martedì 20 agosto 2019

La doppia identità del Perù (e dell'America latina): tra indigenismo-incaismo ed europeismo




Solo americani?
La questione se il Sudamerica possa appartenere ai suoi abitanti è interessante e complessa. Su questo tema, che non si analizza nel giro di un articolo, mi limito intanto a rilevare qui dal Perù  un fatto innegabile: c’è qualcuno che vuole convincere i popoli di questo continente ad essere soltanto americani. L’essere americani degli americani sembrerebbe un fatto di solare evidenza, ma si tratta in realtà della falsa evidenza di un luogo comune, purtroppo sempre più diffuso.

Bellezze di due mondi
 Sono a Cuzco, splendida capitale andina dell’impero Inca. Sono affascinato da questi monti rigogliosi, dopo le secchezze desertiche dei tre vulcani di Arequipa, il Chachani, il Misti, il Picchu Picchu. Da qui in un’oretta di treno e venti minuti di pullman si raggiunge il Machu Picchu, le rovine di una città che il popolo del Tawantinsuyu (nome dell’impero in lingua quechua) aveva costruito non sapendo che cosa avrebbe lasciato immaginare ai posteri … a volte le rovine dicono più delle forme intatte, perché condividono con la natura il pregio di saper alludere senza esaurire i propri contenuti. In questa allusione c’è molto del fascino incaico. Posso capire che vi si possa addirittura costruire un mito, se appena come in un facile giochetto enigmistico si uniscono i puntini: Machu Picchu, Qochirancha, la Valle sacra, Moray, Ollantaytambo,  Sillustani (più lontano, nei pressi del Lago Titicaca) … testimonianze, misteri, silenzi, accenni monumentali, altari e pietre, cielo e terra.

Ma a Cuzco c’è anche la splendida cattedrale, c’è il convento dei Mercedarios, con un magnifico chiostro a due piani, il primo adornato con un bellissima serie di dipinti raffiguranti episodi della vita di san Pedro Nolasco, il secondo con la vita di san Domenico … per non parlare del preziosissimo ostensorio barocco, tempestato di gemme, cesellato con arte da finissimi orefici, con la scultura di una sirena dal gigantesco corpo perlaceo al centro (la seconda perla più grande al mondo). A Cuzco ci sono ulteriori importanti esempi di architettura religiosa e soprattutto c’è la scuola cuzqueña, una tendenza artistica che fonde stili andini e temi cristiani, con una fecondità straordinaria, apprezzabile in alcune opere che ricordano il primitivismo di Gauguin o il naïf di Ligabue come il cristo Crocifisso del convento di santo Domingo, o come, ad Arequipa, l’eccezionale decorazione di una cappella della chiesa dei Gesuiti.


Insomma il visitatore viene continuamente sballottato di qui e di là, tra mondi diversi, eccezionalmente accostati e straordinariamente compenetrantesi.

