sabato 11 maggio 2024

IL SENSO DEL MORIRE. Note su “Al di là dell’ultimo” di Virgilio Melchiorre

 

                                                            A Walter, la cui violenza ha rapito il cielo. 

Si può parlare con una qualche sensatezza della morte? Si può rinunciare a parlarne? Ogni discorso sulla morte si situa tra queste due domande e procede tentoni con il solo appiglio della nostra volontà di conoscere e di vivere. Scrivere un libro su questo tema è, d’altro canto, molto difficile. Di solito si scrive un testo quando si è esperti dell’argomento trattato. Ma chi mai può dirsi esperto del morire? E quand’anche avessimo studiato e riflettuto per una vita intera sulla morte, potremmo assicurarci mai qualcosa che ci serva quando a morire saremo noi?

Visto tuttavia il problema ancora dall’altro lato: quale ragionamento noi riteniamo profondamente vero che non sia posto sul limitare della fine, dove ogni verità pare abbia origine? Quale vita può accogliere una parvenza di plausibilità e di senso, che non sia posta di fronte all’indilazionabile, alla necessità assoluta di stabilire un termine a tutte le pratiche dilatorie e a porsi il problema fondamentale del senso?

La morte dunque si colloca nella sua ambiguità misteriosa tra l’impossibilità del linguaggio e la sua necessità, tra l’impossibilità della conoscenza e la sua necessità, e quindi tra l’impossibilità dell’essere e la sua necessità.

Così ce la rimanda Virgilio Melchiorre nel suo Al di là dell’ultimo. Filosofie della vita e filosofie della morte, Vita e Pensiero, Milano, 1998, un libro che, malgrado il sapiente utilizzo di tutti i mezzi tecnici di una filosofia raffinata, mantiene la freschezza del dilettante - termine sommamente inappropriato - cioè dell’indagine strutturalmente aperta e umilmente consapevole della sua necessaria incompletezza, del suo inevitabile balbettio (un balbettio di ignoranza e paura che tutti attanaglia di fronte alla signora con la falce).

Lo studioso della Cattolica di Milano entra subito in medias res avanzando la questione del senso, ovvero dello sprofondare nell’assoluta insignificanza che è proprio della morte, epperò del riferimento necessario di tale insignificanza ad uno sfondo più originario di significatività. È in effetti tale sfondo che rende possibile la domanda sulla morte, è una sorta di sapere vaghissimo, eppure positivo, che permette di dire e pronunciare la stessa parola “morte” venendo compresi dall’interlocutore. Insomma, contrariamente a quanto diceva Epicuro nella sua famosa (o famigerata?) Epistola a Meneceo, è fuorviante pensare che “quando c’è la morte non ci siamo noi e viceversa”. Non è vero che si tratta di un fenomeno che porta con sé un’alterità assoluta che da un lato ci costringe al silenzio e dall’altro ci consola e tranquillizza. A parte il fatto che tale ragionamento non elimina l’angoscia e il “terrore del non esserci più”, come giustamente rileva Jaspers; a parte l’errore sensistico, per il quale il bene e il male starebbero nella percezione sensibile: “Il male è nel senso e non nell’attesa” (errore psicologico del massimo rilievo); bisogna tenere conto che di tutto ciò di cui parliamo e ci domandiamo abbiamo sempre una pre-comprensione. Come dice Heidegger nell’incipit di Essere e tempo, ogni cercare prende le mosse dal cercato: senza sapere nulla di nulla, su nulla ci si può interrogare. Dunque la morte c’interessa come qualcosa di cui è possibile sapere e se ci fa paura, lo fa come qualcosa che c’interpella ogni giorno della nostra vita. La domanda che formula Melchiorre è allora: “Da dove ci viene questa pre-comprensione della morte?”. Solo a partire da una possibile risposta a tale domanda ci si potrà inoltrare ad un tentativo di comprensione.

