado, un po’ esigente e minaccioso, bensì come seguaci e credenti di un maestro ricco che ci ha condotto dove il meglio smetteva di essere nemico del bene, ma i due continuamente giocavano a rincorrersi, in un gioco di sapienti artifici, e dove la natura e la cultura hanno smesso di litigare. In questa pace ci siamo goduti una passeggiata nella bellezza dei sensi e tutto “è finito in festa e riso”.
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