Canzoni stonate
A rompere la magia di tale fantastico contrappunto interviene il ripetitivo ritornello di coloro che sono incaricati di “spiegare al turista” quello che vede. Qui comincia un vero e proprio festival della superficialità e del luogo comune che declina in tutti i modi il tema: “Quanto sono stati cattivi gli spagnoli e la Chiesa cattolica; quanto erano buoni gli Inca”.
Una guida magnifica la capacità architettonica inca, per poi lamentarsi di come le pietre dei templi precolombiani siano state utilizzate per costruire le chiese della città spagnola (io mi provo a far notare che ciò è accaduto, senza alcuna cattiveria, anche al Colosseo). Alla mia domanda sulle tecniche di costruzione di detti templi e su quale tipo di manodopera faceva il lavoro pesante del trasporto e dell’assemblamento delle parti degli edifici, mi sento rispondere così: “Gli inca non avevano schiavi, ma era il popolo che con tanto amore si sacrificava per la costruzione di tutte queste meraviglie” (ovviamente ciò è è falso: come tutti i popoli antichi, anche gli Inca schiavizzavano in parte o in tutto i popoli vinti).
In un’altra occasione una diversa professionista dimostra una buona dose di ideologizzazione con un ardito parallelo tra capitalismo, socialismo, comunismo e sistema socio politico incaico. Infatti c’era scambio di merci, tra diverse parti dell’impero con diverse vocazioni agricolo-produttive, capitalismo, ma tutti erano uguali, socialismo, e lo Stato provvedeva a distribuire le terre assegnandone una porzione coltivabile ad ogni famiglia, comunismo … forse un piccolo ripasso di storia contemporanea sulla natura delle “redistribuzioni di terre” e dell’organizzazione social comunista dell’agricoltura potrebbe giovare, a prescindere dalla compatibilità di questa uguaglianza socialista con una società gerarchica e piramidale, dominata da un aristocrazia di sangue con a capo un imperatore-dio…
Questa stessa signora, in totale accordo con chi l’aveva preceduta, ha occasione di segnalare che presso gli Inca non esisteva un sistema carcerario. Un po’ perché essi erano “innocenti” (sic!), un po’ per la straordinaria efficacia dei tre comandamenti dell’etica inca: Ama sua, Ama llulla y Ama quella (non rubare, non mentire, non essere pigro), un po’ perché, non senza una qualche contraddizione con la supposta bontà di quel popolo, in modo molto semplice e sbrigativo, chi trasgrediva veniva cacciato o fatto fuori.
Queste sono solo alcune delle mistificazioni che ho ascoltato, e di cui fra qualche riga cercherò di dare ragione. Alla tradizione orale, però, bisogna aggiungere qualche documento scritto, che mi permetterà di approfondire il loro quadro ideologico.

Frammenti romanzeschi e mito del buon selvaggio
Nel convento di Santo Domigo di Qochirancha a Cuzco è conservato un sito inca, proprio perché i domenicani lo hanno sfruttato come fondamento della loro sede. Trasformato in museo, ospita diverse architetture interessanti, più o meno adattate e restaurate, tutte adeguatamente, benché sinteticamente, spiegate da un’audioguida. In aggiunta a quest’ultima, ho potuto giovarmi della lettura un volantino riassuntivo che in due pagine, per il turista frettoloso, forniva un quadro della civiltà in questione. Nulla di pretenzioso, per carità, ma proprio per questa attitudine divulgativa, il documento è risultato assai sintomatico! Vi ho potuto leggere, infatti, tra le altre cose la seguente affermazione: “Gli Inca avevano una società molto organizzata, se reggevano mediante leggi giuste che tutti rispettavano, per questo non esistevano ladri, si proteggeva il prossimo e l’indifeso, non esisteva la proprietà privata, non vi era fame e non si conosceva il denaro. Queste leggi erano LLANK’AY (lavorare), MUNAY (amare) e YACHAY (sapere). Solo così essi poterono fare quello che fecero”. Di contro “quando arrivarono gli spagnoli iniziarono guerre sanguinose e tantissime persone morirono” anche se “molti furono vittime delle malattie che gli spagnoli portarono e che prima gli Inca non conoscevano, come l’influenza, il morbillo, il vaiolo” (non si capisce se il redattore attribuisce agli spagnoli anche la colpa di essere portatori sani di malattie…).
Potremmo qui dire: “Grazie Rousseau!!! Senza di te gli Inca non sarebbero mai esistiti!!!”, almeno in questa fantastica rappresentazione. C’è da dire, però, che in tale quadretto, che naturalmente falsifica i dati storici - per esempio, quando arrivarono gli spagnoli gli Inca erano appena usciti da una sanguinosa guerra civile tra i due pretendenti al trono, Athaualpa e Huáscar -, v’è pure qualche traccia dell’idealizzazione cristiana della Chiesa primitiva negli Atti degli Apostoli, un testo che dai cronisti spagnoli, o indigeni di lingua spagnola, era certamente ben conosciuto. In effetti, a ben vedere, vi è una parentela stretta tra l’utopia edenica, di cui la rappresentazione della Chiesa primitiva è una versione “terrena”, e la sua secolarizzazione illuminista nel mito del buon selvaggio, del quale la descrizione succitata possiede tutti gli stilemi[1]. Di qui l’inca per l’appunto innocente, privo di malizia, incapace di far male, senza la conoscenza del denaro cespite di tutte le corruzioni, che vive in una condizione di sereno lavoro e di uguaglianza con il prossimo, laddove può finalmente trovare spazio la vocazione escatologica all’amore e alla conoscenza. Poi arriva il serpente spagnolo, tentatore ed uccisore, e si passa all’umanità decaduta e violenta di oggi.
Chi sono allora gli Inca? Alla luce di quanto ho visto e sentito, sembrerebbero proprio una bella proiezione dei nostri sogni più rosei e dolciastri.

