Per rendere apprezzabile, nel tempo di una breve presentazione, un testo come Realismo capitalista è a mio parere necessario premettere una piccola definizione di capitalismo, senza ovviamente alcuna pretesa di esaustività. Il capitalismo può essere considerato un sistema economico in cui il capitale, cioè la ricchezza consistente nel possesso dei mezzi di produzione (aziende) è in mano privata. In questo contesto la quantità di denaro detenuta dai proprietari, in regime di libera iniziativa, influenza in modo determinante la politica. Via via si riconosce sempre maggiore centralità alle questioni economiche che diventano il metro di valutazione dello sviluppo della società in generale. Ciò determina
A) un primato dell'economia sulla politica;
B) la nascita di grandi concentrazioni industriali multinazionali con un potere
sempre più ampio;
C) la tendenza allo sfruttamento crescente della manodopera salariata;
D) il prevalere di quella cultura crassamente materialista che attribuisce
alla produzione al consumo un primato anche di carattere esistenziale e
spirituale;
E) l’idea di una crescita della produzione e del consumo indefinita, quale
criterio per misurare il livello di civiltà delle nazioni e dei raggruppamenti
sociali.
Ora, sulla base di questi rapidi spunti, possiamo domandarci che cos'è ciò
che Fisher chiama realismo capitalista. Il realismo capitalista – dice
il filosofo inglese - è l’orientamento secondo il quale "è più facile
immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo [...]: la sensazione
diffusa che non solo il capitalismo sia l'unico sistema politico ed economico
oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne una
alternativa coerente" (p. 26). Quindi realismo capitalista
significa la considerazione "realistica" per cui al capitalismo non
sembrerebbero esserci alternative. Il capitalismo sarebbe un dato naturale a
prescindere anche dai suoi difetti. Anzi, di fronte all'enunciazione delle
aporie di questo sistema - per esempio la questione ambientale, quella della
salute mentale e quella della metastasi burocratica, tre temi su cui Fisher si
sofferma in particolare - la risposta consiste nell’atteggiamento che Alain
Badiou ha chiaramente delineato con la seguente considerazione "Ci viene
presentato come ideale lo stato delle cose brutale e profondamente ingiusto,
dove ogni esistenza viene valutata in soli termini monetari. Per giustificare
il loro conservatorismo, i partigiani dell'ordine costituito non possono
davvero dire che questo stato sia meraviglioso o perfetto. E quindi hanno
deciso di dire che tutto il resto è orribile. Certo, dicono, non vivremo in un
paradiso, ma siamo fortunati a non vivere in un inferno. La nostra democrazia
non sarà perfetta, ma è meglio di una dittatura truculenta. Il capitalismo è
ingiusto, d'accordo. Ma non è criminale come lo stalinismo. Lasciamo che
milioni di africani muoiano di AIDS, ma non rilasciamo dichiarazioni nazionaliste
razziste come Milosevic. Uccidiamo irakeni con i nostri aerei, non tagliamo
mica le gole con i machete come in Ruanda" (p. 32). Si tratta
evidentemente di un argomento capzioso che seleziona episodi e personaggi
particolarmente screditati agli occhi dell’opinione pubblica per presentarli
come una minaccia costante, a fronte della quale le peggiori degenerazioni del
nostro mondo improvvisamente appaiono come il male minore. In realtà il fatto
che non ci sia alternativa – o che l’alternativa sia il baratro - è un
presupposto apodittico, inventato proprio per evitare la ricerca di alternative
e fare accettare i difetti senza poter opporre nulla.
Anzitutto, perciò, una coerente posizione di lotta al capitalismo deve
evitare di considerarlo scontato e inevitabile, perché questa è la sua trappola
retorica. Poi bisogna addentrarsi nelle dinamiche dello sviluppo contemporaneo
del sistema capitalistico con una specifica attenzione ai crinali di conflitto
e ai temi che, per la loro valenza politica e simbolica, decidono la qualità
del sistema politico. Si è già accennato a ciò che Fisher ritiene più
rilevante.
