martedì 25 giugno 2019

Ricardo Moreno Castillo contro la scuola "inclusiva"


Presento qui la traduzione dell'interessantissima conferenza del professor Ricardo Moreno Castillo (già docente di Matematica nei licei e di Storia della matematica all'Università Complutense di Madrid) intitolata: En contra de una escuela inclusiva (Contro una scuola inclusiva),  tenutasi il 25 novembre 2017 a Barcellona in occasione della VI giornata della Secondaria, organizzata dal sindacato della scuola ASPEC-SPS (l'intervento è reperibile in lingua originale sul web, chiedo scusa preventivamente per eventuali imprecisioni nella resa in lingua italiana). Credo che le idee di Ricardo Moreno Castillo vadano nella giusta direzione critica rispetto alle mode pedagogiche dominanti e ne sottolineino le enormi debolezze. Per questo rappresentano una provocazione da accogliere anche per noi italiani: anzi il fatto che un discorso che prende a oggetto la situazione spagnola si attagli così bene alla realtà del nostro Paese dimostra come la globalizzazione delle follie del pedagogicamente corretto sia un processo in fase di preoccupante avanzamento. Ciò rende ancor più urgente lo sforzo del pensiero per contrapporre la sincera ricerca della verità dell' insegnamento ai costruttivismi e alle ingegnerie didattiche che distruggono la scuola dalle fondamenta. La prossima pubblicazione di una serie di saggi (che andrà a far parte della collana Controcorrente, saggi contro la deriva antropologica), in collaborazione con il collega filosofo Alessandro Benigni e con una piccola squadra di valenti studiosi, apporterà nuovi contributi a nuovo materiali per riflettere e approfondire la questione dell'educazione. Dunque si tratta qui di un'anticipazione, diremmo di un antipasto - e, direi, particolarmente appetitoso -  in attesa del confezionamento di un sostanzioso pranzo. Buona lettura!

Il titolo della conferenza può sembrare reazionario e politicamente scorretto. E in effetti sarebbe reazionario se fosse l'espressione di un desiderio, ma non è così. È la verifica di ciò che a mio avviso è un’impossibilità. Non vi è dubbio che l'istruzione obbligatoria sarebbe auspicabile fino all'età di diciotto anni, dalla quale sarebbe bello che tutti si congedassero con una solida formazione scientifica e umanistica, dominando il latino e un paio di lingue moderne. Sarebbe bello, ma sappiamo che non è possibile. Non tutti hanno l'intelligenza e la capacità di lavorare per questo. E se ci sforziamo di raggiungere l'impossibile, spendiamo  tempo, risorse ed energie che sarebbero meglio spesi nel realizzare ciò che è possibile. Sarebbe come dirottare parte delle risorse dedicate alla ricerca medica per creare una pozione che garantisca l'immortalità. Non solo non si otterrebbe l'immortalità, ma il comparto della sanità regredirebbe se lasciato con meno risorse. Quindi vorrei che, prima di squalificare questo discorso come reazionario e retrogrado, riflettessimo attentamente sugli argomenti che seguiranno. Posso sbagliarmi, naturalmente, e l'immortalità potrebbe essere possibile, ma finché non mi si convince di tale possibilità, è assurdo chiamare reazionario me e chi pensa che la morte sia inevitabile.
 Inoltre, l'argomento di cui ci occuperemo è più ampio di quello che indica il titolo, poiché l'alternativa tra scuola inclusiva ed esclusiva non è più che una manifestazione di altri dilemmi che a loro volta non sono  che la naturale conseguenza della stessa finitudine del mondo e della condizione umana. E questa finitezza genera tre limitazioni estremamente dolorose la cui negazione in nome del politicamente corretto porta solo a utopie e a deliri irrealizzabili. Le tre limitazioni sono le seguenti:
1. Tutte le possibilità sono un limite.
2. L'uguaglianza di opportunità genera disuguaglianze.
3. La libertà e l'uguaglianza sono quasi sempre ciascuna il limite dell'altra.
La prima limitazione è molto antica, e si spiega assai bene alla luce della parabola usata da Kant per illustrare in che modo il linguaggio, che ci permette di pensare, costituisca per noi anche un limite. Al di là di esso non possiamo pensare. Un piccione volò con difficoltà perché era controvento e pensò: "Se non ci fosse aria, potrei volare più liberamente". No, se non ci fosse aria non potrebbe volare in nessun modo. La stessa aria che rende possibile il volo, lo rende anche difficile. Chesterton spiega la stessa cosa con un'altra similitudine molto geniale: "Mi piacciono tanto le finestre che riempiono il muro di finestre. Ma se apro molte finestre, ho finito i muri, e poi ho finito le finestre". Lo stesso muro in cui è possibile aprire le finestre ci impedisce di aprirne troppe. Pensa a una locomotiva o a una macchina. L'attrito ostacola il movimento delle ruote e degli ingranaggi, e per questo motivo lo attenuiamo lubrificando i secondi e facendo circolare i primi su rotaie. Ora, se otteniamo un attrito pari a zero, la locomotiva non si muoverà: le sue ruote slitterebbero e anche l'avanzamento sarebbe nullo. L'attrito rende possibile il movimento ma lo limita. Ricordiamo quei problemi che abbiamo risolto da bambini: "Se dieci operai fanno una casa in un anno, quanto tempo ci metteranno trenta operai?" La casa sarebbe finita in circa quattro mesi. Più lavoratori, meno tempo. Ora, seguendo lo stesso modello matematico, arriveremmo a mille operai che farebbero la casa in meno di quattro giorni. E sappiamo che non è così, un migliaio di operai non finirebbero la casa né tra quattro giorni né tra cento anni, perché si ostacolerebbero l'uno con l'altro.  Per faciltare e  abbreviare il lavoro si può aumentare il numero dei lavoratori, ma solo in una certa misura, oltre la quale lo si rende impossibile.