Ma prima di passare a questa fase della sua ricerca, Melchiorre, sgombra il campo da due atteggiamenti facilmente riscontrabili in coloro che si accostano riflessivamente al tema della morte, quello della banalizzazione e quello tautologico della consolazione (che io chiamerei “olistica”). Il primo consiste in ciò che gli psicologi indicherebbero con la parola “evitamento”. Si tratta della famigerata fuga nel “si”, stigmatizzata da Heidegger, per cui “si” muore, e quel “si” allude al fatto anonimo di una morte in generale, di una morte che è sempre morte d’altri, e che come tale non arriva mai ad interpellarci nel profondo. La morte viene così ridotta a chiacchiera, per lasciare spazio a qualcosa che è ritenuto di maggior pregio, ossia a tutte le nostre occupazioni quotidiane, quelle sì veramente importanti. È la riduzione retorica del morire, in virtù della quale si consiglia di non guardare una realtà, pur imminente e decisiva, “perché ne resteremmo turbati”. Dal punto di vista filosofico, quindi teoreticamente più raffinato, personaggi come Montaigne o La Rochefocauld hanno suggerito simili stratagemmi diversivi, appesi al loro scettico carpe diem con leggera ma in fondo disperata noncuranza.

L’altro atteggiamento confutato da Melchiorre ha indubbiamente più peso e una storia più nobile. Dai presocratici a Platone, fino a Kant, Hegel e Schopenhauer, con accenti molto diversi, eppure talora convergenti, è stata adombrata la possibilità che la morte preludesse ad una sorta di ricongiungimento con il tutto, con l’ineffabile e l’inspiegabile, in cui l’individuo verrebbe a perdersi e nello stesso tempo a realizzarsi definitivamente. Non di rado si è trattato di una razionalizzazione di coeve e parallele credenze religiose, in altri casi della fideizzazione di un atteggiamento filosofico. In ogni caso, gettando uno sguardo sufficientemente disincantato su un tale contesto interpretativo, non si riesce ad evitare la sensazione di presa in giro (ma questa è una mia opinione personale, che non attribuisco surrettiziamente al sobrio Melchiorre, così come sono personali le considerazioni che seguono). Sì perché se ci si vuole consolare, lo si faccia, ma con un certo stile! Che cosa significa, infatti, quest’annullamento “olistico” nel tutto per noi che siamo individui concreti e particolari? Significa proprio morire, cioè venir meno in modo completo e assoluto. Infatti, nell’identificazione con l’universo dello Spirito o della Volontà o della Natura o di quant’altro, noi non siamo più noi, ma qualcosa di completamente diverso, ovvero appunto lo Spirito, la Volontà etc. Data inoltre la strutturale indefinibilità di questo tutto, la cui identità propria ci sfugge e non è mai comprensibile, dire infine che sprofondando in esso si sprofonda nel nulla appare tutt’altro che balzano. Pertanto - ed ecco la dimensione tautologica che osservavo in questo atteggiamento - non è più possibile opporre tale argomento come consolazione all’idea della morte come nulla di nulla (nihil negativum), giacché alla fine sembra necessario che vi coincida. Questo è quello che Adorno rifiuta nella filosofia dell’identità, il suo scadere propriamente in una mitologia sottoforma di pensiero, che del mito, aggiungo, assume la parte irrazionale e deteriore, inducendo gli uomini ad un’illusoria Gelassenheit che dimentica il dolore e la domanda di senso sottesa all’effettiva tragicità della loro concreta finitezza.