Un “confronto” con l’occidente
Un’ulteriore documento confermerà questa impressione. Si tratta di due manifesti che in un altro museo della civiltà inca, adiacente a Qochirancha, illustrano, da un lato, la differenza tra la religione cristiana e religione inca, e dall’altro, tra filosofia occidentale e quella che viene chiamata “cosmovisione” andina.

Vediamo solo pochissimi punti anzitutto del manifesto religioso. Vi si elencherebbero una serie di caratteristiche in dialettica contrapposizione fra loro,  una contrapposizione peraltro non sempre chiaramente individuabile. Quello che conta tuttavia è che nelle coppie dialettiche la visione “occidentale e cristiana” viene presentata in termini sottilmente svalutativi rispetto a quella incaica. Per esempio: ad un orientamento “teocentrico e dogmatico” del cristianesimo viene contrapposta una “esperienza ciclica vissuta in comunità”: non capisco bene di che cosa si tratti ma sono chiari i marcatori “etici”: “dogmatismo” contro “esperienza” e “comunità”.  Vediamo successivamente un’altra coppia in cui si fronteggiano una “verità rivelata al popolo eletto da Dio”, contrapposta a un’ “ebbrezza festiva e sacrale”: anche qui non si vede molto la contrapposizione ma si capisce la valutazione: il termine “verità” allude a qualcosa di rigido, definito e tendenzialmente oppressivo mentre “popolo eletto” allude a una forma di discriminazione e di privilegio concesso a qualcuno e negato ad altri; viceversa il termine ebbrezza e festivo riguardano una celebrazione allegra e gioiosa della vita. Prendiamo l’ulteriore contrasto tra una “filosofia che stabilisce un fine della storia, con contenuto salvifico” e un “sentimento cosmocentrico che accetta le differenze culturali”: qui è molto chiara l’idea che stabilire un fine della storia rappresenti una sorta di riduzione ad uno finale delle differenze, come se tutti dovessero andare nella stessa direzione con una sorta di omogeneità imposta dal Dio trascendente sugli sviluppi del mondo e dell’uomo. Di contro ecco comparire il grande chiavistello delle “differenze culturali”: anche gli inca erano multiculturalisti grazie al loro rispetto della varietà naturale (“cosmocentrismo”) non  solo delle specie, bensì delle “visioni del mondo”. Il manifesto si conclude in modo assai significativo con la giustapposizione della “religione eurocentrica, utile per giustificare propositi di conquista e colonizzazione” alle “credenze comunitarie condivise in modo previsto o occasionale”… era giusto finire in modo esplicito con una reprimenda contro l’Europa, la conquista e la colonizzazione, le ultime due delle quali evidentemente sconosciute all’ impero degli Inca.