 Un mio conoscente, fervente sostenitore dell'uguaglianza, ha incontrato questo problema. Volevo costruire una casa e tra i disoccupati c’erano migliaia di lavoratori disponibili. Calcolò che se avesse assunto i trenta più competenti, la casa sarebbe stata pronta in quattro mesi. Ma, a pensarci bene, si accorse  che avrebbe discriminato gli altri novecentosettantatrè e che, inoltre, assumere i migliori avrebbe significato perseguire l'eccellenza,  cadere in una forma di elitarismo e promuovere la competitività tra i lavoratori edili. Quindi decise di assumere tutti e mille i lavoratori. Dopo alcune settimane i soldi finirono, la casa non era stata avviata e i mille lavoratori tornarono alla disoccupazione. Né il tempo comunque impiegato al lavoro li aveva aiutati a migliorare la loro esperienza professionale, poiché aver collaborato alla costruzione di una casa che non è mai stata costruita non sembra migliorare il curriculum di nessuno. Ho fatto notare al mio amico che era stato lasciato senza casa e senza un soldo, e se aveva fatto ciò per mantenere la propria immagine di persona progredita, nemica di ogni elitarismo e discriminazione, il prezzo era stato molto alto. "Ma  costruire la casa", mi ha detto "non era l'obiettivo principale, l'importante era che nessuno si sentisse discriminato". "Sì, certo," ho risposto, "ma ti è costato un sacco di soldi". "Beh, in realtà la casa non era per me, sarebbe stata la sede di un’associazione, quindi il denaro non era il mio, era venuto da una sovvenzione". "Ora capisco molto meglio: hai speso un sacco di soldi per mantenere il grande concetto di te stesso come di un individuo meraviglioso e progressista". "Non è quello", ha risposto, "è che i soldi di tutti non possono essere usati per discriminare". Il mio amico era un nemico acerrimo dell’esclusione e un deciso avversario dell’elitarismo e dell’ eccellenza, non v’è dubbio, ma essere coerente con le sue idee lo ha portato a  trasformare una sovvenzione per costruire una casa  in qualcosa che è giunta al risultato che la casa non è stata mai costruita. E, naturalmente, non gli è venuto in mente che aveva discriminato quelli che avrebbero dovuto essere i beneficiari della sede associativa, che ne erano stati privati. Il risultato nemmeno gli ha fatto mettere in discussione le sue idee, piuttosto al contrario, lo ha indotto a gonfiarsi e a vantarsi della sua coerenza e radicalità e, naturalmente, a dare la colpa agli altri: il problema era che la sovvenzione era scarsa e si sarebbe dovuto investire di più in questo tipo di locali di uso comune. Che il fallimento avrebbe potuto essere dovuto alla sua stupidità e alla sua cattiva gestione del denaro ricevuto non gli è nemmeno passato per l’anticamera del cervello.
 Uno dei guru della pedagogia di oggi, il professor Santos Guerra, ha confermato la stupidità che sto denunciando in un articolo pubblicato nella rivista “Trabajadores de la enseñanza” , nel quale, tra le altre assurdità, si può leggere la seguente: "Gli studenti e le studentesse hanno diritto all'istruzione. E hanno anche il diritto al successo nell'istruzione ". Circa il primo punto sono d'accordo, ma per quanto riguarda il secondo? Se non ottengo successo perché non frequento le lezioni, non faccio i compiti, non studio, darò la colpa a qualcuno? Un buon insegnamento, logicamente, esclude coloro che non vogliono approfittarne, così come una buona salute pubblica esclude coloro che non obbediscono ai medici. Se ho una malattia e sto peggiorando perché rifiuto di obbedire ai medici, criticherò l'assistenza sanitaria dicendo che mi “esclude”? Un po 'di buonsenso, per favore. Nessuno è guarito senza metterci del suo, perché a nessuno piace essere privato del piacere del tabacco o delle bevande alcoliche, né piace che un chirurgo  apra la pancia, o che un infermiere faccia iniezioni dolorose. Subire tutto ciò richiede uno sforzo da parte del paziente che nessuno può fare al suo posto. Ovviamente parlare dello sforzo del paziente per raggiungere il successo nella salute potrebbe condurre, secondo l'opinione di alcune anime candide, ad una sanità punitiva e repressiva, sarebbe come tornare a Franco. Non è uno scherzo: in qualche altro blog si può leggere che la pedagogia dello sforzo significa  tornare a Franco. E questo accade in tutte i campi della vita, e con questo vado a introdurre il senso del secondo limite: l'uguaglianza di opportunità. Essa, malgrado sia una gran cosa, inciampa a sua volta in un limite: la libertà di tutti noi di approfittare o meno delle opportunità, una libertà che inevitabilmente genera disuguaglianze. Se sopprimiamo i conservatòri e proibiamo l'educazione musicale otterremo l'uguaglianza: saremo tutti ugualmente ignoranti di musica, e nessuno avrà motivi per invidiare qualcuno perché suona molto bene uno strumento. Naturalmente, ciò avrebbe il costo di limitare la libertà di coloro che vorrebbero dedicarsi alla musica, che non potrebbero farlo. Se concedessimo tale libertà e aprissimo conservatòri in cui chiunque potesse iscriversi, otterremmo già una disuguaglianza di risultati: alcuni avrebbero più competenze di altri, e tra quelli che le possiedono, non tutti avrebbero la determinazione e la forza di volontà di fare pratica ogni giorno . A meno che, naturalmente, per recuperare l'uguaglianza sia richiesto dalla legge a tutti di iscriversi in un conservatorio, ma poi coloro che ne hanno la gestione, utilizzando la forza, non lasceranno che chi ha possibilità e voglia impari nella misura di tali qualità. Inoltre, a coloro che lo richiedono, bisognerà insegnare molto poco, perché non capiti di cadere nell'elitarismo di privilegiare i figli dei musicisti, che già arrivano con qualche vantaggio. E torniamo all'uguaglianza iniziale: nessuno impara la musica, come se non ci fossero conservatori. Solo che quell'ignoranza musicale che avrebbe potuto essere raggiunta senza spendere nulla nei conservatòri, è costata un sacco di soldi, come la casa che non è mai stata costruita. Non sembra un modo molto sano per gestire le risorse pubbliche. E questo rimanda al terzo limite prima citato: libertà e uguaglianza sono ciascuna la frontiera dell’altra. Quasi tutti i progressi di una di loro sono a scapito dell'altra. E questo accade anche con la libertà di espressione. Quando una dittatura comprime la libertà di espressione, tutti i cittadini sono uguali. L'intelligente e il pazzo non si distinguono l'uno dall'altro. Le idee circolano clandestinamente, sensate e assurde, a misura del fascino del proibito. Al contrario una volta conseguita la libertà di espressione, la differenza tra idee ragionevoli e deliranti si fa evidente ed è chiaro che lottare per il diritto di esprimere liberamente le proprie idee, ancorché sia qualcosa di eroico e lodevole, è intellettualmente più facile e meno impegnativo che avere idee.  