Presento qui la traduzione dell'interessantissima conferenza del professor Ricardo Moreno Castillo (già docente di Matematica nei licei e di Storia della matematica all'Università Complutense di Madrid) intitolata: En contra de una escuela inclusiva (Contro una scuola inclusiva), tenutasi il 25 novembre 2017 a Barcellona in occasione della VI giornata della Secondaria, organizzata dal sindacato della scuola ASPEC-SPS (l'intervento è reperibile in lingua originale sul web, chiedo scusa preventivamente per eventuali imprecisioni nella resa in lingua italiana). Credo che le idee di Ricardo Moreno Castillo vadano nella giusta direzione critica rispetto alle mode pedagogiche dominanti e ne sottolineino le enormi debolezze. Per questo rappresentano una provocazione da accogliere anche per noi italiani: anzi il fatto che un discorso che prende a oggetto la situazione spagnola si attagli così bene alla realtà del nostro Paese dimostra come la globalizzazione delle follie del pedagogicamente corretto sia un processo in fase di preoccupante avanzamento. Ciò rende ancor più urgente lo sforzo del pensiero per contrapporre la sincera ricerca della verità dell' insegnamento ai costruttivismi e alle ingegnerie didattiche che distruggono la scuola dalle fondamenta. La prossima pubblicazione di una serie di saggi (che andrà a far parte della collana Controcorrente, saggi contro la deriva antropologica), in collaborazione con il collega filosofo Alessandro Benigni e con una piccola squadra di valenti studiosi, apporterà nuovi contributi a nuovo materiali per riflettere e approfondire la questione dell'educazione. Dunque si tratta qui di un'anticipazione, diremmo di un antipasto - e, direi, particolarmente appetitoso - in attesa del confezionamento di un sostanzioso pranzo. Buona lettura!
Il titolo della
conferenza può sembrare reazionario e politicamente scorretto. E in effetti
sarebbe reazionario se fosse l'espressione di un desiderio, ma non è così. È la
verifica di ciò che a mio avviso è un’impossibilità. Non vi è dubbio che
l'istruzione obbligatoria sarebbe auspicabile fino all'età di diciotto anni,
dalla quale sarebbe bello che tutti si congedassero con una solida formazione
scientifica e umanistica, dominando il latino e un paio di lingue moderne.
Sarebbe bello, ma sappiamo che non è possibile. Non tutti hanno l'intelligenza
e la capacità di lavorare per questo. E se ci sforziamo di raggiungere
l'impossibile, spendiamo tempo, risorse
ed energie che sarebbero meglio spesi nel realizzare ciò che è possibile.
Sarebbe come dirottare parte delle risorse dedicate alla ricerca medica per
creare una pozione che garantisca l'immortalità. Non solo non si otterrebbe
l'immortalità, ma il comparto della sanità regredirebbe se lasciato con meno
risorse. Quindi vorrei che, prima di squalificare questo discorso come
reazionario e retrogrado, riflettessimo attentamente sugli argomenti che
seguiranno. Posso sbagliarmi, naturalmente, e l'immortalità potrebbe essere
possibile, ma finché non mi si convince di tale possibilità, è assurdo chiamare
reazionario me e chi pensa che la morte sia inevitabile.
1. Tutte le
possibilità sono un limite.
2. L'uguaglianza di
opportunità genera disuguaglianze.
3. La libertà e
l'uguaglianza sono quasi sempre ciascuna il limite dell'altra.
La prima limitazione
è molto antica, e si spiega assai bene alla luce della parabola usata da Kant
per illustrare in che modo il linguaggio, che ci permette di pensare,
costituisca per noi anche un limite. Al di là di esso non possiamo pensare. Un
piccione volò con difficoltà perché era controvento e pensò: "Se non ci
fosse aria, potrei volare più liberamente". No, se non ci fosse aria non
potrebbe volare in nessun modo. La stessa aria che rende possibile il volo, lo
rende anche difficile. Chesterton spiega la stessa cosa con un'altra
similitudine molto geniale: "Mi piacciono tanto le finestre che riempiono
il muro di finestre. Ma se apro molte finestre, ho finito i muri, e poi ho
finito le finestre". Lo stesso muro in cui è possibile aprire le finestre
ci impedisce di aprirne troppe. Pensa a una locomotiva o a una macchina.