Passiamo ora al manifesto che tratta l’argomento filosofico: quanto si differenziano le due filosofie o Weltanschauungen euro occidentale e incaica? L’esordio già dice molto: per la visione occidentale del mondo siamo in presenza di “concezioni e attitudini antropocentriche che controllano l’elemento ecologico e il mondo circostante e dominano la natura”; per gli inca abbiamo “un sentimento di carattere cosmocentrico che sottomette  l’uomo ad un ordine cosmico che si esprime nella natura e nella società”: dominio contro ecologia, siamo noi europei gli inquinatori, gli Inca sono una società di Greta Thurnberg. Proseguiamo con la “supposizione che gli oggetti si scoprono essendo quello che sono  e stando in un mondo”, cui fa da contraltare “l’assunzione della interdipendenza organica del mondo” che implica una “visione olistica e l’ipotesi Gaia” della Terra come un grande organismo vivente. Certo: proviamo a vedere il film di fantascienza Avatar e già abbiamo bene chiaro di che si tratta, ci manca solo che gli inca vengano dipinti di blu e il gioco è fatto. Sotto i profilo della forma di pensiero, poi, quella occidentale si qualifica in base alla “validità indiscutibile della logica formale e dei suoi principi di identità, terzo escluso, non contraddizione e ragion sufficiente”, mentre quella inca è una “logica trivalente” che implica il “terzo incluso, un’avalutatività grammatologica, ossequio, conflitto, opportunismo, tradimento e contraddizione”, insomma: Aristotele contro Derrida. La colpa è sempre dell’Occidente, in questo caso perché si fa capire. In questa linea di interpretazione non poteva mancare “l’individualismo possessivo” quale tratto distintivo degli europei, opposto alla “valorizzazione della reciprocità, del mutuo aiuto e della vita sociale” presso gli Inca.

Due “Occidenti” a confronto
Mi sembra che quanto a semplificazioni e arbitrii possano bastare gli esempi qui riportati. Si potrebbero contestare uno ad uno e senza nemmeno grande sforzo tutte le affermazioni dense di pregiudizi di questi manifesti. Tuttavia a mio parere l’argomento definitivo contro la plausibilità di entrambi, sia quello religioso, sia quello filosofico, è il seguente:  sono perfettamente autosufficienti, cioè non è necessaria per la loro comprensione alcuna nozione o categoria culturale che non sia tipicamente occidentale. Gli inca qui sono solo un pretesto: il confronto è tra due prospettive che, benché imprecisamente delineate e frettolosamente semplificate, appartengono all’Occidente. Gli inca ancora una volta, nel migliore dei casi, rappresentano una proiezione dei desideri, dei sogni e delle utopie politicamente corrette elaborate nelle università statunitensi, in polemica con la tradizione filosofica continentale ma da questa strettamente dipendente. Si tratta di definitiva di quel panteismo filosofico e teologico in chiave new age, totalmente de-centrato rispetto alla tradizione metafisica, che si accosta ai contenuti delle riflessioni sul post-moderno, sulla società liquida, sul cosmopolitismo naturalistico contemporaneo.  Ciò comporta una peculiare avversione alle idee chiare e distinte, e la sopravvivenza in forma de-potenziata e confusa di spunti positivistici, marxisti, heideggeriani piegati alle esigenze ideologiche e agli scrupoli di coscienza della società contemporanea americana.  C’è qui un paradosso colonialista: i difensori di una supposta identità incaica sono i paladini della sovrapposizione a tale identità di una più invasiva e prepotente prospettiva occidentale.
Ciò è reso facile dal fatto che si elude, sotto il profilo storico ed ermeneutico, una fondamentale “questione incaica” che riguarda la mancanza di fonti dirette e documenti scritti per delineare con precisione i confini ideologici della civiltà precolombiana.  I nostri riferimenti sono i cronisti che si rifanno ad una tradizione orale, ricevuta da membri della comunità inca dopo l’invasione  e tradotti in spagnolo con l’intervento non indifferente della cultura, dei giudizi e talora dei pregiudizi degli autori. A ciò si sommano fonti archeologiche che, per i suddetti motivi, risultano più difficilmente interpretabili nei loro autentici significati. Questo appunto, se non determina, almeno favorisce le integrazioni surrettizie,  gli anacronismi e le distorsioni date dall’interesse e dalla pre-comprensione dei contemporanei, di cui i manifesti sono palese testimonianza.