E si fa anche evidente la differenza tra coloro che sono rimasti in silenzio a causa della censura e quelli che sono rimasti in silenzio perché non avevano nulla da dire. È l’ineguaglianza, in breve, tra l'intelligente e lo sciocco. Quest’ultimo può mascherare la propria condizione molto più facilmente in assenza di libertà di espressione. Tale alternativa, terribile ed esclusiva ma inevitabile, è ben spiegata dal filosofo Karl Popper nella sua Ricerca senza fine (una sorta di autobiografia intellettuale):
 "Se potesse esistere qualcosa come il socialismo combinato con la libertà individuale, sarebbe comunque socialista. Perché non può esserci niente di meglio che vivere una vita libera, modesta e semplice in una società egualitaria. Mi c'è voluto del tempo per riconoscere che questo non è altro che un bel sogno: che la libertà è più importante l'uguaglianza; che il tentativo di realizzare l'uguaglianza mette in pericolo la libertà; e che se la libertà è perduta, nemmeno vi potrà essere uguaglianza tra coloro che non sono liberi".
E cosa c'entra questo con l'educazione? Ha a che fare con il fatto che l'educazione inclusiva ed egualitaria di cui soffriamo vive a spese di una legittima libertà: la libertà di coloro che vorrebbero e potrebbero accedere a un lungo e rigoroso percorso di scuola superiore, la libertà di coloro che vorrebbero andare a scuola per imparare le cose e non per “essere felici” o “controllare le emozioni”, la libertà di coloro che vogliono davvero imparare e non “imparare ad imparare”. Il nostro sistema educativo limita, schiaccia e rimuove questa libertà, e le vittime più vulnerabili di questa soppressione sono gli studenti delle famiglie più svantaggiate che se non imparano a scuola, non imparano da nessuna parte.Ora andrò ad analizzare un'obiezione che mi è stata rivolta molte volte: il concetto di pari opportunità è in realtà fuorviante. Infatti una formazione solida esclude coloro che hanno meno risorse perché la mancanza di un ambiente favorevole e di aiuto a casa rende difficile per loro seguire le lezioni con lo stesso beneficio di coloro che hanno tali aiuti, il cui punto di partenza è già più avanzato. Questo è vero solo in parte e dirò il perché: abbassare il livello di conoscenza non diminuisce le differenze, al contrario, le amplia. Pensiamo a un corso professionale in cui vengono formati futuri elettricisti. Si presume che gli studenti debbano essere condotti a lavorare affinché diventino buoni artigiani dell'elettricità. Questo sembra un assunto di buon senso. Ma c'è un'obiezione: ciò sarebbe vantaggioso per colui che è il figlio di un elettricista, che ha visto lavorare suo padre, che già conosce qualcosa del mestiere e parte con vantaggio sui suoi compagni. Dunque se qualcuno approfitta delle possibilità date dalla famiglia per imparare un mestiere, sarà meglio per lui. Tuttavia se nell'interesse dell’uguaglianza si abbassano  il livello del lavoro e le richieste del corso, si ottiene solo che tutti perderanno tempo e che il titolo ottenuto alla fine non sia altro che carta straccia. Perché uno non possa godere di un vantaggio, ognuno viene danneggiato senza beneficiare nessuno. E quel che è peggio, le disuguaglianze che si volevano eliminare vengono accentuate. Perché al figlio dell'elettricista sarà mostrato da suo padre ciò che non è stato insegnato nel corso, mentre gli altri avranno definitivamente perso la possibilità di diventare buoni professionisti dell'elettricità. Sì, non hanno dovuto lottare per imparare nel corso quello non potevano imparare fuori, perché il fatto di sforzarsi è qualcosa di molto traumatico. Così la piccola differenza iniziale è diventata un abisso incolmabile. Voler equiparare, abbassando le richieste, coloro che provengono da genitori con studi a coloro che tali genitori non hanno, danneggia più questi ultimi che non i primi. Se coloro che non dispongono di sostegno a casa non lo trovano nemmeno al liceo, perché non li si fa studiare né si inculca loro l’abitudine allo sforzo, questi si perdono per sempre, e per quanto sia intelligente un figlio di genitori analfabeti, e per quanto sia sciocco e ozioso il figlio di una famiglia più acculturata,  il primo starà sempre sotto il secondo. Quello che il povero non impara alle superiori non può essere imparato da nessuna parte, e solo in un sistema di insegnamento in cui il lavoro e l'intelligenza sono valorizzati entrambi possono competere in condizioni di parità. Chi parte con uno svantaggio è possibile che debba sforzarsi di più, ma non si tratta di uno sforzo sovrumano: chiunque lo può fare e se, con il fine di dissimulare le diseguaglianze, lo si solleva da tale sforzo, lo svantaggio iniziale diventa cronico. Questo è stato spiegato molto bene dal presidente Barack Obama in un discorso tenuto alla Wakefield High School di Arlington, in cui ha insistito sulla fallacia di richiamare il pretesto delle circostanze sociali avverse per giustificare il fatto di essere un cattivo studente:
 “Ho tenuto molti discorsi sull'educazione. E ho parlato molto della responsabilità. Ho parlato della responsabilità dei vostri insegnanti di ispirarvi e di farvi studiare, sulla responsabilità dei vostri genitori affinché voi rimaniate in pista, facciate i compiti, e non passiate tutto il tempo davanti alla televisione. Ho parlato molto della responsabilità del governo di aumentare i livelli, sostenendo gli insegnanti e migliorando quelle scuole in cui gli studenti non hanno le opportunità che meritano.