L'attrito ostacola il movimento delle ruote e degli ingranaggi, e per questo
motivo lo attenuiamo lubrificando i secondi e facendo circolare i primi su
rotaie. Ora, se otteniamo un attrito pari a zero, la locomotiva non si muoverà:
le sue ruote slitterebbero e anche l'avanzamento sarebbe nullo. L'attrito rende
possibile il movimento ma lo limita. Ricordiamo quei problemi che abbiamo
risolto da bambini: "Se dieci operai fanno una casa in un anno, quanto
tempo ci metteranno trenta operai?" La casa sarebbe finita in circa
quattro mesi. Più lavoratori, meno tempo. Ora, seguendo lo stesso modello
matematico, arriveremmo a mille operai che farebbero la casa in meno di quattro
giorni. E sappiamo che non è così, un migliaio di operai non finirebbero la
casa né tra quattro giorni né tra cento anni, perché si ostacolerebbero l'uno
con l'altro. Per faciltare e abbreviare il lavoro si può aumentare il
numero dei lavoratori, ma solo in una certa misura, oltre la quale lo si rende
impossibile.
"Se potesse
esistere qualcosa come il socialismo combinato con la libertà individuale,
sarebbe comunque socialista. Perché non può esserci niente di meglio che vivere
una vita libera, modesta e semplice in una società egualitaria. Mi c'è voluto
del tempo per riconoscere che questo non è altro che un bel sogno: che la
libertà è più importante l'uguaglianza; che il tentativo di realizzare
l'uguaglianza mette in pericolo la libertà; e che se la libertà è perduta,
nemmeno vi potrà essere uguaglianza tra coloro che non sono liberi".
E cosa c'entra questo
con l'educazione? Ha a che fare con il fatto che l'educazione inclusiva ed egualitaria
di cui soffriamo vive a spese di una legittima libertà: la libertà di coloro
che vorrebbero e potrebbero accedere a un lungo e rigoroso percorso di scuola
superiore, la libertà di coloro che vorrebbero andare a scuola per imparare le
cose e non per “essere felici” o “controllare le emozioni”, la libertà di
coloro che vogliono davvero imparare e non “imparare ad imparare”. Il nostro
sistema educativo limita, schiaccia e rimuove questa libertà, e le vittime più
vulnerabili di questa soppressione sono gli studenti delle famiglie più
svantaggiate che se non imparano a scuola, non imparano da nessuna parte.Ora
andrò ad analizzare un'obiezione che mi è stata rivolta molte volte: il
concetto di pari opportunità è in realtà fuorviante. Infatti una formazione
solida esclude coloro che hanno meno risorse perché la mancanza di un ambiente
favorevole e di aiuto a casa rende difficile per loro seguire le lezioni con lo
stesso beneficio di coloro che hanno tali aiuti, il cui punto di partenza è già
più avanzato. Questo è vero solo in parte e dirò il perché: abbassare il
livello di conoscenza non diminuisce le differenze, al contrario, le amplia.
Pensiamo a un corso professionale in cui vengono formati futuri elettricisti.
Si presume che gli studenti debbano essere condotti a lavorare affinché
diventino buoni artigiani dell'elettricità. Questo sembra un assunto di buon
senso. Ma c'è un'obiezione: ciò sarebbe vantaggioso per colui che è il figlio
di un elettricista, che ha visto lavorare suo padre, che già conosce qualcosa
del mestiere e parte con vantaggio sui suoi compagni. Dunque se qualcuno
approfitta delle possibilità date dalla famiglia per imparare un mestiere, sarà
meglio per lui. Tuttavia se nell'interesse dell’uguaglianza si abbassano il livello del lavoro e le richieste del
corso, si ottiene solo che tutti perderanno tempo e che il titolo ottenuto alla
fine non sia altro che carta straccia. Perché uno non possa godere di un
vantaggio, ognuno viene danneggiato senza beneficiare nessuno. E quel che è peggio,
le disuguaglianze che si volevano eliminare vengono accentuate. Perché al figlio
dell'elettricista sarà mostrato da suo padre ciò che non è stato insegnato nel
corso, mentre gli altri avranno definitivamente perso la possibilità di
diventare buoni professionisti dell'elettricità. Sì, non hanno dovuto lottare
per imparare nel corso quello non potevano imparare fuori, perché il fatto di
sforzarsi è qualcosa di molto traumatico. Così la piccola differenza iniziale è
diventata un abisso incolmabile. Voler equiparare, abbassando le richieste,
coloro che provengono da genitori con studi a coloro che tali genitori non
hanno, danneggia più questi ultimi che non i primi. Se coloro che non dispongono
di sostegno a casa non lo trovano nemmeno al liceo, perché non li si fa
studiare né si inculca loro l’abitudine allo sforzo, questi si perdono per
sempre, e per quanto sia intelligente un figlio di genitori analfabeti, e per
quanto sia sciocco e ozioso il figlio di una famiglia più acculturata, il primo starà sempre sotto il secondo. Quello
che il povero non impara alle superiori non può essere imparato da nessuna
parte, e solo in un sistema di insegnamento in cui il lavoro e l'intelligenza
sono valorizzati entrambi possono competere in condizioni di parità. Chi parte
con uno svantaggio è possibile che debba sforzarsi di più, ma non si tratta di uno
sforzo sovrumano: chiunque lo può fare e se, con il fine di dissimulare le
diseguaglianze, lo si solleva da tale sforzo, lo svantaggio iniziale diventa
cronico. Questo è stato spiegato molto bene dal presidente Barack Obama in un
discorso tenuto alla Wakefield High School di Arlington, in cui ha insistito
sulla fallacia di richiamare il pretesto delle circostanze sociali avverse per giustificare
il fatto di essere un cattivo studente:
“Ho tenuto molti discorsi sull'educazione. E ho parlato molto della
responsabilità. Ho parlato della responsabilità dei vostri insegnanti di
ispirarvi e di farvi studiare, sulla responsabilità dei vostri genitori affinché
voi rimaniate in pista, facciate i compiti, e non passiate tutto il tempo
davanti alla televisione. Ho parlato molto della responsabilità del governo di
aumentare i livelli, sostenendo gli insegnanti e migliorando quelle scuole in
cui gli studenti non hanno le opportunità che meritano.