Indigenismo e incaismo
Ecco allora che complessivamente si manifesta la prepotente interpolazione di quel mito del buon selvaggio cui avevamo prima accennato, inteso a costruire a sua volta il mito dell’incaismo quale versione localmente definita di un più generale “indigenismo”. Di che si tratta? Per una sua definizione  di prim’acchito ci riferiamo a Wikipedia che cita a proposito uno studio, non a caso edito dalla Duke University statunitense: Indigenismo […] is a political ideology in several Latin American countries emphasizing the relation between the nation state and indigenous nations and indigenous minorities[2]. In questa “enfasi” c’è una chiara scelta di campo: qualsiasi siano i contorni delle civiltà, degli usi e dei costumi pre-spagnoli, e malgrado  la complessità del compito di una loro ricostruzione storico-ideologica, essi sono “originari”, dunque migliori, dunque in grado di fondare l’identità nazionale e popolare delle genti dell’America latina ben al di là dell’ovvia ed esecrabile tradizione degli invasori europei. A tale indigenismo, il cosiddetto “incaismo”, facendo dell’incertezza e genericità delle fonti un pregio, offre oggi un’ulteriore interpretazione innocentista e primitivista che  fa della semplificazione non il retaggio delle difficoltà storiografiche bensì il riflesso della veridica e autentica “semplicità” del mondo pre-colombiano, una semplicità che si assume essere il più chiaro contraltare alla distruttiva e criminale opacità delle civiltà moderne. La coppia semplicità-innocenza viene dunque contrapposta a quella complessità-corruzione. Ciò ha peraltro un’ ulteriore gradita conseguenza: il grande spazio che si apre alla ricostruzione mitica. Nel maggiore museo Inca di Cuzco, (che è andato ad aggiungere, nel mio personale percorso, a quello di Qochiranca e all’altro nelle sue immediate adiacenze) su circa 20 sale più di un terzo sono dedicate all’incaismo, cioè alla ricostruzione contemporanea del “senso” della civiltà inca, adottato come elemento identitario da proporre alla nazione peruviana quale antidoto alle persistenti tradizioni europee in campo religioso, filosofico e non ultimo politico-sociale. Insomma ancora una volta gli inca colonizzati, gli inca come pretesto e supplenza ad una carenza identitaria… quando il mito viene chiamato appunto a colonizzare la realtà!

Ragioni dell’incaismo
La domanda che viene spontanea a questo  punto è la seguente: “Ma allora esistono autentiche tradizioni inca?”. Sì certamente. Da un lato non bisogna dimenticare le ragioni dell’incaismo, soprattutto tra la fine del XVIII e il periodo della lotta per l’indipendenza. Dalla rivolta di Túpac Amaru - nel 1780 con il tentativo da parte degli eredi di sangue della civiltà inca di contrapporre i loro diritto (diremmo oggi) all’autodeterminazione, al potere spagnolo, il quale procederà ad una severa e spietata repressione - al periodo del conflitto per l’indipendenza negli anni Venti dell’Ottocento è perfettamente comprensibile che la contrapposizione alla Spagna assumesse la tradizione indigena come rilevante fattore identitario.
 Diversa è però la situazione odierna. Malgrado le difficoltà strutturali relative alle fonti, la ricerca su questo popolo di sacerdoti e conquistatori, architetti e contadini ha potuto approfondire i caratteri del suo dominio su una vasta area del Sudamerica andino durante circa due secoli, dal XIII al XV. Si è potuto offrire il quadro della sua originale strutturazione politico sociale,  con la vertice la nobiltà di sangue, comandata sotto il profilo religioso da un sommo sacerdote sottomesso solo all’Inca, l’imperatore, considerato figura divina e detentrice del massimo potere. Dentro una complessa organizzazione territoriale del potere trovava spazio la quotidianità dei contadini riuniti in vasti nuclei familiari cui era assegnato una certa porzione di terra. In questo contesto politico sociale - in cui ogni sovrano era stimolato a ingrandire territorialmente l’impero con conquiste di sua mano per consolidare la sua autorità[3], e nel quale l’autorità stessa era legittimata religiosamente mediante articolate ritualità - trovano la loro collocazione i grandi architetti che diedero origine alla monumentalità religiosa e civile di quel popolo. Insomma si tratta di accedere ad un mondo dagli orizzonti vasti e complessi che se da un lato può offrire numerosi spunti di carattere ideologico concernenti la sua più generale visione del mondo, dall’altro non sopporta le semplificazione cui troppo spesso lo si sottomette.