Ma possiamo avere gli insegnanti più appassionati, i genitori che maggiormente vi sostengono e le migliori scuole del mondo, e tutto questo sarà inutile se non adempirete alle vostre responsabilità, frequenterete quelle scuole, presterete attenzione a quegli insegnanti, ascolterete i vostri genitori e lavorerete tanto quanto basta per avere successo […]. Forse non vi sono adulti nella vostra vita che vi danno il supporto di cui avete bisogno. Forse qualcuno nella vostra famiglia ha perso il lavoro, e non ci sono abbastanza soldi. Forse vivete in ​​un quartiere in cui non vi sentite al sicuro o avete amici che vi spingono a deviare dalla buona strada. Ma, alla fine, le circostanze della vostra vita non sono una scusa per trascurare i vostri compiti o avere un atteggiamento negativo. Non esiste una scusa per essere scortesi con i vostri insegnanti, per marinare o abbandonare la scuola. Non esiste una scusa per non provarci”.
 Questo argomento,  di abbassare il livello per compensare chi proviene da ambienti più svantaggiati, se valido, deve essere esteso all'università. In primo luogo, perché se hai impedito agli studenti di raggiungere una solida conoscenza, non puoi richiedere tale conoscenza per entrare nell'università, quindi quest’ultima deve sviluppare il proprio percorso partendo da un livello più basso. In secondo luogo, perché dare un insegnamento di livello alto in una facoltà di giurisprudenza, medicina o ingegneria significa dare vantaggi a coloro che provengono da una famiglia di avvocati, medici e ingegneri, quindi bisogna insegnare ed esigere poco perché non si noti la differenza. In questo modo, l'intero sistema educativo diventa un macchinario ingombrante la cui funzione fondamentale non è insegnare, ma impedire a chiunque di emergere, per non cadere nell'elitarismo.
 Ma succede che abbiamo bisogno di buoni avvocati, buoni medici e bravi ingegneri, e questi possono venire solo da buone università. E un'università, per quanto buona possa essere, può fare poco con uno studente che arriva immaturo, chiedendo di essere motivato, con poca abitudine a studiare e senza essere capace di scrivere. Non c'è altra via d'uscita: o hai un diploma di maturità conseguito in una scuola esigente, dove agli studenti viene insegnata l'abitudine al lavoro e allo sforzo, oppure avvocati, medici e ingegneri verranno da qualche istituto privato. E per non finire nell'elitarismo dell'intelligenza e della forza di volontà, si cade in quello economico.
È vero, abbiamo detto un attimo fa, che gli studenti con genitori che hanno studiato iniziano con un vantaggio, ma ho anche sottolineato che è solo parzialmente vero. Una ragione l'ho anche detta: lo sforzo che deve essere compiuto da qualcuno che inizia con un certo svantaggio non è sovrumano o insormontabile. Quando ho iniziato la mia carriera professionale, ero nel liceo di una città costiera in Galizia. È vero che allora quella che potremmo chiamare la borghesia illuminata era solita portare i loro figli alla scuola pubblica, a differenza di adesso. Ma i figli di insegnanti, dottori o farmacisti erano una minoranza e la maggior parte dei miei alunni proveniva da famiglie intellettualmente modeste. E tra loro ho avuto molti studenti molto brillanti che sono andati avanti con uno sforzo ragionevole che, ben gestito, ha anche lasciato loro il tempo di stare con gli amici o dedicarsi ai loro hobby. E le condizioni materiali erano piuttosto difficili. Il liceo non disponeva di riscaldamento e alcuni studenti erano a un'ora d’autobus che doveva viaggiare attraverso alcuni famigerati "corredoiras" (sentieri sterrati delimitati da muretti, n.d.t.). Tuttavia, hanno goduto di un vantaggio che gli studenti di oggi non hanno: era per loro chiaro che al liceo si andava per imparare, così, direttamente (non per imparare a imparare, per coltivare l'autostima o per controllare le emozioni), e che nessuno può imparare senza sforzarsi. In breve, non sono stati ingannati.
Succede inoltre che il livello di studi dei genitori non sia l'unica variabile o la più decisiva. Non chiedo ai genitori di aiutare i bambini nei loro compiti, basta preoccuparsi che li facciano e a tal fine tengano la televisione spenta e la casa in silenzio. E per convincersi che bisogna fare così, non è necessario aver letto un gran numero di libri, solamente essere intelligente e generoso, virtù che non hanno nulla a che fare con l'essere o non essere istruito. I genitori che non hanno studiato ma sono calmi e sereni possono offrire più vantaggi a un bambino che non  quelli istruiti ma rumorosi e polemici.