Ma possiamo avere gli insegnanti più appassionati, i genitori che
maggiormente vi sostengono e le migliori scuole del mondo, e tutto questo sarà
inutile se non adempirete alle vostre responsabilità, frequenterete quelle
scuole, presterete attenzione a quegli insegnanti, ascolterete i vostri
genitori e lavorerete tanto quanto basta per avere successo […]. Forse non vi sono adulti nella vostra vita
che vi danno il supporto di cui avete bisogno. Forse qualcuno nella vostra
famiglia ha perso il lavoro, e non ci sono abbastanza soldi. Forse vivete in un
quartiere in cui non vi sentite al sicuro o avete amici che vi spingono a deviare
dalla buona strada. Ma, alla fine, le circostanze della vostra vita non sono
una scusa per trascurare i vostri compiti o avere un atteggiamento negativo.
Non esiste una scusa per essere scortesi con i vostri insegnanti, per marinare
o abbandonare la scuola. Non esiste una scusa per non provarci”.
Questo argomento, di abbassare il livello per compensare chi
proviene da ambienti più svantaggiati, se valido, deve essere esteso
all'università. In primo luogo, perché se hai impedito agli studenti di
raggiungere una solida conoscenza, non puoi richiedere tale conoscenza per
entrare nell'università, quindi quest’ultima deve sviluppare il proprio
percorso partendo da un livello più basso. In secondo luogo, perché dare un
insegnamento di livello alto in una facoltà di giurisprudenza, medicina o
ingegneria significa dare vantaggi a coloro che provengono da una famiglia di
avvocati, medici e ingegneri, quindi bisogna insegnare ed esigere poco perché
non si noti la differenza. In questo modo, l'intero sistema educativo diventa un
macchinario ingombrante la cui funzione fondamentale non è insegnare, ma
impedire a chiunque di emergere, per non cadere nell'elitarismo.
È vero, abbiamo detto
un attimo fa, che gli studenti con genitori che hanno studiato iniziano con un
vantaggio, ma ho anche sottolineato che è solo parzialmente vero. Una ragione
l'ho anche detta: lo sforzo che deve essere compiuto da qualcuno che inizia con
un certo svantaggio non è sovrumano o insormontabile. Quando ho iniziato la mia
carriera professionale, ero nel liceo di una città costiera in Galizia. È vero
che allora quella che potremmo chiamare la borghesia illuminata era solita
portare i loro figli alla scuola pubblica, a differenza di adesso. Ma i figli di
insegnanti, dottori o farmacisti erano una minoranza e la maggior parte dei
miei alunni proveniva da famiglie intellettualmente modeste. E tra loro ho
avuto molti studenti molto brillanti che sono andati avanti con uno sforzo
ragionevole che, ben gestito, ha anche lasciato loro il tempo di stare con gli amici
o dedicarsi ai loro hobby. E le condizioni materiali erano piuttosto difficili.
Il liceo non disponeva di riscaldamento e alcuni studenti erano a un'ora
d’autobus che doveva viaggiare attraverso alcuni famigerati
"corredoiras" (sentieri sterrati delimitati da muretti, n.d.t.).
Tuttavia, hanno goduto di un vantaggio che gli studenti di oggi non hanno: era
per loro chiaro che al liceo si andava per imparare, così, direttamente (non
per imparare a imparare, per coltivare l'autostima o per controllare le
emozioni), e che nessuno può imparare senza sforzarsi. In breve, non sono stati
ingannati.
Succede inoltre che
il livello di studi dei genitori non sia l'unica variabile o la più decisiva.