Partiamo dalla questione ambientale, su cui il nostro Autore ripropone un’opinione
assai diffusa e però non per questo meno vera: vi è incompatibilità tra l'idea
di una crescita indefinita e quella della sostenibilità: un sistema economico
che vuole crescere infinitamente si scontra inevitabilmente con la finitezza
delle risorse. "Nella cultura del tardo capitalismo, però, la catastrofe
ambientale figura solo come una specie di simulacro, anche perché le sue reali
implicazioni restano troppo traumatiche per essere assimilate dal sistema. Il
senso profondo delle critiche mosse dagli ecologisti sta nel suggerire che non
solo il capitalismo non è l'unico sistema percorribile, ma che proprio il
capitalismo minaccia di distruggere l'intero ambiente umano. La relazione tra
capitalismo e disastro ecologico non è né casuale né accidentale: la necessità
di espandere costantemente il mercato, feticcio della crescita, stanno lì a
significare che il capitalismo è, per sua natura, contrario a qualsiasi nozione
di sostenibilità" (p. 54).
Il secondo tema chiave per Fisher è quello
della salute mentale. Sottolineiamo, per prima cosa, la rilevanza del problema:
si tratta della compatibilità del sistema capitalistico con la nostra anima. Il
malessere psichico è, infatti, sintomo del contrasto esistente tra il
capitalismo e l'umanità in quanto tale. Il suo emergere costituisce la punta
dell'iceberg del fenomeno per cui una determinata organizzazione sociale
produce sostanzialmente infelicità e un certo apparato contrasta con la
realizzazione di scopi eminentemente umani come la fioritura armonica delle
capacità individuali e delle relazioni sociali. La malattia psichica è dunque
la forma patologica dell'infelicità e dell’impossibilità di vivere serenamente
sotto l’imperio dell’attuale sistema economico e sociale. Essa assume oggi una
dimensione pandemica: nella nostra contemporaneità la depressione - solo per
fare un esempio - è la condizione più trattata dal sistema sanitario nazionale
inglese. Il tratto tipico della condizione contemporanea è che nell'odierna
organizzazione sociale la depressione, l'ansia, lo stress, l'angoscia, fino ad
arrivare alle forme più gravi di schizofrenia, sono indebitamente privatizzate.
Ciò significa che se ne attribuisce la causa a elementi della storia
individuale, quando non alle condizioni biochimiche della persona, sottacendone
le cause sociali. Con queste ultime ci si riferisce alla degenerazione dei
rapporti al puro livello utilitario ed economico del do ut des, e alla
pressione sull'individuo delle esigenze della produzione compensate solo con la
prospettiva del consumo universale e, infine, di una dipendenza generata dalla
disponibilità indefinita di beni di consumo effimeri. Questa restrizione degli
orizzonti è evidentemente patogenetica e tale consapevolezza appare del tutto
compatibile con le osservazioni di un anticapitalismo più tradizionale che
enfatizza il fatto che il sistema in oggetto disprezza gli assoluti, distrugge
le finalità non negoziabili, nega spazio alla vita interiore spirituale e ai
legami comunitari profondi, insomma a tutto ciò che non è commerciabile.
Rientra in questa serie di negazioni anche il rifiuto di legami che hanno una
matrice familiare e non utilitaristica. Anche Fisher, come diversi critici
conservatori, individua uno dei sintomi della crisi capitalistica nella
condizione della famiglia, benché lo faccia naturalmente a suo modo: "La
situazione in cui versa la famiglia nel capitalismo post frondista è contraddittoria
nello stesso modo in cui aveva previsto il marxismo tradizionale: il
capitalismo ha bisogno della famiglia (in quanto strumento essenziale per la
riproduzione e la cura della forza lavoro; perché allevia le ferite psichiche
inferte da condizioni socioeconomiche fuori controllo), eppure
contemporaneamente ne mina le fondamenta (impedendo ai genitori di trascorrere
tempo con i propri figli; alimentando la tensione di coppia nel momento in cui
i partner diventano l'unica fonte di consolazione effettiva reciproca)"
(pp. 77 78), Ora, queste derive che conducono direttamente al disagio
esistenziale e poi mentale, coinvolgono aspetti culturali, politici e sociali
che non si possono ridurre, come si è detto, a un problema privato, benché il
sistema abbia tutto l'interesse a farlo, in particolare a beneficio delle
multinazionali del farmaco (un autentico pilastro della nostra società
occidentale).