 Può darsi che un ragazzo non abbia silenzio in casa, ma va avanti perché è svelto come uno scoiattolo. Un altro non è così abile, ma compensa con una forte volontà, un altro ancora non ha capacità di concentrazione, ma sa come fare amicizia, cosa che pure è molto positiva per migliorare il rendimento scolastico, perché i buoni amici sempre si aiutano a vicenda. Se vi è necessità di abbassare il livello pensando a coloro i cui genitori non hanno studiato, si dovrà abbassarlo pure a misura di coloro che vivono in un ambiente familiare critico o la cui casa è situata in una strada rumorosa, e per coloro che soffrono entrambe le circostanze si dovrà predisporre un doppio abbassamento di livello. E se inoltre quelle persone avranno tendenza alla distrazione o un QI non molto alto, si dovrà procedere a una tripla riduzione. E questo sarebbe già, o meglio, è già cosa da pazzi. Nessuno può godere di tutti i venti a favore e nessuno li ha tutti a sfavore, e la cosa più educativa che si può fare è far vedere i ragazzi che l'unico modo sensato di comportarsi, non solo negli studi ma anche nella vita, è sfruttare i primi per vincere i secondi senza cercare sconti, abbuoni o adattamenti curriculari che nella vita professionale nessuno farà, e che portano solo a generare individui irresponsabili. E quello che dico non è una caricatura: oggi nelle valutazioni, si passa più tempo a parlare delle vite private degli studenti e dei loro limiti, piuttosto che della qualità delle loro conoscenze e se esse siano sufficienti a passare l’esame. Inoltre, lo studente brutto e privo di fascino riceverà più “due di picche” dalle  sue compagne rispetto a chi è attraente e aggraziato, e ogni volta che si prenderà un due di picche, entrerà in una fase depressiva che si rifletterà molto negativamente sugli studi. Si dovrà  valutare i brutti con speciale indulgenza per consentire loro di superare la loro depressione? O meglio educare le ragazze a mettere in atto discriminazioni positive nei riguardi dei loro partner brutti, noiosi e antipatici? Non si rida, per favore, poiché preferire far coppia con persone attraenti e allegre, e respingere quelle che non lo sono, non smette di essere un elitismo imperdonabile che attenta contro l'uguaglianza. Inoltre, ricevere “due di picche” è qualcosa che peggiora notevolmente l'autostima. Il risultato della presunta inclusione totale è in vista: cercando di ridurre l'attrito a zero, il treno non avanza più. Volendo assumere in condizioni di uguaglianza mille lavoratori, la casa non si costruisce. E dopo dieci anni di scuola dell'obbligo, nessuno degli studenti diplomati avrebbe superato l'esame di ammissione che superava a dieci anni la gente della mia generazione. E chi può si salva attraverso la scuola privata. La borghesia colta che un tempo portava i propri figli alla scuola pubblica, oggigiorno fugge verso il privato. E tra coloro che fuggono a più alta velocità sono, come potrebbe essere altrimenti?, molti dei sostenitori del nostro sistema educativo: essi ritengono che l'uguaglianza e l'insegnamento inclusivo siano per i bambini degli altri, non per i propri. Per i loro figli è da ricercarsi un insegnamento esigente che promuove la qualità e celebra l'eccellenza, per quanto elitario possa essere. Come l'appaltatore della sede associativa: assume mille lavoratori per fare la figura del progressista, spendendo però il denaro degli altri. Questa è, semplicemente, malafede. Come esempio di una simile malafede vi leggo un testo della giornalista Susana Pérez de Pablos, estratto da un'intervista ad Alvaro Marchesi, uno dei padri del disastro dell’istruzione spagnola, pubblicata su El País il 15 maggio 2008:
Marchesi è attento a tutto. Ha un figlio, che vive in Brasile con sua madre. Va a vederlo ogni due mesi, ma lo chiama al telefono per provargli la lezione tre volte a settimana. Nella sua casa a Boadilla del Monte ha una copia in portoghese di ciascuno dei libri di testo che studia il bambino. "Papà, sei un uomo pesante", dice spesso, come spesso ripete il padre senza nascondere il suo orgoglio”.
Quando si tratta del proprio figlio, tutti ridiventano più pragmatici e meno fantasiosi. E se, per costringerlo a studiare, bisogna interrogarlo (procedura tradizionale e vecchia ove ci sia), bene, lo si interroghi. E se il bambino trova che è una pesantezza da parte di suo padre (vale a dire, in gergo pedagogico, "se non è motivato"), che si rassegni, e gli si prova ugualmente la lezione. Alvaro Marchesi è un padre esemplare e tutti i genitori dovrebbero fare come lui: il bambino va interrogato per costringerlo a studiare, che egli sia motivato o meno. E ora pongo una domanda per lasciarla nell’aria: Álvaro Marchesi agisce in buona o cattiva fede quando difende la sua riforma?
Voglio insistere un po’ di più sulla questione dell’ incoerenza tra l'azione pubblica e la vita privata perché sono stato tacciato così spesso di esclusivismo e di atteggiamento elitario che è bene ricordare che tutti noi siamo esclisivisti o elitari, quando si tratta dei nostri interessi. Supponiamo che debba operarmi e possa scegliere tra due chirurghi. Del primo so che la maggior parte dei suoi interventi ha successo, con pochi effetti collaterali e una breve convalescenza post-operatoria. Del secondo so che incontra più fallimenti, con maggiori complicanze e convalescenze postoperatorie lunghe. Senza dubbio, mi metto nelle mani del primo. Si chiama forse questo elitarismo: cercare l'eccellenza ed escludere professionalmente il chirurgo più incapace? Beh sì, lo è, ma non è affatto criticabile. Tuttavia succede che il secondo chirurgo, vedendo che perde i pazienti a favore del primo, vedrà abbassarsi considerevolmente la sua autostima. Beh, mi dispiace molto, ma la peggiorerà ancor più se esco dalla camera operatoria in condizioni peggiori di come ci sono entrato. Forse non è un buon chirurgo non perché si impegni meno dell'altro, ma perché ha minori opportunità di migliorare e di andare all'estero. Ciò mi dà ancor più dolore, e io sono disposto a lottare perché tutti gli aspiranti chirurghi abbiano le stesse opportunità, ma non penso di riparare l’ingiustizia facendomi operare da lui. Che cosa succede, poi, se il chirurgo fallito è una donna, qualcuno potrebbe fare una discriminazione positiva? Anche la femminista più radicale non lo farebbe.