Non chiedo ai genitori di aiutare i bambini nei loro compiti, basta preoccuparsi
che li facciano e a tal fine tengano la televisione spenta e la casa in
silenzio. E per convincersi che bisogna fare così, non è necessario aver letto un
gran numero di libri, solamente essere intelligente e generoso, virtù che non
hanno nulla a che fare con l'essere o non essere istruito. I genitori che non
hanno studiato ma sono calmi e sereni possono offrire più vantaggi a un bambino
che non quelli istruiti ma rumorosi e
polemici.
Può darsi che un
ragazzo non abbia silenzio in casa, ma va avanti perché è svelto come uno
scoiattolo. Un altro non è così abile, ma compensa con una forte volontà, un
altro ancora non ha capacità di concentrazione, ma sa come fare amicizia, cosa
che pure è molto positiva per migliorare il rendimento scolastico, perché i
buoni amici sempre si aiutano a vicenda. Se vi è necessità di abbassare il
livello pensando a coloro i cui genitori non hanno studiato, si dovrà
abbassarlo pure a misura di coloro che vivono in un ambiente familiare critico
o la cui casa è situata in una strada rumorosa, e per coloro che soffrono entrambe
le circostanze si dovrà predisporre un doppio abbassamento di livello. E se
inoltre quelle persone avranno tendenza alla distrazione o un QI non molto
alto, si dovrà procedere a una tripla riduzione. E questo sarebbe già, o
meglio, è già cosa da pazzi. Nessuno può godere di tutti i venti a favore e
nessuno li ha tutti a sfavore, e la cosa più educativa che si può fare è far
vedere i ragazzi che l'unico modo sensato di comportarsi, non solo negli studi
ma anche nella vita, è sfruttare i primi per vincere i secondi senza cercare
sconti, abbuoni o adattamenti curriculari che nella vita professionale nessuno
farà, e che portano solo a generare individui irresponsabili. E quello che dico
non è una caricatura: oggi nelle valutazioni, si passa più tempo a parlare
delle vite private degli studenti e dei loro limiti, piuttosto che della
qualità delle loro conoscenze e se esse siano sufficienti a passare l’esame.
Inoltre, lo studente brutto e privo di fascino riceverà più “due di picche”
dalle sue compagne rispetto a chi è
attraente e aggraziato, e ogni volta che si prenderà un due di picche, entrerà
in una fase depressiva che si rifletterà molto negativamente sugli studi. Si
dovrà valutare i brutti con speciale
indulgenza per consentire loro di superare la loro depressione? O meglio
educare le ragazze a mettere in atto discriminazioni positive nei riguardi dei
loro partner brutti, noiosi e antipatici? Non si rida, per favore, poiché
preferire far coppia con persone attraenti e allegre, e respingere quelle che
non lo sono, non smette di essere un elitismo imperdonabile che attenta contro
l'uguaglianza. Inoltre, ricevere “due di picche” è qualcosa che peggiora
notevolmente l'autostima. Il risultato della presunta inclusione totale è in
vista: cercando di ridurre l'attrito a zero, il treno non avanza più. Volendo
assumere in condizioni di uguaglianza mille lavoratori, la casa non si
costruisce. E dopo dieci anni di scuola dell'obbligo, nessuno degli studenti
diplomati avrebbe superato l'esame di ammissione che superava a dieci anni la
gente della mia generazione. E chi può si salva attraverso la scuola privata.
La borghesia colta che un tempo portava i propri figli alla scuola pubblica,
oggigiorno fugge verso il privato. E tra coloro che fuggono a più alta velocità
sono, come potrebbe essere altrimenti?, molti dei sostenitori del nostro
sistema educativo: essi ritengono che l'uguaglianza e l'insegnamento inclusivo
siano per i bambini degli altri, non per i propri. Per i loro figli è da
ricercarsi un insegnamento esigente che promuove la qualità e celebra
l'eccellenza, per quanto elitario possa essere. Come l'appaltatore della sede
associativa: assume mille lavoratori per fare la figura del progressista,
spendendo però il denaro degli altri. Questa è, semplicemente, malafede. Come
esempio di una simile malafede vi leggo un testo della giornalista Susana Pérez
de Pablos, estratto da un'intervista ad Alvaro Marchesi, uno dei padri del
disastro dell’istruzione spagnola, pubblicata su El País il 15 maggio 2008:
“Marchesi è attento a tutto. Ha un figlio, che vive in Brasile con sua
madre. Va a vederlo ogni due mesi, ma lo chiama al telefono per provargli la
lezione tre volte a settimana. Nella sua casa a Boadilla del Monte ha una copia
in portoghese di ciascuno dei libri di testo che studia il bambino. "Papà,
sei un uomo pesante", dice spesso, come spesso ripete il padre senza
nascondere il suo orgoglio”.