Ragioni dell’europeismo
Su questo sfondo appare del tutto arbitrario il tentativo stornare l’Europa dalla storia del Sudamerica. Cinquecento anni dopo la conquista e duecento anni dopo l’indipendenza politica (dalla Spagna) dei popoli sudamericani, il proposito di mitizzare gli inca  risulta non tanto il frutto di una sostanziale ingenuità filosofico-politica, quanto l’esito di un operazione decisamente torbida e obliqua. Tanto più se ciò avviene mediante quadretti rassicuranti ad uso delle masse in cerca di una storia da far propria con la speranza che l’esclusiva garantisca al tempo stesso libertà, autodeterminazione, sviluppo e prosperità. Si tratta propriamente della strategia di cui parlavo all’inizio: convincere i sudamericani che sono solo sudamericani. Il che è una grande menzogna. Gli inca erano solo sudamericani, come lo erano  maya e aztechi nel centro e nord America. I popoli che oggi vivono nel continente no!
I peruviani oggi, come i boliviani e gli altri abitanti del continente sono culturalmente il risultato di quell’incontro-scontro tra le civiltà pre-colombiane e la Spagna, sono una sintesi vivente di quei due mondi. Tale sintesi iniziò certo in modo violento, secondo la modalità di una conquista, nella quale un impero ne sconfisse un altro. La storia è intrisa delle sofferenze connesse all’ “ascesa e declino delle grandi potenze” e tuttavia ciò è la condizione di ulteriori sviluppi di civiltà. Nate da interessi e cupidigia, spesso evolvono in splendore di opere, pensiero e bellezza.

 Mario Vargas Llosa, il grande scrittore arequipegno, sottolinea nel caso dell’America latina la profonda valenza civilizzatrice che ebbe la lingua spagnola: “Né gli storici, né i linguisti, né i sociologi si sono messi d’accordo su quante lingue esistevano in America all’arrivo degli spagnoli e dei portoghesi. Ciò che si sa è che gli americani non si capivano e per questo si combattevano e uccidevano tra loro. L’America era una Torre di Babele quando arrivarono gli europei, ed era letteralmente bagnata di sangue”; al contrario, in virtù della lingua spagnola, i latino-americani si sono “affratellati in una grande comunità […]. Una lingua […] suppone certi valori, conoscenze, cultura. Perciò con la lingua spagnola arrivò sulle nostre coste molto di più: la Grecia di Aristotele e Platone o Roma, con i suoi giuristi [e assieme a loro] una coscienza morale che giudica gli atti”… insomma “il meglio della cultura occidentale”[4]… il meglio di quella cultura in base alla quale gli stessi indigeni hanno pensato la loro storia e hanno potuto avanzare richieste di autodeterminazione, indipendenza, verità, libertà. La cultura degli oppressori è divenuta pertanto strumento di emancipazione.