 L'esempio del chirurgo è un po 'estremo perché è in gioco la vita, ma succede che ogni volta che ho bisogno di un professionista, idraulico o avvocato, cerco il più competente tra quelli alla mia portata. Se un avvocato non si prende cura del mio caso perché ha un cattivo ambiente familiare, gravi difficoltà nella sua vita privata e gravi problemi psicologici, né io né nessun altro gli affideremo la difesa dei nostri interessi, anche se non è responsabile per nessuno dei suoi limiti. Inoltre, mettersi nelle mani di un buon avvocato e rifiutare il cattivo significa promuovere la competitività, cosa che costituisce un grave peccato, come tutti sanno. Allora cerchiamo di non essere ipocriti. Se nella nostra vita privata siamo tutti elitisti, puntiamo all’eccellenza e non ci rivolgiamo a professionisti incapaci, benché ciò incoraggi la competitività e l'esclusione, perché andare in giro facendo di tutto per sembrare egualitari e nemici dell’elitarismo? È vero che se un chirurgo inetto commette un crimine, deve essere processato con le stesse garanzie procedurali che si applicherebbero a un chirurgo esperto, perché di fronte alla legge, sì, siamo tutti uguali. Ma come come la mettiamo con i professionisti? Semplicemente non lo siamo. Ci sono scrittori buoni e cattivi, leggiamo i primi e gli altri affondano in un triste e frustrante oblio. Ci sono giocatori buoni e cattivi, i primi ricevono applausi e guadagnano denaro, i secondi è meglio che lascino il gioco e si dedichino a qualcos'altro. Ci sono buoni dottori che diagnosticano bene e curano e cattivi dottori che non sanno come fare né l'uno né l'altro. E, sfortunatamente, ci sono anche studenti buoni e cattivi. Negare questa triste realtà o dire, come molti pedagoghi dicono, che "non ci sono studenti cattivi, ci sono studenti con difficoltà di apprendimento", è come negare che ci siano medici cattivi che affermano di avere "solo difficoltà a raggiungere diagnosi corrette". Penso che valga la pena di ricordare l'articolo 6 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, proclamato dall'Assemblea nazionale francese nell'anno 1789:
 "Dal momento che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ognuno può aspirare a tutte le dignità, posizioni e uffici pubblici, secondo le proprie capacità, e senza alcuna distinzione diversa da quella delle loro virtù e del loro talento."
Ho prima solo accennato alla competitività. I nemici della scuola di qualità sostengono che una scuola che infonde l'abitudine al lavoro e allo sforzo è una scuola "competitiva". E con ciò il lavoro e lo sforzo sono già squalificati. Come se far vedere ai pazienti che devono sforzarsi di seguire le istruzioni dei medici implicasse la promozione di una sanità competitiva. Ma la competitività non è male di per sé, bensì è tipica delle società libere ed egualitarie. In una società di classe, per quanto capace e laboriosa sia una persona comune e sciocco e pigro un nobile, il secondo starà sempre davanti  alla prima. Perché? Perché non possono mai competere (sì: competere) a parità di condizioni. La competitività è l'essenza della democrazia: Franco ha posto fine alla competitività fucilando i suoi concorrenti e non ha dovuto competere con nessuno per rimanere al potere per quarant'anni. Puoi competere con mezzi buoni o cattivi, ma la competizione è inevitabile. I partiti che aspirano al potere possono competere attraverso elezioni libere o guerre civili. Coloro che competono per conseguire una posizione dirigente possono farlo attraverso un'opposizione libera, aperta a tutti, con regole chiare ed esplicite, o attraverso spintarelle e raccomandazioni. Quelli che aspirano all'amore della stessa ragazza possono competere moltiplicando le loro attenzioni a lei, o parlando male dell'altro pretendente. Ma in ogni caso si deve competere. Succede nondimeno che studiare e apprendere sono le attività meno competitive che esistano, perché ciò che uno impara può anche essere imparato da un altro. I contenuti della conoscenza non sono come il cibo in tempi di scarsità: ciò che uno mangia non può essere mangiato dall'altro. Se così fosse, sarebbe necessario mettere le persone molto istruite in prigione come accaparratori. No, la conoscenza è una materia prima inesauribile perché chiunque può apprendere e studiare senza danneggiare le possibilità di apprendimento e di studio degli altri. Se un ragazzo studia e fa i compiti, impedisce agli altri di fare lo stesso? Se frequenta le lezioni e sta in classe come si deve, rende difficile l'apprendimento dei suoi compagni di classe? Piuttosto lo facilita, contribuendo a una buona atmosfera in classe.
 È vero che chi studia e impara sarà più preparato ad affrontare la vita rispetto a chi non lo fa, ma dire per questa ragione che l'insegnamento è competitivo è come dire che la sanità è competitiva perché chi obbedisce ai dottori sta meglio in salute rispetto a quelli che non obbediscono.
Ora voglio toccare un argomento più delicato, ma deve essere affrontato senza timore di essere politicamente scorretti e, soprattutto, senza cercare di diluire le differenze cambiando le parole. È l'argomento di coloro che hanno una disabilità diagnosticata. Non parlo di paralisi o limitazioni che non alterano la nostra capacità di conoscenza. Per questi è sufficiente facilitare gli accessi. Sto parlando di persone, ad esempio, con la sindrome di Down o di persone cieche. E voglio chiarire prima di continuare a usare deliberatamente la parola "cieco", anche se a volte ho ricevuto dei rimproveri per tale uso, apparentemente politicamente scorretto. Meglio dire "non-vedente". Tuttavia la parola non-vedente è brutta, inizia con una particella negativa. "Cieco" è una parola molto più bella e anche belle risonanze letterarie: si parla di "storie d'amore cieco" e sarete d'accordo che sarebbe banale dire "storie d'amore non vedente". E un'altra cosa, pure molto delicata, che però non si può ignorare se vogliamo affrontare in modo efficace l'educazione delle persone con disabilità: essere ciechi o portatori della sindrome di Down è una limitazione, non è una caratteristica qualsiasi come essere rosso o scuro. Dico questo perché ci sono quelli che credono che l'uguaglianza tra i disabili e coloro che non lo sono viene raggiunta, non aiutando i primi ad andare il più lontano possibile nonostante la loro disabilità, ma semplicemente negando la disabilità. Sono le persone che ho menzionato prima, che credono che cambiando il nome a una barriera, la barriera venga rimossa. Ma non è così: è meglio non avere la sindrome di Down che averla ed è meglio non essere ciechi che ciechi. Così come è meglio essere belli che brutti, intelligenti che sciocchi e ricchi che poveri. Mi sarebbe piaciuto avere l'intelligenza di Aristotele, il fisico George Clooney e il patrimonio dei duchi di Alba, ma succede che sono nato brutto, povero e stupido, e con queste limitazioni devo imparare a convivere. Certamente potrei mascherare questa realtà dicendo che sono più ricco degli Alba perché ho un cuore d'oro, che non sono più brutto di George Clooney, ma ho una bellezza esotica, e che anche Aristotele non era più intelligente di me perché in realtà le nostre intelligenze sono diverse. Ma quella sarebbe la consolazione degli sciocchi e allora diventerei ancora più stupido.