Quando si tratta del proprio
figlio, tutti ridiventano più pragmatici e meno fantasiosi. E se, per costringerlo
a studiare, bisogna interrogarlo (procedura tradizionale e vecchia ove ci sia),
bene, lo si interroghi. E se il bambino trova che è una pesantezza da parte di suo padre (vale a dire, in gergo pedagogico,
"se non è motivato"), che si rassegni, e gli si prova ugualmente la
lezione. Alvaro Marchesi è un padre esemplare e tutti i genitori dovrebbero
fare come lui: il bambino va interrogato per costringerlo a studiare, che egli
sia motivato o meno. E ora pongo una domanda per lasciarla nell’aria: Álvaro
Marchesi agisce in buona o cattiva fede quando difende la sua riforma?
Voglio insistere un
po’ di più sulla questione dell’ incoerenza tra l'azione pubblica e la vita privata
perché sono stato tacciato così spesso di esclusivismo e di atteggiamento
elitario che è bene ricordare che tutti noi siamo esclisivisti o elitari,
quando si tratta dei nostri interessi. Supponiamo che debba operarmi e possa
scegliere tra due chirurghi. Del primo so che la maggior parte dei suoi
interventi ha successo, con pochi effetti collaterali e una breve convalescenza
post-operatoria. Del secondo so che incontra più fallimenti, con maggiori
complicanze e convalescenze postoperatorie lunghe. Senza dubbio, mi metto nelle
mani del primo. Si chiama forse questo elitarismo: cercare l'eccellenza ed
escludere professionalmente il chirurgo più incapace? Beh sì, lo è, ma non è
affatto criticabile. Tuttavia succede che il secondo chirurgo, vedendo che
perde i pazienti a favore del primo, vedrà abbassarsi considerevolmente la sua
autostima. Beh, mi dispiace molto, ma la peggiorerà ancor più se esco dalla
camera operatoria in condizioni peggiori di come ci sono entrato. Forse non è
un buon chirurgo non perché si impegni meno dell'altro, ma perché ha minori
opportunità di migliorare e di andare all'estero. Ciò mi dà ancor più dolore, e
io sono disposto a lottare perché tutti gli aspiranti chirurghi abbiano le stesse
opportunità, ma non penso di riparare l’ingiustizia facendomi operare da lui.
Che cosa succede, poi, se il chirurgo fallito è una donna, qualcuno potrebbe
fare una discriminazione positiva? Anche la femminista più radicale non lo
farebbe.
"Dal momento che
tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ognuno può aspirare a tutte
le dignità, posizioni e uffici pubblici, secondo le proprie capacità, e senza
alcuna distinzione diversa da quella delle loro virtù e del loro talento."
Ho prima solo
accennato alla competitività. I nemici della scuola di qualità sostengono che
una scuola che infonde l'abitudine al lavoro e allo sforzo è una scuola
"competitiva". E con ciò il lavoro e lo sforzo sono già squalificati.
Come se far vedere ai pazienti che devono sforzarsi di seguire le istruzioni
dei medici implicasse la promozione di una sanità competitiva. Ma la competitività
non è male di per sé, bensì è tipica delle società libere ed egualitarie. In
una società di classe, per quanto capace e laboriosa sia una persona comune e
sciocco e pigro un nobile, il secondo starà sempre davanti alla prima. Perché? Perché non possono mai competere
(sì: competere) a parità di condizioni. La competitività è l'essenza della
democrazia: Franco ha posto fine alla competitività fucilando i suoi
concorrenti e non ha dovuto competere con nessuno per rimanere al potere per
quarant'anni. Puoi competere con mezzi buoni o cattivi, ma la competizione è
inevitabile. I partiti che aspirano al potere possono competere attraverso
elezioni libere o guerre civili. Coloro che competono per conseguire una
posizione dirigente possono farlo attraverso un'opposizione libera, aperta a
tutti, con regole chiare ed esplicite, o attraverso spintarelle e
raccomandazioni. Quelli che aspirano all'amore della stessa ragazza possono
competere moltiplicando le loro attenzioni a lei, o parlando male dell'altro pretendente.
Ma in ogni caso si deve competere. Succede nondimeno che studiare e apprendere
sono le attività meno competitive che esistano, perché ciò che uno impara può
anche essere imparato da un altro. I contenuti della conoscenza non sono come
il cibo in tempi di scarsità: ciò che uno mangia non può essere mangiato
dall'altro. Se così fosse, sarebbe necessario mettere le persone molto istruite
in prigione come accaparratori. No, la conoscenza è una materia prima
inesauribile perché chiunque può apprendere e studiare senza danneggiare le
possibilità di apprendimento e di studio degli altri. Se un ragazzo studia e fa
i compiti, impedisce agli altri di fare lo stesso? Se frequenta le lezioni e
sta in classe come si deve, rende difficile l'apprendimento dei suoi compagni di
classe? Piuttosto lo facilita, contribuendo a una buona atmosfera in classe.