Una volta sottolineata l’intrinseca debolezza delle figure teoretiche dell’annullamento e dell’identificazione del finito individuale nell’universale infinito, Melchiorre procede nella sua indagine, cercando di individuare la radice della nostra precomprensione della morte, cioè del sapere che fa da sfondo ad ogni nostro discorso attorno ad essa. Tale sapere prende le mosse inevitabilmente dalla morte d’altri. Non è quindi il senso di consumazione suggerito dallo scorrere del tempo e dal nostro invecchiamento, come dice Scheler, infatti l’idea che il passato, con l’avanzare degli anni, cresca e il futuro diminuisca non è dovuta allo scorrere di un tempo che ci introduce alla cognizione della morte, ma al fatto che noi sappiamo che dobbiamo morire. È la morte che ci aiuta a prendere sul serio il tempo, come afferma giustamente Jankélévitch, e non viceversa. Parimenti non è congruo segnalare nell’angoscia, come sentimento connesso alla nostra originaria gettatezza a partire dal nostro proprio non-esserci, l’indizio del fatto che noi anticipiamo la morte come possibilità sempre latente del ripetersi di quello stesso nostro non-esserci, secondo il ben noto adagio heideggeriano. Infatti una finitezza immortale, per cui si nasce ma non si muore, non è di per sé contraddittoria. Invece, dice Melchiorre, il possibile della morte non può essere né pensato, né emotivamente compreso, se non a partire da una qualche attualità che lo abbia rivelato: la morte come ripetizione dell’esser-gettati originario nella fine di ciò che è davanti a sé, ha bisogno di un indicatore, di un attivatore che la presenti all’esperienza emotivo-razionale attuale. Tale indicatore consiste in un’occasione, in un’esperienza di morte che noi abbiamo in qualche modo interiorizzato e quest’ultima, a sua volta, coincide con la morte del nostro prossimo.

Qui sta il centro della nostra precomprensione del morire: la morte di chi ci è vicino, e in particolare di chi ci è caro,  rappresenta un ferita nel Mit-sein che noi siamo, cioè nel nostro essere-con-gli-altri che ci caratterizza nel profondo. La morte spezza le connessioni che costituiscono l’identità degli uomini che comunicano fra loro e rivela la loro singolare e irripetibile reciprocità. Noi siamo reciproci, non c’è identità che si costituisca monadicamente e in modo irrelato. Noi siamo aperti, da sempre chiamati dall’altro e restituiti dall’altro a noi stessi. Non c’è progetto, non c’è pensiero, non c’è agire che non sia transitivo. La morte propriamente fa mancare l’altra sponda del nostro progetto, pensiero, agire. Con essa viene meno il “noi” che noi avevamo formato assieme al morto e di conseguenza anche una parte di noi se ne va nell’impossibilità di proseguire il dialogo che dava vita a quel “noi”, e dunque a quello specifico “io” che esisteva solo con il “tu” di quel “noi”. Questo è il peculiare vissuto di morte che ci assale al morire del nostro amico o del nostro caro, e solo attraverso tale vissuto sperimentiamo, sebbene solo per speculum in aenigmate, il senso profondo del morire.

Il vissuto in questione è un vissuto di perdita, è nientificazione che genera angoscia. E qui ha ragione Heidegger: la capacità di provare angoscia è l’organo di percezione del nientificare della morte. Ma tale nientificare può costituire qualcosa, può generare qualcosa e, nella situazione emotiva dell’angoscia, che è pur sempre un modo del comprendere proprio della coscienza, quest’ultima può rivolgersi al puro nulla come ad un suo oggetto intenzionale? In realtà, osserva il nostro autore, il niente di cui abbiamo esperienza, pur nell’abissale sprofondamento dell’angoscia, non potrebbe riconoscersi se non sullo sfondo dell’essere. E citando ancora il filosofo di Messkirch dice: “Il chiaro coraggio per l’angoscia essenziale garantisce la misteriosa possibilità dell’esperienza dell’essere,[...] L’angoscia dirada e custodisce quel luogo abitato dall’uomo, entro il quale egli dimora stabilmente come a casa”. Insomma, la vita coscienziale non può avere cognizione del negativo senza riportarla al parametro di un’originaria e assoluta positività, cioè all’essere come condizione incircoscrivibile, come luce essenziale che “permette il rilievo di ogni determinazione finita”, vale a dire il nostro stesso rapporto di comprensione dell’universo delle cose e degli uomini. Si tratta peraltro di una luce che in positivo ci è offerta dal continuo trasgredire della coscienza - nel suo intenzionale rapportarsi alle cose - da un rilievo ad uno sfondo e da quello ad un altro sfondo più ampio, verso una totalità d’essere, mai data “in atto” (non si dà infatti l’infinito in atto) e tuttavia presupposta in ogni fase percettiva quale suo radicale fondamento. È da tale costitutiva trasgressività verso la luce dell’essere che nasce lo scandalo per le tenebre del nulla. Uno scandalo al quale si fa fronte rendendosi consapevoli che queste ultime non rappresentano in verità un’indicibile e contraddittorio niente di niente, bensì solo un velo  che custodisce ciò che non è mai qualcosa di semplicemente essente e che nell’essente soltanto si indica.