Quindi si tratta di aiutare le persone con disabilità affinché le loro disabilità le limitino il meno possibile ed esse possano integrarsi nella società quasi altrettanto bene di coloro che non le hanno. E per questo, mi dispiace sembrare un uomo delle caverne, penso che si debba dare loro un'educazione speciale. E questo non è segregare, al contrario, è dare loro gli strumenti in modo che alla fine della loro educazione non siano segregati.
Ho avuto occasione in un corso di avere una ragazza con sindrome di Down. Dal momento che era impensabile che avrebbe seguito la spiegazione come gli altri, la assistevo negli intervalli di tempo in cui i suoi colleghi erano impegnati a risolvere i problemi che avevo appositamente dato loro. Ho ottenuto qualcosa, ma quella ragazza non era ben assistita. E non è che mi disturbava lavorare con lei, al contrario, lei mi era molto grata e mostrava grande entusiasmo nell’apprendimento, ma succede che né un insegnante né nessun altro può fare due cose in una volta, almeno se desidera fare tutto bene. Durante il corso ho pensato ai buoni risultati che potrei conseguire in una classe con una dozzina di bambini con sindrome di Down, perché lavorando con questa studentessa ho trovato alcune idee che potrebbero funzionare. Una di queste è il calcolo con le mani che si adoperava nel Medioevo, quando molti analfabeti dovevano far di conto. È vero che essere analfabeti non è lo stesso che avere la sindrome di Down, ma entrambe le cose richiedono di fare molta pratica di memoria. Il primo perché non sa come appuntarsi le cose, il secondo perché è molto fragile, e imparare certe regole mnemoniche usando le sue mani è molto utile. Inoltre, avere insieme i bambini Down, separati dagli altri, facilita il compito perché l'insegnante può dedicare tutte le sue energie a insegnare senza sprecare forze nel mantenere l'ordine, perché questi ragazzi non sono per nulla indisciplinati, anzi  sono molto "guiadiños" (cioè si lasciano guidare facilmente e senza protestare, n.d.t.), come diciamo in Galizia.
Un'esperienza simile ho avuto con i ciechi. In più di un'occasione ho avuto ciechi, e anche la stessa frustrazione di vedere quanto meglio avrebbero potuto imparare e quanto meglio avrei potuto loro insegnare loro se avessi avuto una classe solo con loro. Ad esempio, noi impariamo la matematica in gran parte a vista, per questo iniziamo con la geometria piana, che sembra migliore, e poi continuiamo con la geometria dello spazio. Ma per i ciechi, uno strumento fondamentale è il tatto. Non si potrebbe elaborare un programma speciale, a partire dalla geometria dello spazio?
 Al tatto puoi avere un'idea molto chiara del cilindro, e da esso arrivare a farti un’idea della circonferenza, perché le circonferenze sono le basi del cilindro. E con un sistema di gettoni si potrebbe andare molto lontano nella teoria dei numeri, senza
contare la quantità di trucchi che esistono, molti dei quali anche di origine medievale, per il calcolo mentale. Insisto su questa origine medievale perché, contro l'ossessione dei pedagoghi all’avanguardia e innovatori nel rigettare il passato come obsoleto e superato, dobbiamo sapere come guardare indietro. Il mondo è molto antico, la razza umana abita il nostro pianeta da molto prima che nascessimo, e su molte cose si è pensato e si è discusso molto. Non sono sicuro che tutte queste strategie siano originali, forse gli insegnanti che si specializzano nell'insegnare ai ciechi già le usano. Non sono nemmeno sicuro che siano efficaci, perché non potrei metterli in pratica con i miei studenti ciechi, per il semplice motivo che non posso spiegare due programmi diversi allo stesso tempo. Ma sono sicuro che se mi avessero permesso di lavorare in una classe solo per ciechi, dodici o quindici al massimo, avrebbero imparato molto di più. Tuttavia insisto ancora una volta: nell’apprendere di più sarebbero andati molto lontano, nonostante la loro cecità, ma sarebbero rimasti ciechi e quindi alcune professioni sarebbero loro rimaste inevitabilmente precluse. Ad esempio, nessuno si farebbe operare da un chirurgo cieco. Questo è molto frustrante, non c'è dubbio, ed è una frustrazione che non solo capisco molto bene, ma che mi coinvolge. Io tanto meno posso essere un chirurgo, perché sono lento nei riflessi e, quel che è peggio, il sangue mi impressiona. Ora ho due possibilità davanti a me: negare che io abbia questi limiti, ritenere di essere vittima di un'ingiusta discriminazione e  vivere da amareggiato, oppure provare a vivere felicemente nei miei limiti che sicuramente sono molti. Di alcuni di questi parlerò di seguito.
