La Grecia in un anfiteatro romano: in questo caso la bellezza vince sulla filologia. Un monumento costruito nell’81 d.C. a Urbs Salvia, nella terra dei Piceni (oggi Urbisaglia, MC), destinato ad usi diversi, ha ospitato nella sua ampia arena in una splendida serata d’estate del 2022, le Supplici di Euripide del 423-21 a. C..La cornice spesso ha un ruolo importante nella riuscita del quadro e diciamo che in questo caso ha svolto degnamente il suo compito. In scena si sono presentate sette donne, l’intero cast, davanti all’ara allestita in onore di Demetra, dove tutto nella tragedia ha luogo in unità di tempo e di azione. Sono le madri dei sette eroi morti davanti a Tebe nel tentativo di conquistarla, durante sfortunata impresa del re di Argo, Adrasto. Questi era intervenuto militarmente a sostegno del genero Polinice, originario di Tebe e da lì esiliato. I tebani vittoriosi rifiutano di consegnare i corpi dei nemici vinti in battaglia. Per questo le donne affrante, guidate dal re sconfitto si recano ad Atene per chiedere la mediazione della potente città attica al fine di riavere i cadaveri e poter celebrare i riti funebri come impone la legge pietosa degli dei e degli uomini. Teseo, guida della democrazia ateniese, prima riluttante a farsi coinvolgere in questioni che non interessano direttamente la sua città, convinto dalla madre a farsi paladino della giustizia, non senza un ragionamento più squisitamente politico, decide di intervenire. L’ambasciatore tebano, orgoglioso della forza della sua patria, nemmeno accenna a un minimo ammorbidimento della sua posizione e ciò porta necessariamente al conflitto. La vittoria ateniese consentirà finalmente alle madri argive non di avere sollievo ma di poter esprimere in modo pieno e assoluto il dolore per i figli persi. Atena, nella sua epifania finale, consiglierà di trasformare tutto questo avvenimento in un’opportunità politica, garantendosi l’eterna fedeltà politico-militare di Argo, le cui generazioni future vengono peraltro invitate a preparare la vendetta contro Tebe.
La tragedia è sicuramente un canto al dolore muliebre e materno che attraversa l’intera trama, pur ricca di motivi diversi. Si tratta di un dolore inconsolabile che, con paradosso umanissimo, è aggravato dalla mancanza del corpo dei figli e dei correlativi riti funebri, ma non è per niente alleviato dalla loro presenza. Questo è esattamente il tragico: le donne soffrono perché non hanno qualcosa, ma quando la ottengono soffrono ancora di più. Al dolore non c’è rimedio. Accanto a tale a motivo si colloca quello di un certo ottimismo politico. Atene e il suo capo sono chiamati ad essere vindici della grave ingiustizia patita dagli argivi e perpetrata dai tebani - gli uni deboli, gli altri tracotanti - e vi riescono non senza che la trama mostri un certo orgoglio per la capacità ateniese di confermarsi “impero del Bene” con un peculiare “interventismo della Giustizia” che rende appunto giusti e forti al tempo stesso. Netto risulta pertanto il contrasto tra il disegno politico di un potere dei più buoni (“nelle umane cose stimo che il ben soverchi il male”, dice Teseo – tr. it di E. Romagnoli) e l’antiutopia di una concezione quasi disperata della condizione umana. Alla retorica politica, fa da contraltare una persuasione etica più profonda e definitiva: non il trionfo di Atene conta, ma la duplice sconfitta delle madri - sconfitta senza i figli e sconfitta con loro - e nel caso di uno dei sette soldati uccisi, anche di una moglie che, alla ricerca dell’unica redenzione possibile, si getta nel rogo dove sta bruciando il cadavere del marito, per consegnarsi all’unico destino accettabile, quello di essere morta come lui e con lui. Questi temi emergono prepotenti dal testo, ma dobbiamo dirlo, non già grazie alla rappresentazione, bensì quasi nonostante essa.