Ed è in fondo questo il senso della morte, cioè il senso di un velo che custodisce la luce abissale dell’essere dal sempre risorgente tentativo umano di farsene signore. Quando Giobbe riceve da Dio la risposta alla sue domande, noi diremmo, di teodicea (e si sente dire, in sostanza, con una sentenza che le delegittima alla radice: “Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra?...” - Gb, 38,4) non subisce la ritorsione di un Dio prevaricatore (E. Bloch), ma viene instradato ad una pedagogia della conoscenza che, nei riguardi dell’essere, certamente contempla la forza appropriativa del logos, ma al contempo l’attitudine al fiducioso abbandono proprio della fede. Dalla prima noi guadagniamo l’idea dell’impossibilità del totale annullamento dell’essere che noi siamo, dall’altra la consapevolezza che l’essere totale e pieno verso cui si dirige la nostra coscienza è un essere che sempre ha da essere, che ora ci è dato nel modo di un’alterità non ulteriormente determinabile e che infine, nel pleroma della sua identità, ci sarà dato solo nella forma del dono. Il senso del nostro esserci appare dunque come un direzionarsi verso l’essere pieno del senso che ci si presenta come custodito nello scrigno del nulla della morte, affinché la tentazione dell’insignorimento, del dominio, dell’esserne padroni - sotteso, come possibilità, alla richiesta di spiegazione di Giobbe e a tutte le imprese della ragione - non ne vanifichi per sempre il contenuto, facendone proiezione del nostro sé mancante e della nostra misera mondanità. Così la finitezza protegge e al tempo stesso esalta e promuove l’infinito, non semplicemente negandolo, ma assegnandone a ciascuno una parte hic et nunc (della quale ora e adesso dobbiamo fatalmente accontentarci) e assieme  la sua totalità come destino e dono.

L’appendice sulla morte di Gesù, che conclude lo sforzo di Melchiorre, ci aiuta a mettere in evidenza il legame tra il senso della morte, così come lo siamo venuti sintetizzando, e l’antropologia relazionale che abbiamo constatato essere coinvolta in quel morire che crea una frattura radicale nel nostro Mit-sein. Il morire di Gesù è in effetti un morire attraversato in ogni suo elemento dal Mit-sein. È un morire per altri, che lascia agli altri una tristezza immensa e un’eredità ancor più grande e infine si consegna all’Altro, un Altro tanto tragicamente assente e non posseduto nel Getsèmani e sulla croce - cioè al culmine dell’angoscia - quanto sarà “presente” nella comunione trinitaria - fatto di reciproca e totale autodonazione - cui il Cristo crocifisso va incontro. Si tratta di un morire che, pertanto, adombra un salto qualitativo tra la comunione, già profonda e inaggirabile, che è possibile vivere nel mondo e la comunione che si è destinati ad accogliere come dono post-mortem, un salto che, seppure solo in via analogica, è possibile pensare come prerogativa di tutti gli uomini quale condizione per l’effettiva restituzione a ognuno, nel con-essere di fronte a Dio e ai santi, dell’essere più vero che ognuno è. Questa attenzione alla vicenda di Cristo conduce Melchiorre a rivisitare la morte non in modo semplicisticamente ottimistico, ma attraverso la tragica esemplarità di un modello, in cui nulla è nascosto del dolore e della lacerazione che si produce nel morente e in chi gli sta vicino. In tale ricomprensione affiora però quella ragionevole fede escatologica che fa dire non ad un qualsiasi mistico, ma G.W.F. Hegel, cioè al campione della ratio occidentale: “Non quella vita che indietreggia di fronte alla morte e si mantiene pura dalla devastazione, bensì  quella che porta in sé la morte e nella morte si conserva, è la vita dello Spirito. Esso raggiunge la propria verità solo quando ritrova sé nell’assoluta lacerazione”.

