Si può parlare con una qualche
sensatezza della morte? Si può rinunciare a parlarne? Ogni discorso sulla morte
si situa tra queste due domande e procede tentoni con il solo appiglio della
nostra volontà di conoscere e di vivere. Scrivere un libro su questo tema è,
d’altro canto, molto difficile. Di solito si scrive un testo quando si è
esperti dell’argomento trattato. Ma chi mai può dirsi esperto del morire? E
quand’anche avessimo studiato e riflettuto per una vita intera sulla morte, potremmo assicurarci mai qualcosa che ci
serva quando a morire saremo noi?
Visto tuttavia il problema ancora
dall’altro lato: quale ragionamento noi riteniamo profondamente vero che non
sia posto sul limitare della fine, dove ogni verità pare abbia origine? Quale
vita può accogliere una parvenza di plausibilità e di senso, che non sia posta
di fronte all’indilazionabile, alla necessità assoluta di stabilire un termine
a tutte le pratiche dilatorie e a porsi il problema fondamentale del senso?
La morte dunque si colloca nella
sua ambiguità misteriosa tra l’impossibilità del linguaggio e la sua necessità,
tra l’impossibilità della conoscenza e la sua necessità, e quindi tra
l’impossibilità dell’essere e la sua necessità.
Così ce la rimanda Virgilio
Melchiorre nel suo Al di là dell’ultimo.
Filosofie della vita e filosofie della morte, Vita e Pensiero, Milano, 1998, un libro che, malgrado il sapiente
utilizzo di tutti i mezzi tecnici di una filosofia raffinata, mantiene la
freschezza del dilettante - termine sommamente inappropriato - cioè
dell’indagine strutturalmente aperta e umilmente consapevole della sua necessaria
incompletezza, del suo inevitabile balbettio (un balbettio di ignoranza e paura
che tutti attanaglia di fronte alla signora con la falce).
Lo studioso della Cattolica di
Milano entra subito in medias res
avanzando la questione del senso, ovvero dello sprofondare nell’assoluta
insignificanza che è proprio della morte, epperò del riferimento necessario di
tale insignificanza ad uno sfondo più originario di significatività. È in
effetti tale sfondo che rende possibile la domanda sulla morte, è una sorta di
sapere vaghissimo, eppure positivo, che permette di dire e pronunciare la
stessa parola “morte” venendo compresi dall’interlocutore. Insomma, contrariamente
a quanto diceva Epicuro nella sua famosa (o famigerata?) Epistola a Meneceo, è fuorviante pensare che “quando c’è la morte
non ci siamo noi e viceversa”. Non è vero che si tratta di un fenomeno che
porta con sé un’alterità assoluta che da un lato ci costringe al silenzio e
dall’altro ci consola e tranquillizza. A parte il fatto che tale ragionamento
non elimina l’angoscia e il “terrore del non esserci più”, come giustamente
rileva Jaspers; a parte l’errore sensistico, per il quale il bene e il male
starebbero nella percezione sensibile: “Il male è nel senso e non nell’attesa”
(errore psicologico del massimo rilievo); bisogna tenere conto che di tutto ciò
di cui parliamo e ci domandiamo abbiamo sempre una pre-comprensione. Come dice
Heidegger nell’incipit di Essere e tempo, ogni cercare prende le
mosse dal cercato: senza sapere nulla di nulla, su nulla ci si può interrogare.
Dunque la morte c’interessa come qualcosa di cui è possibile sapere e se ci fa
paura, lo fa come qualcosa che c’interpella ogni giorno della nostra vita. La
domanda che formula Melchiorre è allora: “Da dove ci viene questa
pre-comprensione della morte?”. Solo a partire da una possibile risposta a tale
domanda ci si potrà inoltrare ad un tentativo di comprensione.
