sabato 1 giugno 2024

Kalttaykh, il nuovo romanzo di Lawrence Sudbury

 


Kalttaykh si direbbe un non-luogo. Marc Augé nel suo Introduzione a un’antropologia della surmodernità, sostiene che i non-luoghi siano tutti gli spazi che hanno il carattere di non essere identitari. Lo sono per esempio autostrade, svincoli, aeroporti, grandi centri commerciali, outlet, campi profughi, ascensori, sale d'aspetto. Potremmo dire che il luogo di ambientazione della vicenda di Kalttaykh sia propriamente una sorta di sala d'aspetto della vita, in cui tutto trascorre senza originalità e personalità, cioè appunto senza identità.

Questo non-luogo funziona benissimo anche come puro sfondo letterario, per essere una base del tutto preparatoria affinché un'eccezione possa risaltare con le sue tinte forti sull'anodina, incolore e insapore normalità. Troppi caratteri decisi, troppe qualità speciali, troppe identità di spicco affollerebbero a dismisura una trama che vuole al contrario accendere un solo riflettore. L'unica luce deve cadere sulla storia di una morte, sulla storia di un uomo e dei legami che hanno determinato il suo infelice destino.

Da lì, ci dice l'Autore, viene tutto, grazie all'indagine dell'ispettore Becks, persona sufficientemente normale e comune, più strumento degli eventi che accadono che non stratega che determina i fatti. Egli, pur da forestiero, condivide la generale insignificanza della città che lo ospita. Infatti, nulla può capitare a Kalttaykh se non sullo sfondo della sua inguaribile mediocrità.

Essa è raccontata in modo magistrale con una narrazione in terza persona che vede l'ispettore, alle prese con i suoi fallimenti esistenziali, improvvisamente catapultato nella novità del cadavere ritrovato lungo la riva del fiume che attraversa le campagne del paese.

La cittadina, con i suoi negozianti al minuto, i suoi burocrati comunali, il suo medico condotto, i suoi abitanti-replicanti anonimi affaccendati in faccende anonime, in definitiva con i suoi uomini senza qualità, è sconvolta nei suoi ritmi insulsi, così come la vita del poliziotto, che intravede nell'evento nuove incombenze ma anche nuove possibilità di fuga dalla sua quotidianità insoddisfatta.

Il tutto viene restituito nella forma del resoconto ironico e distaccato, pieno di lieve humour british, che in fondo ci fa apprezzare, con la sua leggerezza, la simpatica leggerezza del nulla di quelle vite (e forse anche della nostra)...

Per esempio: il nulla della signora Belovici, la prima scopritrice del cadavere, frustrata dal marito che non la sfiora, dedita alla pasticceria casalinga, ma molto saggia dell'aver indossato mocassini con il tacco basso nel giorno del ritrovamento del morto.

Il nulla del dottor Tolomeis, il medico condotto, che non ci vede ma deve far finta di vederci, che per la sua malattia agli occhi ha interrotto una brillante carriera ed è ora confinato controvoglia in un paesino che è la tomba della sua giovanile grandezza.

Il nulla della "ventiduenne", impiegata del comune di Kalttaykh, sogno proibito del maschio locale, che, nonostante i suoi dieci chili di troppo, i capelli ossigenati fino a imbarazzanti tonalità platinate e un trucco troppo pesante, si fa forte delle sue minigonne e dei suoi vertiginosi tacchi a spillo.

Infine, il nulla del nostro ispettore, non grasso ma flaccido, nel cui corpo la materia lipidica sembra che sia irresistibilmente attratta verso il basso, così come il suo deretano inesorabilmente proiettato verso terra. Un uomo in cui non solo il corpo subisce le impertinenze della gravità, ma anche lo spirito, refrattario a ogni forma di altezza e di grandezza.

Questa è la normalità di Kalttaykh, una normalità diremmo "nichilista", rispetto alla quale si staglia e si eleva l'eccezione, cioè la storia, il romanzo.

La storia è in qualche modo eccezionale solo per il fatto che è degna di essere raccontata, e per esserlo deve tingersi finalmente di un colore forte, di contrasto, che esca con la sua luce dal grigio dall'indistinto.

Ora, se la normalità è sempre umoristica, perché la piccolezza è ridicola e perché riderne o sorriderne e l'unico mezzo per resistere alla sua onniavvolgente oscurità, la storia ha invece il suo peso grave.

Il libro di Sudbury è anche un giallo e l'attrattiva del giallo è a mio parere articolata in due punti: da un lato abbiamo la tecnica dell'intreccio e la godibilità del perdersi dentro il labirinto della trama in cui non mancano sorprese e colpi di scena; dall'altro c'è la serietà della questione centrale che è sempre di vita o di morte. Il giallo, potremmo dire, si presta ad essere un genere autentico perché ci fa presente il nostro essere-alla-morte, la nostra finitezza, la serietà ultima della vita che è la morte.

E allora a Kalttaykh viene scoperto un cadavere e ciò determina una scossa nella normale vita cittadina, una vita resa così efficacemente dallo stile narrativo in terza persona, distaccato e ironico. Anche le indagini, anche le vicende che ne seguono, potrebbero presto rientrare in quella insignificante routine come semplice variazione sul tema, destinata ad alimentare le chiacchiere future degli abitanti del borgo.

Ma accanto al comico vi è il tragico, accanto alla superficialità vi è la profondità, accanto alla morte-pettegolezzo vi è la morte-baratro, la morte-provocazione, la morte-domanda. Quindi, a intervallare il racconto in terza persona vi è il peso diversissimo di un testo in prima persona, in stile epistolare e diaristico, dove l'accadimento del paesino trova la sua vera risonanza di senso, appunto la sua vera dimensione tragica.

Se la terza persona racconta per lo più una commedia, perché lavora con la superficialità di quello che dicono tutti (in fondo "si muore"; "si vive"; "si fa"; "si dice": dove il "si" tutto riduce alla piattezza monodimensionale che evita sistematicamente le domande più esistenzialmente rilevanti), se la terza persona tutto assorbe, anche la morte, la prima persona riguarda appunto una tragedia. Il diario tragico inizia lapidariamente: "Io sono morto"; e finisce dicendo: "È già l'ora di andarsene, io a morire voi a vivere; chi di noi, però, vada verso il meglio e cosa oscura a tutti meno che al dio".

Dentro questa forbice stranamente dis-cronica ("io sono morto" e poi "io vado a morire") si apre lo spazio per una riflessione seria e per un excursus necessario sul vivere e sul morire che però non scade mai in una forma saggistica e didascalica, ma è attraversato dal profondo pathos ed esistenziale di un pensare sofferto e vissuto.

La bellezza del romanzo di Sudbury è proprio questo alternarsi di registri narrativi e della terza persona ironica con la prima tragica.

Capire chi è l'assassino non è allora, anche per il lettore, un gioco di acume investigativo. È bensì un viaggio nell'umanità, perché non vuol dire indicare il reo con nome e cognome, ma sapere qualcosa di lui (e di tutti), cioè sapere qualcosa della nostra umanità con sguardo lucido e disincantato.

A tale sguardo - che è quello dell'Autore - manca una fede ottimistica ma non la radice di ogni fede: la domanda di Giobbe sulla vita e sul dolore, quella di Qoelet sulla violenza, quella di Cristo in croce rivolta al Dio che l'ha abbandonato.

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