È vero che chi studia
e impara sarà più preparato ad affrontare la vita rispetto a chi non lo fa, ma
dire per questa ragione che l'insegnamento è competitivo è come dire che la
sanità è competitiva perché chi obbedisce ai dottori sta meglio in salute
rispetto a quelli che non obbediscono.
Ora voglio toccare un
argomento più delicato, ma deve essere affrontato senza timore di essere
politicamente scorretti e, soprattutto, senza cercare di diluire le differenze
cambiando le parole. È l'argomento di coloro che hanno una disabilità
diagnosticata. Non parlo di paralisi o limitazioni che non alterano la nostra
capacità di conoscenza. Per questi è sufficiente facilitare gli accessi. Sto
parlando di persone, ad esempio, con la sindrome di Down o di persone cieche. E
voglio chiarire prima di continuare a usare deliberatamente la parola
"cieco", anche se a volte ho ricevuto dei rimproveri per tale uso,
apparentemente politicamente scorretto. Meglio dire "non-vedente".
Tuttavia la parola non-vedente è brutta, inizia con una particella negativa.
"Cieco" è una parola molto più bella e anche belle risonanze
letterarie: si parla di "storie d'amore cieco" e sarete d'accordo che
sarebbe banale dire "storie d'amore non vedente". E un'altra cosa,
pure molto delicata, che però non si può ignorare se vogliamo affrontare in
modo efficace l'educazione delle persone con disabilità: essere ciechi o
portatori della sindrome di Down è una limitazione, non è una caratteristica qualsiasi
come essere rosso o scuro. Dico questo perché ci sono quelli che credono che
l'uguaglianza tra i disabili e coloro che non lo sono viene raggiunta, non
aiutando i primi ad andare il più lontano possibile nonostante la loro disabilità,
ma semplicemente negando la disabilità. Sono le persone che ho menzionato prima,
che credono che cambiando il nome a una barriera, la barriera venga rimossa. Ma
non è così: è meglio non avere la sindrome di Down che averla ed è meglio non
essere ciechi che ciechi. Così come è meglio essere belli che brutti,
intelligenti che sciocchi e ricchi che poveri. Mi sarebbe piaciuto avere
l'intelligenza di Aristotele, il fisico George Clooney e il patrimonio dei duchi
di Alba, ma succede che sono nato brutto, povero e stupido, e con queste
limitazioni devo imparare a convivere. Certamente potrei mascherare questa
realtà dicendo che sono più ricco degli Alba perché ho un cuore d'oro, che non
sono più brutto di George Clooney, ma ho una bellezza esotica, e che anche
Aristotele non era più intelligente di me perché in realtà le nostre
intelligenze sono diverse. Ma quella sarebbe la consolazione degli sciocchi e
allora diventerei ancora più stupido.
Quindi si tratta di
aiutare le persone con disabilità affinché le loro disabilità le limitino il
meno possibile ed esse possano integrarsi nella società quasi altrettanto bene
di coloro che non le hanno. E per questo, mi dispiace sembrare un uomo delle
caverne, penso che si debba dare loro un'educazione speciale. E questo non è
segregare, al contrario, è dare loro gli strumenti in modo che alla fine della
loro educazione non siano segregati.
Ho avuto occasione in
un corso di avere una ragazza con sindrome di Down. Dal momento che era
impensabile che avrebbe seguito la spiegazione come gli altri, la assistevo
negli intervalli di tempo in cui i suoi colleghi erano impegnati a risolvere i
problemi che avevo appositamente dato loro. Ho ottenuto qualcosa, ma quella
ragazza non era ben assistita. E non è che mi disturbava lavorare con lei, al
contrario, lei mi era molto grata e mostrava grande entusiasmo
nell’apprendimento, ma succede che né un insegnante né nessun altro può fare
due cose in una volta, almeno se desidera fare tutto bene. Durante il corso ho
pensato ai buoni risultati che potrei conseguire in una classe con una dozzina
di bambini con sindrome di Down, perché lavorando con questa studentessa ho
trovato alcune idee che potrebbero funzionare. Una di queste è il calcolo con
le mani che si adoperava nel Medioevo, quando molti analfabeti dovevano far di
conto. È vero che essere analfabeti non è lo stesso che avere la sindrome di
Down, ma entrambe le cose richiedono di fare molta pratica di memoria. Il primo
perché non sa come appuntarsi le cose, il secondo perché è molto fragile, e
imparare certe regole mnemoniche usando le sue mani è molto utile. Inoltre,
avere insieme i bambini Down, separati dagli altri, facilita il compito perché
l'insegnante può dedicare tutte le sue energie a insegnare senza sprecare forze
nel mantenere l'ordine, perché questi ragazzi non sono per nulla
indisciplinati, anzi sono molto
"guiadiños" (cioè si lasciano guidare facilmente e senza protestare,
n.d.t.), come diciamo in Galizia.