Europa o USA?
Ciò deve promuovere un diverso approccio. I problemi del Perù e dell’America latina non si risolvono con un’involuzione autoreferenziale sul proprio passato indigeno. I sudamericani respirano con due polmoni, quello andino e quello spagnolo: non si può asportarne uno senza produrre una grave perdita di efficienza di tutto il corpo. Ciò vale ancor più se si tiene conto di quali sarebbero i chirurghi interessati a questa mutilazione: il nuovo colonialismo yankee, che a due anni dall’indipendenza peruviana, nel 1823 già elaborava la dottrina Monroe per tagliare le radici europee dei popoli americani e penetrare economicamente, culturalmente e politicamente nel continente al fine di trarne ricchezze senza nulla offrire in cambio. Certo un Perù, una Bolivia, un Cile, un’Argentina solo americani fanno comodo, perché hanno meno sponde cui appoggiarsi, sono più isolati e disponibili alle “generose” profferte neo-coloniali degli USA. Se poi tale penetrazione è sostenuta da un fattore religioso, con la irruenza delle sette protestanti che arrivano con i soldi del ricco Nord, la colonizzazione è veramente completa, raggiungendo le profondità dello spirito. A tali fattore si aggiunga infine l’opera delle istituzioni universitarie che promuovono stereotipi politicamente corretti, sostenuti da prospettive spirituali new age, in quella mistura esiziale di capitalismo compassionevole, marxismo socialdemocratico, democratismo dei diritti civili ed edonismo materialista che compie sul piano della cultura alta ciò che le sette hanno iniziato sul piano della cultura popolare.
Allora quale identità può preservare i latino-americani da questa grande palla al piede statunitense, avversa ad ogni autonomo sviluppo, ad ogni salute spirituale e ad ogni prosperità economica? Oggi i peruviani e tutti i latino-americani devono paradossalmente essere più europeisti degli europei. Vergas Llosa, non senza vis polemica, dice che l’indigenismo “è pura finzione”. Io, nel mio piccolo,  potrei dire che nella sua purezza è finzione. Non si può chiedere a nessuno di cancellare il legame con la propria gente e la propria stirpe. Ma la memoria deve essere dinamica, assumere come rilevante non solo ciò che si è stati ma anche ciò che si è diventati, evitando di scadere nel memorialismo reazionario che si espone troppo facilmente alle manipolazioni e alle mitologie. Nella loro storia i popoli del Sudamerica  sono diventati eredi, come dice l’autore della “Guerra della fine del mondo”, non solo della Spagna, ma della Grecia e di Roma, civiltà, modi di pensare e vivere, vorrei aggiungere,  che hanno preso forma in modo esistenzialmente rilevante anche e soprattutto grazie alla tradizione vivente della Chiesa cattolica. Da qui bisogna ripartire. In cambio, con lo spirito giovane, solare, naturalmente espansivo, naturalmente vivace e intelligente dei popoli latinoamericani l’Europa stessa ha da riscoprire se stessa, le sue radici, le sue vocazioni.

 E quel patriottismo sano, bello, sincero, autentico, allegro che ho visto qui in Perù; quel patriottismo grazie al quale, come Giuseppe Mazzini aveva intravisto, anche coloro che appartengono ad altre patrie possono cogliere l’universale bellezza dell’essere nazione; quel patriottismo che vive la patria terrena con il senso carnale e la fedeltà inconcussa alla patria celeste; quel patriottismo potrà fecondare i nostri popoli che nella loro storia, fatta anche di sangue e lotte, vivono già da sempre una più profonda fraternità.



[1] La differenza è che la Chiesa, pur assumendo il contenuto degli Atti degli Apostoli come ideale regolativo per le sue ricorrenti riforme, rimane ben lontana dal trasformare i contenuti del testo in utopia politica in vista dell’emancipazione storica dell’umanità: ciò è peculiarità di quel rovesciamento materialistico e storicistico della escatologia cristiana promosso dall’Illuminismo.
[2] “L’indigenismo è un’ideologia politica in diversi Stati laitno-americani che pone particolare enfasi sulla relazione tra lo Stato nazionale, le nazioni e le minoranze indigene”: K. Engle, The Elusive Promise of Indigenous Development. Rights, Culture, Strategy, Duke University Press, Durgham and London 2010.
[3] Come ogni impero anche quello inca realizzò le sue conquiste “molte volte in forma pacifica, ricorrendo alla diplomazia (la minaccia e la negoziazione con le élites locali), prima che alla guerra. In tutte queste  strategie la chiave del successo fu l’esistenza di un esercito ben approvvigionato mediante una catena di depositi statali, con grande mobilità, grazie ad un ampia rete di vie e sentieri e ad un serie di avamposti ben comunicanti fra loro e ben difesi in tutto il territorio”, C. Contreras- M. Zuloaga, Historia minima del Perù, El Colegio de Mexico, Ciudad de Mexico 2014, pos 761-765. Tale considerazione ridimensiona la mitologia degli Inca “pacifici”, un visione molto diffusa anche presso alcune istituzioni museali, che per giustificarla hanno finito per riproporre in chiave andina quella che era stata la dinamica spagnola dl requerimiento, spacciandola come testimonianza della volontà inca di non procedere in modo indiscriminato all’uso delle armi.
[4] Dal discorso di M. Vargas Llos al VII congresso internazionale della lingua spagnola,  in https://eltorotv.com/noticias/mundo/leccion-de-vargas-llosa-a-lopez-obrador-sobre-la-conquista-espanola-20190327


N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

Nessun commento:

Posta un commento