Ma prima di passare a questa fase
della sua ricerca, Melchiorre, sgombra il campo da due atteggiamenti facilmente
riscontrabili in coloro che si accostano riflessivamente al tema della morte,
quello della banalizzazione e quello tautologico della consolazione (che io
chiamerei “olistica”). Il primo consiste in ciò che gli psicologi
indicherebbero con la parola “evitamento”. Si tratta della famigerata fuga nel
“si”, stigmatizzata da Heidegger, per cui “si” muore, e quel “si” allude al
fatto anonimo di una morte in generale, di una morte che è sempre morte
d’altri, e che come tale non arriva mai ad interpellarci nel profondo. La morte
viene così ridotta a chiacchiera, per lasciare spazio a qualcosa che è ritenuto
di maggior pregio, ossia a tutte le nostre occupazioni quotidiane, quelle sì
veramente importanti. È la riduzione retorica del morire, in virtù della quale
si consiglia di non guardare una realtà, pur imminente e decisiva, “perché ne
resteremmo turbati”. Dal punto di vista filosofico, quindi teoreticamente più
raffinato, personaggi come Montaigne o
L’altro atteggiamento confutato
da Melchiorre ha indubbiamente più peso e una storia più nobile. Dai
presocratici a Platone, fino a Kant, Hegel e Schopenhauer, con accenti molto
diversi, eppure talora convergenti, è stata adombrata la possibilità che la
morte preludesse ad una sorta di ricongiungimento con il tutto, con
l’ineffabile e l’inspiegabile, in cui l’individuo verrebbe a perdersi e nello
stesso tempo a realizzarsi definitivamente. Non di rado si è trattato di una
razionalizzazione di coeve e parallele credenze religiose, in altri casi della
fideizzazione di un atteggiamento filosofico. In ogni caso, gettando uno
sguardo sufficientemente disincantato su un tale contesto interpretativo, non
si riesce ad evitare la sensazione di presa in giro (ma questa è una mia
opinione personale, che non attribuisco surrettiziamente al sobrio Melchiorre,
così come sono personali le considerazioni che seguono). Sì perché se ci si
vuole consolare, lo si faccia, ma con un certo stile! Che cosa significa,
infatti, quest’annullamento “olistico” nel tutto per noi che siamo individui
concreti e particolari? Significa proprio morire, cioè venir meno in modo
completo e assoluto. Infatti, nell’identificazione con l’universo dello Spirito
o della Volontà o della Natura o di quant’altro, noi non siamo più noi, ma
qualcosa di completamente diverso, ovvero appunto lo Spirito,
Una volta sottolineata
l’intrinseca debolezza delle figure teoretiche dell’annullamento e
dell’identificazione del finito individuale nell’universale infinito,
Melchiorre procede nella sua indagine, cercando di individuare la radice della
nostra precomprensione della morte, cioè del sapere che fa da sfondo ad ogni
nostro discorso attorno ad essa. Tale sapere prende le mosse inevitabilmente
dalla morte d’altri. Non è quindi il senso di consumazione suggerito dallo
scorrere del tempo e dal nostro invecchiamento, come dice Scheler, infatti
l’idea che il passato, con l’avanzare degli anni, cresca e il futuro diminuisca
non è dovuta allo scorrere di un tempo che ci introduce alla cognizione della
morte, ma al fatto che noi sappiamo che dobbiamo morire. È la morte che ci
aiuta a prendere sul serio il tempo, come afferma giustamente Jankélévitch, e
non viceversa. Parimenti non è congruo segnalare nell’angoscia, come sentimento
connesso alla nostra originaria gettatezza a partire dal nostro proprio
non-esserci, l’indizio del fatto che noi anticipiamo la morte come possibilità
sempre latente del ripetersi di quello stesso nostro non-esserci, secondo il
ben noto adagio heideggeriano. Infatti una finitezza immortale, per cui si
nasce ma non si muore, non è di per sé contraddittoria. Invece, dice
Melchiorre, il possibile della morte non può essere né pensato, né emotivamente
compreso, se non a partire da una qualche attualità che lo abbia rivelato: la
morte come ripetizione dell’esser-gettati originario nella fine di ciò che è
davanti a sé, ha bisogno di un indicatore, di un attivatore che la presenti
all’esperienza emotivo-razionale attuale. Tale indicatore consiste in
un’occasione, in un’esperienza di morte che noi abbiamo in qualche modo
interiorizzato e quest’ultima, a sua volta, coincide con la morte del nostro
prossimo.