Anzitutto piace alla regia di Serena Sinigaglia la questione della democrazia, come lei stessa spiega nella presentazione del suo spettacolo al pubblico: “La democrazia ateniese fa acqua da ogni parte, contraddice i suoi stessi valori, è populismo che finge di affermare i sacri valori della libertà. È manipolazione a tratti grossolana, si chiama democrazia ma assomiglia troppo ad un’oligarchia. Sembra lo strumento migliore per scansare la responsabilità e restare a ogni costo, sempre e comunque, impuniti. È la legge del più forte, anche se apparentemente garantisce spazio e parola a tutti”. Ad occhi moderni la perorazione democratica di Teseo nell’episodio della disputa contro l’ambasciatore tebano, difensore della monarchia, può certamente apparire così. Me il legame democrazia-tirannide era qualcosa di assodato nella Grecia classica, tanto che diviene oggetto della refutatio platonica della Repubblica, dove però tale legame, prima di essere condannato, è addirittura considerato necessario. Che una persona, forte, decisa e capace (anche se non sempre onesta) “rappresenti” il popolo e la sua “libertà” fa scandalo solo per un liberale del XIX-XXI sec., non per un uomo del V sec. a.C.. In ogni caso anche l’argomentazione monarchica è difesa con una certa forza ed efficacia:
“La città dalla quale son giunto, è governata
da un uomo sol, non da la folla. E alcuno
quivi non è che a ciance esalti il popolo
pel proprio lucro, e qua e là lo volga.
Tutti miele, costor, tutti lusinghe
son pria, che in danno poscia si convertono.
E con calunnie nuove allor nascondono
gli antichi falli, e alla giustizia sfuggono.
D'altronde, come mai potrebbe il popolo,
che guidare non sa neppure il proprio
razïocinio, reggere uno stato?”
… Sono argomentazioni già classiche all’epoca di Euripide. Teseo ne riconosce il valore (“è sottil questo araldo, e di parole artefice sagace”). Direi che anche oggi mantengono inalterata la loro capacità di provocare. Ma nel dipanarsi degli eventi, accade che il capo ateniese, dopo aver accettato la sfida dialettica, affinché la disputa non si protragga oltre in un batti e ribatti senza vincitori e vinti, la tronca d’autorità (“tu chiacchieri piú del bisogno; e un messaggero esporre dovrebbe quanto gli fu imposto, e andarsene alla piú spiccia”), segno da un lato del suo interesse, dall’altro del fatto che, contrariamente a quanto la regista sembra voler sostenere, non è quello il focus del dramma (altrimenti saremmo di fronte a un dialogo sofistico-socratico-platonico e non a una tragedia!). E se di politica si parla non è certo nei termini di un’argomentazione in purezza, da storico tucidideo, sebbene l’Atene di Teseo assomigli molto per vanità imperialista a quella che impone ai Meli la sua egemonia, fatto salvo il diversissimo apparato logico-etico-discorsivo.
Si tratta piuttosto, qui la regista ha ragione, di una certa sfera condivisa del sacro e di ciò che è bene e male nella concreta esperienza umana, soprattutto in quella del dolore e della perdita. Si tratta di un certo umanesimo che deve per forza emergere quando la politica e la guerra vengono guardate da dentro, soprattutto attraverso lo sguardo dello sconfitto. È l’interrogazione drammatica che sorge in interiore homine quando il dolore prende piede, invade l’anima dell’uomo e fatalmente si manifesta come la rivendicazione delle ragioni dell’interno contro la logica del mondo. Le donne, le madri ne sono naturali portatrici, ma non le sole. Ben sa l’araldo tebano che
“Quando
nell'assemblea del popolo si mette
la guerra ai voti, nessun v'è che in conto
ponga la propria morte; e la sciagura
storna su gli altri ognor. Se invece, quando
vota la guerra, ognuno innanzi agli occhi
la guerra avesse, l'Ellade in rovina
mai non andrebbe per manía di guerre.
Eppure, ogni uomo il bene e il mal distingue,
e bene giudicar fra guerra e pace
sa, quanto questa sia miglior di quella”.