Ho iniziato la mia carriera in matematica, come tanti altri giovani, con l'illusione di essere un Einstein. Sono rimasto al livello di un modesto insegnante di scuola superiore. E ho cercato di essere il più felice possibile nel mio lavoro, ma non sono Einstein. E Einstein, che mi piaccia o no, è un essere chiaramente superiore a me. Egli figura giustamente nella storia della scienza, e io, con la stessa giustizia, non vi compaio. Siamo uguali io e  Einstein? Beh, no, che ci possiamo fare?, e negare l’evidenza non getta alcuna luce sulla realtà. Non c’è nemmeno bisogno di esempi così estremi: alcuni miei colleghi di lavoro, più intelligenti di me, fanno ricerche all'avanguardia e pubblicano su prestigiose riviste internazionali. Per contro le poche idee che mi vengono in mente sono modeste e appaiono in modeste riviste create da un gruppo di amici che sono quasi gli unici lettori. È un'ingiustizia che le riviste internazionali discriminino i matematici mediocri? No, perbacco, non lo è, non importa quanto possa essere frustrante per noi, persone mediocri e volgari che, purtroppo ma ovviamente, siamo in stragrande maggioranza. L'élite è una minoranza, ma se l'élite viene eliminata a causa dell'uguaglianza, noi mediocri non avremmo qualcuno da cui imparare e saremmo ancora più mediocri. Nessuno vincerebbe, tranne gli invidiosi. Mi sono anche iscritto al conservatorio e, nel secondo solfeggio, mi hanno mostrato la porta: "Guarda ragazzo", mi hanno detto, "il Signore, nei suoi imperscrutabili disegni, non ti ha chiamato su questa strada". Peccato, mi sarebbe piaciuto essere Arthur Rubinstein e sono rimasto a Ricardo Moreno, che è qualcosa di molto più ordinario e molto più prosaico. Sono un essere comune, insignificante, ordinario e superfluo. Posso considerarlo un'ingiustizia che è stata commessa nei miei confronti? Sarà tutto ciò “segregazione”?  Magari lo sarà, ma qualsiasi amante della musica, disposto a pagare per ascoltare Rubinstein, sarebbe anche più che disposto a pagare per non ascoltarmi. Cosa ci possiamo fare?... il pianoforte non sarà mai per me più di un semplice hobby privato. Naturalmente, questo hobby ha avuto l'indubbio vantaggio di emancipare subito i miei figli. No, non posso essere Einstein perché mi manca la sua intelligenza, non posso essere un musicista perché mi manca l'udito e non posso essere un vescovo perché mi manca la fede. E mi sarebbe piaciuto moltissimo diventare vescovo, ma accade che i seminari siano così elitari ed esclusivi da discriminare gli atei. E come potrebbe essere altrimenti? Per quanto scarse siano le vocazioni, non credo che dovrebbero abbassare il livello al punto di ordinare gli atei. Sarebbe una cosa molto poco seria che nemmeno il teologo più all'avanguardia approverebbe.
 Anche a scapito di apparire noioso, insisto sul fatto che non siamo uguali, ci sono buoni e cattivi professionisti, buoni e cattivi artisti, buoni e cattivi studenti,  buone e cattive persone. E negare la realtà, per quanto sordida la realtà possa essere, è inutile e financo esiziale, soprattutto se si tratta di migliorare la realtà. La realtà non viene migliorata ignorando i suoi limiti, ma facendovi fronte traendo da loro il maggior vantaggio possibile. Non so se avete visto in vetrina il libro di un certo Fernando Alberca intitolato Tutti i bambini possono essere Einstein. Ce n'è un altro con un titolo non meno suggestivo, Liberate l'Einstein che avete dentro di voi, di Ken Gibson, Kim Hanson e Tanya Mitchell. Non li ho letti, ma già il titolo è un errore. È vero che lavorando sodo puoi scoprire possibilità insospettate in te stesso. È anche vero che, anche essendo Einstein, dobbiamo comunque sforzarci di far emergere il genio. Ma per favore, non dobbiamo nemmeno dire sciocchezze o creare illusioni che poi portano a frustrazioni. Ed è molto importante sottolineare questi errori, perché è una teoria pedagogica in voga considerare che chi non può fare qualcosa, non può perché è vittima di un’ingiustizia: tutti possiamo imparare qualsiasi cosa, essere grandi, creativi, geniali ... e chi sostiene il contrario è elitario ed esclusivo. Inoltre, è un errore che è molto lontano dall'essere originale, sebbene i suoi mentori non l'abbiano notato. Questo accade spesso alle persone che sono molto ansiose di sembrare speciali e innovative. Siccome sono così impegnate a dire cose originali, non hanno il tempo di studiare la storia, e quindi non scoprono che le loro originalità sono molto poco originali. Gli autori di questi libri sarebbe stato molto utile leggere Voltaire, che in una lettera datata 22-XII-1760 e indirizzata a D'Aquin de Château-Lyon dice:
“Mi citate M. de Chamberlain, a cui (come dici tu) ho scritto sostenendo che tutti gli uomini nascono con una identica porzione di intelligenza. Dio mi guardi dallo scrivere una simile falsità. Dall'età di dodici anni ho pensato l’esatto contrario. Già allora avevo intuito l'enorme quantità di cose per le quali non avevo talento. Mi sono reso conto che le mie capacità non mi avrebbero portato troppo lontano in matematica. Ho verificato che non aveva alcuna disposizione per la musica. Dio ha detto a ogni uomo: puoi andare lì, ma non oltre. Se avevo una certa predisposizione per le lingue europee, non ne avevo nessuna per quelle orientali: non omnia possumus omnes. Dio ha dato il canto agli usignoli e l'olfatto al cane. E con tutto ciò, ci sono cani che non ne l'hanno. Che stravaganza pensare che ogni uomo avrebbe potuto essere Newton! Oh, Signore! Dato che eri una volta tra i miei amici, non attribuirmi simili assurdità”.
E con questo testo bello e lucido concludo il mio intervento. Grazie mille!

Ricardo Moreno Castillo
(tr. it. di Massimo Maraviglia)



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