Qui sta il centro della nostra
precomprensione del morire: la morte di chi ci è vicino, e in particolare di
chi ci è caro, rappresenta un ferita nel
Mit-sein che noi siamo, cioè nel
nostro essere-con-gli-altri che ci caratterizza nel profondo. La morte spezza
le connessioni che costituiscono l’identità degli uomini che comunicano fra
loro e rivela la loro singolare e irripetibile reciprocità. Noi siamo reciproci,
non c’è identità che si costituisca monadicamente e in modo irrelato. Noi siamo
aperti, da sempre chiamati dall’altro e restituiti dall’altro a noi stessi. Non
c’è progetto, non c’è pensiero, non c’è agire che non sia transitivo. La morte
propriamente fa mancare l’altra sponda del nostro progetto, pensiero, agire.
Con essa viene meno il “noi” che noi avevamo formato assieme al morto e di
conseguenza anche una parte di noi se ne va nell’impossibilità di proseguire il
dialogo che dava vita a quel “noi”, e dunque a quello specifico “io” che
esisteva solo con il “tu” di quel “noi”. Questo è il peculiare vissuto di morte
che ci assale al morire del nostro amico o del nostro caro, e solo attraverso
tale vissuto sperimentiamo, sebbene solo per
speculum in aenigmate, il senso profondo del morire.
Il vissuto in questione è un
vissuto di perdita, è nientificazione che genera angoscia. E qui ha ragione
Heidegger: la capacità di provare angoscia è l’organo di percezione del
nientificare della morte. Ma tale nientificare può costituire qualcosa, può generare
qualcosa e, nella situazione emotiva dell’angoscia, che è pur sempre un modo
del comprendere proprio della coscienza, quest’ultima può rivolgersi al puro
nulla come ad un suo oggetto intenzionale? In realtà, osserva il nostro autore,
il niente di cui abbiamo esperienza, pur nell’abissale sprofondamento
dell’angoscia, non potrebbe riconoscersi se non sullo sfondo dell’essere. E
citando ancora il filosofo di Messkirch dice: “Il chiaro coraggio per
l’angoscia essenziale garantisce la misteriosa possibilità dell’esperienza
dell’essere,[...] L’angoscia dirada e custodisce quel luogo abitato dall’uomo,
entro il quale egli dimora stabilmente come a casa”. Insomma, la vita coscienziale
non può avere cognizione del negativo senza riportarla al parametro di un’originaria
e assoluta positività, cioè all’essere come condizione incircoscrivibile, come
luce essenziale che “permette il rilievo di ogni determinazione finita”, vale a
dire il nostro stesso rapporto di comprensione dell’universo delle cose e degli
uomini. Si tratta peraltro di una luce che in positivo ci è offerta dal
continuo trasgredire della coscienza - nel suo intenzionale rapportarsi alle
cose - da un rilievo ad uno sfondo e da quello ad un altro sfondo più ampio,
verso una totalità d’essere, mai data “in atto” (non si dà infatti l’infinito
in atto) e tuttavia presupposta in ogni fase percettiva quale suo radicale
fondamento. È da tale costitutiva trasgressività verso la luce dell’essere che
nasce lo scandalo per le tenebre del nulla. Uno scandalo al quale si fa fronte
rendendosi consapevoli che queste ultime non rappresentano in verità
un’indicibile e contraddittorio niente di niente, bensì solo un velo che custodisce ciò che non è mai qualcosa di
semplicemente essente e che
nell’essente soltanto si indica.
Ed è in fondo questo il senso
della morte, cioè il senso di un velo
che custodisce la luce abissale dell’essere dal sempre risorgente tentativo
umano di farsene signore. Quando Giobbe riceve da Dio la risposta alla sue domande,
noi diremmo, di teodicea (e si sente dire, in sostanza, con una sentenza che le
delegittima alla radice: “Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della
terra?...” - Gb, 38,4) non subisce la ritorsione di un Dio prevaricatore (E.