La terza questione chiamata in causa da
Fisher riguarda la burocrazia. Il tardo capitalismo neo-liberale, pur facendo
sfoggio di un atteggiamento antiburocratico (“il mercato nemico degli intoppi
generati da regole e obblighi di documentazione”), moltiplica le occasioni di
rendicontazione e registrazione burocratica perché scopre che il controllo
sociale non va più esercitato alla vecchia maniera, cioè da un’autorità che
impone le sue leggi, rese cogenti mediante un sempre più asfissiante apparato
amministrativo, ma in modo diverso. Alla direzione top-down del
controllo che parte dai governanti e investe i governati, va sostituita una sua
forma decentralizzata. Bisogna rendere il controllo a-gerarchico e tecnico: in
ogni organizzazione sociale si deve affermare che le finalità stesse
dell’organizzazione non sono raggiungibili se i suoi componenti non documentano
ogni loro attività. Non deve essere quindi un’autorità esterna a determinare la
prassi burocratica, ma la finalità interna dell’organizzazione stessa, cioè il
suo specifico funzionamento, il target e la mission di cui tutti
devono prendere atto. Così è auspicabile che il controllo diventi
autocrontrollo: ognuno, nel compiere il suo dovere lavorativo, deve essere
consapevole che il documento è importante, anzi importantissimo e ciò fino agli
esiti più perversi, a causa dei quali la fase di documentazione prevale su
quella dell’azione: quello che si fa importa meno del documento che si redige
per lasciarne traccia. Si pensi ai campi dell’istruzione e della sanità di cui
Fisher descrive aspetti tratti dal caso inglese che appaiono straordinariamente
attagliati anche a quello italiano, perché probabilmente hanno un carattere
sistemico e in certo modo universale. Nelle università inglesi, per esempio,
“per ciascuno modulo (didattico, o tematica oggetto di lezione, n.d.r.), il module
leader o ML (cioè il docente) deve compilare una serie di documenti: in
particolar una module specification (all’inizio del modulo) che tra le
altre cose elenchi ‘finalità e obiettivi’, ‘ modalità e metodi di valutazione’
e i risultati previsti per gli studenti; e poi una module rewiew (alla
fine del modulo) in cui allo stesso ML viene chiesto di valutare i punti di
forza e di debolezza del modulo, di suggerire quali modifiche apportare per
l’anno successivo, un riepilogo del feedback da parte degli studenti, il
loro punteggio medio e il loro tasso di dispersione. E questo è solo l’inizio.
Per un corso di laurea completo i docenti devono predisporre delle ‘specifiche’
sul programma, nonché produrre una ‘relazione annuale’ in cui il rendimento
degli studenti viene calcolato attraverso criteri come il ‘tasso di
avanzamento’, il ‘tasso di abbandono’, la forbice e l’intervallo dei voti.
Tutti i voti degli studenti vanno a loro volta classificati secondo una
‘matrice’. A questa autosorveglianza si aggiunge il giudizio effettuato dalle
autorità terze: il rendimento degli studenti viene monitorato da ‘esaminatori
esterni’ che si suppone provvedano a criteri standard per l’intero
sistema universitario. I docenti devono essere controllati dai loro pari,
mentre i dipartimenti sono periodicamente soggetti a controlli di tre o quattro
giorni da parte del QAA (Quality Assurance Agency for Higher Education),
l’ente preposto a vigilare sulla qualità dell’istruzione superiore. Se poi sono
anche ricercatori, ogni quattro o cinque anni i docenti devono sottoporre a un
apposito comitato le loro ‘migliori quattro pubblicazioni’ nell’ambito del Research
Assessment Exericise…” (pp.89-90). Questo è solo una delle tante possibili
espressioni della metastasi burocratica, mediante la quale da un lato si rende
capillare un controllo che si avvale della collaborazione costante dei
controllati (autocontrollo), dall’altro fatalmente si compromettono i contenuti
professionali dell’attività controllata, che divengono occasione per la
produzione di immensi database, piuttosto che di risultati efficaci nei
riguardi dell’utenza.