Un'esperienza simile
ho avuto con i ciechi. In più di un'occasione ho avuto ciechi, e anche la
stessa frustrazione di vedere quanto meglio avrebbero potuto imparare e quanto
meglio avrei potuto loro insegnare loro se avessi avuto una classe solo con
loro. Ad esempio, noi impariamo la matematica in gran parte a vista, per questo
iniziamo con la geometria piana, che sembra migliore, e poi continuiamo con la
geometria dello spazio. Ma per i ciechi, uno strumento fondamentale è il tatto.
Non si potrebbe elaborare un programma speciale, a partire dalla geometria dello
spazio?
contare la quantità
di trucchi che esistono, molti dei quali anche di origine medievale, per il
calcolo mentale. Insisto su questa origine medievale perché, contro
l'ossessione dei pedagoghi all’avanguardia e innovatori nel rigettare il
passato come obsoleto e superato, dobbiamo sapere come guardare indietro. Il
mondo è molto antico, la razza umana abita il nostro pianeta da molto prima che
nascessimo, e su molte cose si è pensato e si è discusso molto. Non sono sicuro
che tutte queste strategie siano originali, forse gli insegnanti che si
specializzano nell'insegnare ai ciechi già le usano. Non sono nemmeno sicuro
che siano efficaci, perché non potrei metterli in pratica con i miei studenti
ciechi, per il semplice motivo che non posso spiegare due programmi diversi
allo stesso tempo. Ma sono sicuro che se mi avessero permesso di lavorare in
una classe solo per ciechi, dodici o quindici al massimo, avrebbero imparato
molto di più. Tuttavia insisto ancora una volta: nell’apprendere di più
sarebbero andati molto lontano, nonostante la loro cecità, ma sarebbero rimasti
ciechi e quindi alcune professioni sarebbero loro rimaste inevitabilmente
precluse. Ad esempio, nessuno si farebbe operare da un chirurgo cieco. Questo è
molto frustrante, non c'è dubbio, ed è una frustrazione che non solo capisco
molto bene, ma che mi coinvolge. Io tanto meno posso essere un chirurgo, perché
sono lento nei riflessi e, quel che è peggio, il sangue mi impressiona. Ora ho
due possibilità davanti a me: negare che io abbia questi limiti, ritenere di
essere vittima di un'ingiusta discriminazione e vivere da amareggiato, oppure provare a vivere
felicemente nei miei limiti che sicuramente sono molti. Di alcuni di questi
parlerò di seguito.
Ho iniziato la mia
carriera in matematica, come tanti altri giovani, con l'illusione di essere un
Einstein. Sono rimasto al livello di un modesto insegnante di scuola superiore.
E ho cercato di essere il più felice possibile nel mio lavoro, ma non sono
Einstein. E Einstein, che mi piaccia o no, è un essere chiaramente superiore a
me. Egli figura giustamente nella storia della scienza, e io, con la stessa
giustizia, non vi compaio. Siamo uguali io e
Einstein? Beh, no, che ci possiamo fare?, e negare l’evidenza non getta
alcuna luce sulla realtà. Non c’è nemmeno bisogno di esempi così estremi:
alcuni miei colleghi di lavoro, più intelligenti di me, fanno ricerche
all'avanguardia e pubblicano su prestigiose riviste internazionali. Per contro
le poche idee che mi vengono in mente sono modeste e appaiono in modeste
riviste create da un gruppo di amici che sono quasi gli unici lettori. È
un'ingiustizia che le riviste internazionali discriminino i matematici
mediocri? No, perbacco, non lo è, non importa quanto possa essere frustrante
per noi, persone mediocri e volgari che, purtroppo ma ovviamente, siamo in
stragrande maggioranza. L'élite è una
minoranza, ma se l'élite viene
eliminata a causa dell'uguaglianza, noi mediocri non avremmo qualcuno da cui
imparare e saremmo ancora più mediocri. Nessuno vincerebbe, tranne gli invidiosi.