Bloch), ma viene instradato ad una pedagogia della conoscenza che, nei riguardi
dell’essere, certamente contempla la forza appropriativa del logos, ma al
contempo l’attitudine al fiducioso abbandono proprio della fede. Dalla prima
noi guadagniamo l’idea dell’impossibilità del totale annullamento dell’essere
che noi siamo, dall’altra la consapevolezza che l’essere totale e pieno verso
cui si dirige la nostra coscienza è un essere che sempre ha da essere, che ora
ci è dato nel modo di un’alterità non ulteriormente determinabile e che infine,
nel pleroma della sua identità, ci sarà dato solo nella forma del dono. Il
senso del nostro esserci appare dunque come un direzionarsi verso l’essere
pieno del senso che ci si presenta come custodito nello scrigno del nulla della
morte, affinché la tentazione dell’insignorimento, del dominio, dell’esserne
padroni - sotteso, come possibilità, alla richiesta di spiegazione di Giobbe e
a tutte le imprese della ragione - non ne vanifichi per sempre il contenuto,
facendone proiezione del nostro sé mancante e della nostra misera mondanità.
Così la finitezza protegge e al tempo stesso esalta e promuove l’infinito, non
semplicemente negandolo, ma assegnandone a ciascuno una parte hic et nunc (della quale ora e adesso
dobbiamo fatalmente accontentarci) e assieme
la sua totalità come destino e dono.
L’appendice sulla morte di Gesù,
che conclude lo sforzo di Melchiorre, ci aiuta a mettere in evidenza il legame
tra il senso della morte, così come lo siamo venuti sintetizzando, e
l’antropologia relazionale che abbiamo constatato essere coinvolta in quel
morire che crea una frattura radicale nel nostro Mit-sein. Il morire di Gesù è in effetti un morire attraversato in
ogni suo elemento dal Mit-sein. È un
morire per altri, che lascia agli altri una tristezza immensa e un’eredità
ancor più grande e infine si consegna all’Altro, un Altro tanto tragicamente
assente e non posseduto nel Getsèmani e sulla croce - cioè al culmine
dell’angoscia - quanto sarà “presente” nella comunione trinitaria - fatto di
reciproca e totale autodonazione - cui il Cristo crocifisso va incontro. Si
tratta di un morire che, pertanto, adombra un salto qualitativo tra la
comunione, già profonda e inaggirabile, che è possibile vivere nel mondo e la
comunione che si è destinati ad accogliere come dono post-mortem, un salto che, seppure solo in via analogica, è
possibile pensare come prerogativa di tutti gli uomini quale condizione per
l’effettiva restituzione a ognuno, nel con-essere di fronte a Dio e ai santi,
dell’essere più vero che ognuno è. Questa attenzione alla vicenda di Cristo
conduce Melchiorre a rivisitare la morte non in modo semplicisticamente
ottimistico, ma attraverso la tragica esemplarità di un modello, in cui nulla è
nascosto del dolore e della lacerazione che si produce nel morente e in chi gli
sta vicino. In tale ricomprensione affiora però quella ragionevole fede
escatologica che fa dire non ad un qualsiasi mistico, ma G.W.F. Hegel, cioè al
campione della ratio occidentale: “Non
quella vita che indietreggia di fronte alla morte e si mantiene pura dalla
devastazione, bensì quella che porta in
sé la morte e nella morte si conserva, è la vita dello Spirito. Esso raggiunge
la propria verità solo quando ritrova sé nell’assoluta lacerazione”.
Nel complesso, dal testo di
Melchiorre verrebbe riproposta, all’interno della tradizionale alternativa che
un recente volume intitolato Morte, fine
o passaggio?, Rizzoli, Milano,
Tuttavia bisogna essere realisti
fino in fondo: bisogna dire, nel solco delle riflessioni di una figura arcaica
eppur non priva di fascino come Fredegiso di Tours, che il nulla e le tenebre
devono pur essere qualcosa (cfr. il trattatello scritto in forma epistolare De nihilo e tenebris, risalente al IX
sec. in J.-P. Migne, PL 105, coll.
751-756). Ma se sono qualcosa, giacché così potentemente incidono su di noi,
evidentemente non sono nulla. E allora è veramente probabile che Melchiorre ne
abbia colto il senso profondo quando li assume - con tratto dionisiano e
agostiniano - come un velo, come una
caligine, come una sorta di scrigno provvidenziale che protegge la luce
dell’essere dalle brame della nostra volontà di potenza. Un velo, una caligine
e uno scrigno che intrattengono un rapporto misterioso ma essenziale sia con il negativo che ci attacca e ci porta
vicini alla disfatta, sia con la speranza che ci sostiene e ci fa andare avanti.
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