Le madri aggiungono “il pianto dei cigli”, e le “impronte che incidono le mani sulle [loro] membra pallide” e lo spasimo che [le] invade”, le loro vesti squallide e le loro urla che assomigliano a ululati, le “bianche unghie” che lacerano le loro guance e la brama insaziabile di continuare a piangere. Il femminile qui oscilla tra l’intelligenza astuta della madre di Teseo che convince il figlio a intervenire a loro favore, anche per calcolo politico, e la violenza del patetico. Nulla a che vedere con l’ispirazione vagamente femminista di “un viaggio di ricostruzione e conoscenza”, come afferma la regia… Nulla a che vedere con la pretesa delle sette bravissime attrici di occupare dentro la rappresentazione anche ruoli maschili, costringendo lo spettatore a seguire con troppa acribia i repentini passaggi di sesso e di carattere, solo accompagnati da qualche scarna simbologia, per esempio una corazza per Teseo.
Questa tragedia di donne, insomma, è di per sé lontana dagli stereotipi dell’emancipazione e della fluidità, in cui la correttezza politica la vorrebbe rinserrare, ma anche da altri luoghi più o meno comuni con cui una sceneggiatura a dir poco allegra ha voluto interpolare e/o mutilare il testo, ferendo con una lancia nel costato la costruzione drammatica euripidea. Che dire, infatti, della sepoltura dei corpi che passa da “giusta richiesta” di Adrasto a “diritto inalienabile”? Che pensare di una lamentazione sul potere “a-morale” che “vuole solo durare” compiuta mediante uno xenotrapianto dal Principe di Machiavelli? Come valutare la censura dell’etica tradizionale – dulce e decorum est pro patria mori – quando dalla bocca dello stesso Adrasto si cancella l’elogio finale degli eroi argivi morti, accennato solo per Capaneo e omesso per gli altri?
Troppa attualità stroppia. C’è poca fiducia nel lasciare allo spettatore la libertà ermeneutica nel fondere i suoi orizzonti con lo spettacolo antico, mentre abbonda la voglia di “pappa pronta” ideologica. Lo spettatore, così depredato, viene nondimeno chiamato a fare un salto nell’antico a prescindere dalla scena, dai costumi e financo dall’identità sessuale dei personaggi: onere pesantissimo e lavoro che potrebbe essere risparmiato!
Qualcuno risponderebbe: “È il teatro moderno, bello mio!” (appunto!), in cui i personaggi salgono sul palco in cerca d’autore e la rappresentazione finisce per rappresentare se stessa, con somma frustrazione del fanciullino che nello spettatore ambirebbe a vedere uno spettacolo e non la didascalica riflessione di una sociologia/filosofia politica for dummies.
Ma Euripide si vendica alla fine con un elogio della vendetta, auspicata da Atena e comandata ai figli degli argivi:
“E dico ai figli
degli Argivi: poiché giunti sarete
a pubertà, per vendicar la morte
dei padri spenti, a sacco la città
dell'Ismeno porrete. E tu sarai
invece di tuo padre, Egïalèo,
giovin duce alle schiere; e dall'Etolia
il figlio di Tidèo verrà, che il padre
chiamar soleva Dïomede. E attendere
non dovete che il mento a voi s'imbruni,
ma pria muover le schiere dei Danàidi
gravi di bronzo contro la turrita
città di Tebe dalle sette porte.
Feroci come di leoni cuccioli
già fatti adulti, contro lor sarete,
espugnerete Tebe: è tale il fato.
Detti sarete tra gli Ellèni epígoni,
vi canteranno i vati: una tal gesta
compiuta avrete col favor dei Numi”.
Prima era stato detto che “vendetta chiama vendetta e sterminio chiama sterminio”, ora si dice che la vendetta è una necessità cosmico storica. Ciò significa ribadire che, se questa è la condizione umana, dal dolore non si esce e mentre i figli vendicheranno i padri e il dolore della madri, altre madri piangeranno. Ma questa è la verità dell’uomo che non si lascia manipolare da qualche wishful thinking. Euripide suggerisce che in fondo gli dei preferiscono la vitaccia che facciamo al mondo degli ultracorpi servito dall’ideologia. E questo è luce.
Ah com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire! direbbe il maestro siciliano… A volte i maestri greci, anche quando maltrattati, fanno baluginare raggi di sole.
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Bravissimo Massimo. Recensione eccellente!
RispondiEliminaGrazie mille e un carissimo saluto, MM
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