Ciò ha a che fare, da un lato, con la società
della comunicazione in cui niente esiste se non è comunicato, documentato e
trasmesso, dall’altro con quello che Fisher chiama stalinismo di mercato.
Un episodio significativo del periodo della Russia sotto il giogo del dittatore
georgiano può aiutare a comprenderne il senso: “Stalin era talmente impegnato a
immaginare uno sfolgorante simbolo di sviluppo che pressò e spremette il
progetto (di costruire un grande canale navigabile attraverso il territorio
russo, n.d.r.) al punto da ritardare lo sviluppo del progetto stesso.
Lavoratori e ingegneri non ebbero né il tempo, né i soldi, né la strumentazione
adatta a costruire un canale sufficientemente profondo e sicuro per le navi da
carico del XX secolo; di conseguenza il canale non giocò mai un ruolo
significativo nell’economia o nell’industria dell’Unione sovietica. Tutto
quello che il canale riuscì a sostenere fu, a quanto pare, il passaggio di
vaporetti che negli anni Trenta furono riempiti di cronisti sia sovietici, sia stranieri,
in modo da decantare la grandezza dell’opera. In effetti il canale fu davvero
uno straordinario trionfo pubblicitario: ma se nella sua costruzione fosse
stato messo anche solo metà dell’impegno riversato nelle campagne di
propaganda, ci sarebbero state molte meno vittime e molti più progressi reali,
e il progetto sarebbe stato una genuina tragedia classica, anziché quello farsa
brutale che fu, in cui le persone in carne ed ossa furono uccise in nome di uno
pseudoevento” (pp. 92-93).
Ebbene: “Dello stalinismo, il capitalismo
riprende proprio questo suo attaccamento ai simboli dei risultati raggiunti,
più che l’effettiva concretezza del risultato in sé […] e i governi britannici
targati New Labour, in apparenza il massimo dell’antistalinismo, hanno
dimostrato la stessa tendenza all’applicazione di interventi i cui effetti nel
mondo reale contano solo fintantoché possono essere spesi in termini di
‘comunicazione’” (ibidem). In questo senso tutti coloro che lavorano in
un determinato contesto sono chiamati a mostrare sul piano del documento
e della burocrazia che tutto funziona per gratificare un sistema acefalo, cioè
l’apparato sociale di mercato, che non corrisponde a un’autorità visibile, ma a
un soggetto indefinito (quello che Fisher, sulla scorta di Lacan, chiama “Grande
Altro”) che deve essere rassicurato. In ogni cosa il sistema funziona –
“ne ho le prove/posseggo le carte” – anche se di fatto l’attività reale si
sviluppa in modo assai diverso e con esiti assai diversi da quelli scritti sui
documenti. Lo potremmo constatare, aggiungiamo noi a mo’ di commento,
riferendoci nuovamente al campo dell’istruzione, anche italiano ovviamente: qui
ad un’elencazione tronfia e roboante di obiettivi stellari, per i quali dalle
scuole secondarie dovrebbero uscire piccoli geni capaci di sapere tutto e di
fare tutto, si contrappone una triste realtà che vede il livello delle
conoscenze offerte dal sistema abbassarsi in modo costante e sempre più
preoccupante… Ma l’importante è che sul modulo “conoscenze, competenze e
abilità” siano riportati, nel linguaggio occultante dell’amministrazione
pubblica, una serie di acquisizioni esistenti appunto solo sulla carta.
Ora, complessivamente, riguardo alla questione
burocratica, emergono alcuni tratti tipici del tardo capitalismo:
-
Il controllo universalizzato per mezzo di una
“furia del documentare” che si riproduce metastaticamente su se stessa e in
cui, mentre ciascuno registra la propria attività, contemporaneamente esercita
un controllo su se stesso a beneficio del sistema;
-
L’occultamento delle disfunzionalità del
sistema perché la struttura burocratica presuppone e non critica mai se stessa,
pur favorendo l’autocritica “maoista” e confessionale dei singoli individui (le
colpe sono sempre individuali e mai strutturali);
-
L’oppressione esercitata costantemente dalla
leva burocratica sulle attività che essa controlla, i cui fini precipui sono
resi secondari a fronte del compito infinito della produzione di documenti.