Mi sono anche iscritto al conservatorio e, nel secondo solfeggio, mi hanno
mostrato la porta: "Guarda ragazzo", mi hanno detto, "il
Signore, nei suoi imperscrutabili disegni, non ti ha chiamato su questa
strada". Peccato, mi sarebbe piaciuto essere Arthur Rubinstein e sono
rimasto a Ricardo Moreno, che è qualcosa di molto più ordinario e molto più
prosaico. Sono un essere comune, insignificante, ordinario e superfluo. Posso
considerarlo un'ingiustizia che è stata commessa nei miei confronti? Sarà tutto
ciò “segregazione”? Magari lo sarà, ma
qualsiasi amante della musica, disposto a pagare per ascoltare Rubinstein,
sarebbe anche più che disposto a pagare per non ascoltarmi. Cosa ci possiamo
fare?... il pianoforte non sarà mai per me più di un semplice hobby privato.
Naturalmente, questo hobby ha avuto l'indubbio vantaggio di emancipare subito i
miei figli. No, non posso essere Einstein perché mi manca la sua intelligenza,
non posso essere un musicista perché mi manca l'udito e non posso essere un
vescovo perché mi manca la fede. E mi sarebbe piaciuto moltissimo diventare
vescovo, ma accade che i seminari siano così elitari ed esclusivi da
discriminare gli atei. E come potrebbe essere altrimenti? Per quanto scarse
siano le vocazioni, non credo che dovrebbero abbassare il livello al punto di
ordinare gli atei. Sarebbe una cosa molto poco seria che nemmeno il teologo più
all'avanguardia approverebbe.
Anche a scapito di
apparire noioso, insisto sul fatto che non siamo uguali, ci sono buoni e
cattivi professionisti, buoni e cattivi artisti, buoni e cattivi studenti, buone e cattive persone. E negare la realtà,
per quanto sordida la realtà possa essere, è inutile e financo esiziale,
soprattutto se si tratta di migliorare la realtà. La realtà non viene
migliorata ignorando i suoi limiti, ma facendovi fronte traendo da loro il
maggior vantaggio possibile. Non so se avete visto in vetrina il libro di un
certo Fernando Alberca intitolato Tutti i
bambini possono essere Einstein. Ce n'è un altro con un titolo non meno
suggestivo, Liberate l'Einstein che avete
dentro di voi, di Ken Gibson, Kim Hanson e Tanya Mitchell. Non li ho letti,
ma già il titolo è un errore. È vero che lavorando sodo puoi scoprire
possibilità insospettate in te stesso. È anche vero che, anche essendo Einstein,
dobbiamo comunque sforzarci di far
emergere il genio. Ma per favore, non dobbiamo nemmeno dire sciocchezze o
creare illusioni che poi portano a frustrazioni. Ed è molto importante
sottolineare questi errori, perché è una teoria pedagogica in voga considerare
che chi non può fare qualcosa, non può perché è vittima di un’ingiustizia:
tutti possiamo imparare qualsiasi cosa, essere grandi, creativi, geniali ... e
chi sostiene il contrario è elitario ed esclusivo. Inoltre, è un errore che è molto
lontano dall'essere originale, sebbene i suoi mentori non l'abbiano notato.
Questo accade spesso alle persone che sono molto ansiose di sembrare speciali e
innovative. Siccome sono così impegnate a dire cose originali, non hanno il
tempo di studiare la storia, e quindi non scoprono che le loro originalità sono
molto poco originali. Gli autori di questi libri sarebbe stato molto utile
leggere Voltaire, che in una lettera datata 22-XII-1760 e indirizzata a D'Aquin
de Château-Lyon dice:
“Mi citate M. de Chamberlain, a cui (come dici tu) ho scritto
sostenendo che tutti gli uomini nascono con una identica porzione di intelligenza.
Dio mi guardi dallo scrivere una simile falsità. Dall'età di dodici anni ho
pensato l’esatto contrario. Già allora avevo intuito l'enorme quantità di cose
per le quali non avevo talento. Mi sono reso conto che le mie capacità non mi
avrebbero portato troppo lontano in matematica. Ho verificato che non aveva
alcuna disposizione per la musica. Dio ha detto a ogni uomo: puoi andare lì, ma
non oltre. Se avevo una certa predisposizione per le lingue europee, non ne
avevo nessuna per quelle orientali: non omnia possumus omnes. Dio ha dato il canto agli usignoli e
l'olfatto al cane. E con tutto ciò, ci sono cani che non ne l'hanno. Che
stravaganza pensare che ogni uomo avrebbe potuto essere Newton! Oh, Signore!
Dato che eri una volta tra i miei amici, non attribuirmi simili assurdità”.
E con
questo testo bello e lucido concludo il mio intervento. Grazie mille!
Ricardo Moreno Castillo
(tr. it. di Massimo Maraviglia)
N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore, mantenendo inalterato contenuto e titolo.
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