Nel complesso, dal testo di Melchiorre verrebbe riproposta, all’interno della tradizionale alternativa che un recente volume intitolato Morte, fine o passaggio?, Rizzoli, Milano, 2007, ha riesaminato, l’idea della morte come transitus, depurata però da tutti gli orpelli consolatori che generalmente si associano a tale visione. Infatti non è disconosciuto qui il fatto che l’idea di morte è quella che ci assale come ciò che è più vicino al sentimento del totale annientamento. È quanto di più vicino al nulla disperato, alla negazione senza appello, alla ferita che non si rimargina. Quando un lutto grave ci colpisce noi ne facciamo tremenda esperienza, forse ancor più di quando ci venga annunciata l’imminenza della nostra propria morte, per esempio, a causa di una malattia. Questo è l’atteggiamento realistico cui ci introduce il nostro testo. Un atteggiamento che scopre del fenomeno gli aspetti più veri e registra  quell’aria di sconfitta che in sua presenza avvertono tutti gli uomini, anche i cristiani. Anni fa, a proposito della morte, fece scandalo la confessione del vescovo di Parigi, card. Lustiger, della paura di uno sprofondare nel nulla, di cui il porporato stesso ammetteva di essere vittima. Allo stesso modo, pericolosamente vicino alle tenebre del puro negativo sono le considerazioni accorate e venate di umanissima disperazione di S. Quinzio e di C. S. Lewis di fronte alla morte delle rispettive mogli, cosa che peraltro fornisce un plastico esempio di quale dolore c’invada quando veniamo scaraventati nel venir meno del Mit-sein più totalizzante e significativo della nostra esistenza, e di quale senso d’irreparabile afflizione c’investa in questi casi. Se questo è ciò che accade ai due autori citati, cioè a persone di fede adamantina e intensissima, con lo stesso Lewis possiamo allora dire: “Parlatemi della verità della religione e ascolterò con gioia. Parlatemi del dovere della religione e ascolterò con umiltà. Ma non venite a parlarmi delle consolazioni della religione, o sospetterò che non capite” (C.S. Lewis, Diario di un dolore, Adelphi, Milano, 1990, p. 31).

Tuttavia bisogna essere realisti fino in fondo: bisogna dire, nel solco delle riflessioni di una figura arcaica eppur non priva di fascino come Fredegiso di Tours, che il nulla e le tenebre devono pur essere qualcosa (cfr. il trattatello scritto in forma epistolare De nihilo e tenebris, risalente al IX sec. in J.-P. Migne, PL 105, coll. 751-756). Ma se sono qualcosa, giacché così potentemente incidono su di noi, evidentemente non sono nulla. E allora è veramente probabile che Melchiorre ne abbia colto il senso profondo quando li assume - con tratto dionisiano e agostiniano -  come un velo, come una caligine, come una sorta di scrigno provvidenziale che protegge la luce dell’essere dalle brame della nostra volontà di potenza. Un velo, una caligine e uno scrigno che intrattengono un rapporto misterioso ma essenziale  sia con il negativo che ci attacca e ci porta vicini alla disfatta, sia con la speranza che ci sostiene e ci fa andare avanti.

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