Così
Fisher conclude il suo excursus sulla burocrazia citando, grazie a Kafka
e ai paradossi del suo Il castello, gli esiti totalitari del sistema
capitalistico-burocratico “che non si riduce a un dispotismo” ma a una “visione
purgatoriale di un labirinto burocratico senza fine” dominato dall’”impero dei
segni” che esercita la sua violenta sovranità sulla realtà effettuale.
I tre argomenti fondamentali dell’ecologia, della salute
mentale, e della burocrazia, non esauriscono lo spettro di interessi di Fisher,
ma anzi divengono occasioni per ulteriori approfondimenti su questioni che ci
limitiamo a menzionare rapidamente:
-
La liquidità del sistema capitalistico: in
esso tutto è effimero e si cerca il nuovo per il nuovo affinché nel succedersi
delle mode nulla cambi: l’instabilità sistematica del capitalismo determina la
fine delle visioni di lungo corso, e proprio per questo impedisce sviluppi
reali, producendo stagnazione, conservazione, paura e cinismo.
-
L’interpassività: il sistema capitalistico
imbriglia gli individui in una serie di relazioni obbligate – connesse alla
produzione e al consumo di beni – che prescindono dal loro esplicito consenso e
anzi spesso si alimentano di un atteggiamento critico. “Non si impone alcuna
ideologia. Un apparato funziona sulla base della passività che consente di
continuare a usufruire dei beni di consumo e del piacere ad essi connesso,
senza partecipare all’apparato con un consenso esplicito. Così si rimane legati
a una matrice che genera piacere e stordimento pur senza acconsentirvi e senza
sentire la responsabilità per quello che accade dentro il sistema”. Tutto ciò
in base alla sotterranea consapevolezza della sua inesorabilità, a fronte della
quale ogni prassi eversiva appare come inutile e folle.
-
La morte del padre: in nome della
soddisfazione immediata del desiderio, che elude ogni divieto paterno, si
distruggono tutte le possibilità educative. Si passa dall’imperativo paterno
del dovere all’imperativo materno della gioia, i cui principali attori sono i
media, quale sistema di orientamento morale ed emotivo … così l’uomo viene
incarcerato nella prigione senza muri dei suoi sentimenti, liberi da ogni
forma, determinazione e disciplina consapevole.
Il saggio di Fisher rappresenta dunque una
critica sintetica ma sufficientemente articolata al nostro odierno modus
vivendi, che, malgrado mantenga la forma e le dimensioni di un pamphet,
possiede un’indubbia vastità di orizzonti e una ricchezza di suggestioni dalle
quali trarre motivo di riflessione e di ispirazione per alimentare la ricerca
da parte di chi non intende arrendersi allo status quo.
La
scommessa, per questi ultimi, sarebbe elaborare un’adeguata pars construens
circa un modello di vita e società radicalmente alternativo a quello vigente.
Un compito che si capisce bene essere immane. Nondimeno si può cominciare, come
effettivamente suggerisce Fisher, a elaborare alcuni rimedi che si
contrappongano al dogma realistico del sistema, per cui esso è assolutamente
insostituibile.
Anzitutto
bisogna denunciare e ciò va fatto sulla base di argomenti veramente
rilevanti, come per esempio quelli affrontati nel libro, reagendo al concetto
di inevitabilità e trasformando tutto ciò che è dato per scontato in una messa
in palio. Ogniqualvolta il capitalismo pretende di metterci di fronte a un fenomeno
“naturale” e “inevitabile”, bisogna sospettare l’intervento della retorica “realista”
e mettere in discussione proprio quel fenomeno. Poi bisogna lavorare sui
desideri che il neoliberalismo suscita ma non è in grado di soddisfare: per
esempio la riduzione della burocrazia tramite il rifiuto dell’autosorveglianza
e la promozione dell’autonomia del lavoratore. Bisogna rifiutare la
medicalizzazione del disagio, orientando la ricerca verso le sue implicazioni e
dimensioni sociali. Infine, vi è necessità di una nuova ascesi, nella coscienza
che la limitazione del desiderio, lo purifica, lo rende più autentico e ne incoraggia
l’incremento in vista dell’azione.
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