Amico, nemico, guerra: la politica nella tragedia della
guerra russo-americana in Ucraina si manifesta in tutta la sua serietà. La
politica esce dalle sue mistificazioni liberali e rivela la sua vicinanza con
il pericolo, la sua pertinenza ad un’umanità segnata dalla violenza e, vorremmo
anche dire, dal peccato. Le categorie irenistiche, ma sotto sotto brutali, dell’economicismo
liberale e dell’umanitarismo occidentale divengono tragicamente inservibili,
mentre l’Europa sprofonda nella sua impotenza e nella subalternità dovuta alla
strutturale incapacità di decidere autonomamente chi è suo nemico. Gli altri
soffrono (gli ucraini, ma anche i russi) e godono (gli americani). I popoli del
Vecchio continente si affacciano all’orlo di un baratro di miseria e disordine.
Urge allora rivedere il nostro modo di pensare, attingendo ad una saggezza
integra, perché quando le élites si dimostrano
incapaci di decidere, la palla deve tornare in mano ai popoli, chiamati a
scegliere chi nuovamente potrà pensare, agire e servirli con chiarezza e
libertà. Qui sotto un riassunto del classico testo di Carl Schmitt intervallato da spiegazioni e chiarificazioni dei punti più difficili e teoricamente rilevanti.
Premessa
Schmitt, nella premessa del 1963 in occasione della
riedizione de “Il concetto di politico” secondo il testo del 1932, sottolinea
come il suo intento fosse stato quello di “definire la relazione reciproca tra
i concetti di statale e di politico, da una parte, e di guerra
e nemico dall'altra, per indicarne il contenuto informativo per la
scienza del diritto”. Che rapporto ha dunque lo Stato con la politica e la
guerra, come è venuto mutando questo rapporto dall’epoca antica a quella
moderna e contemporanea? Studiando questa evoluzione emergerà con chiarezza una
definizione pregnante di “politico”, un criterio di distinzione di tutto ciò
che è politico da quanto attiene ad altre sfere dell’esistenza. Ciò sarà di
primaria importanza per capire la realtà passata e presente.
La sfida
Il campo di relazioni del politico muta al mutare
delle situazioni storiche: per il teorico che si sforza di definire i concetti
della politica, il punto di partenza insuperabile è la concreta situazione
storica che sta vivendo e che darà il tono a tutta la sua riflessione. Diverso
sarà il punto di vista di un Aristotele che aveva davanti a sé la polis
greca e di un Tommaso che è immerso nella realtà dei conflitti Chiesa-Impero,
malgrado il secondo utilizzi un linguaggio che ricalca fedelmente quello del
primo. L'Europa ha sino a poco tempo fa vissuto in un'epoca in cui “i concetti
giuridici erano improntati allo Stato come modello dell'unità politica”: ora
l'epoca della statualità[1]
sta giungendo alla fine. Statuale e politico erano identificabili
nell'epoca classica dello Stato (la modernità europea) che era riuscito
all’interno dei propri confini a promuovere la pace e ad eliminare l’inimicizia,
accantonando le faide e le guerre civili confessionali. All'interno dello Stato
vi era solo polizia e non più politica, che era divenuta sinonimo
di perturbamento. Ciò significa che i conflitti radicali e suscettibili di
trasformarsi in lotte armate tra gruppi non venivano più ammessi e la
pacificazione era sottoposta al controllo della polizia. La politica non
avveniva tra i cittadini di uno Stato, le cui divergenze erano regolate e
limitate dalla legge e dalla forza legittima del potere statale, ma tra Stati.
Politica in senso alto solo quella estera condotta da uno Stato sovrano e
confronti di altri Stati sovrani sulla base di un riconoscimento reciproco in
cui era lo Stato decidere amicizia, ostilità o neutralità. La classicità di
questa forma e modello di unità dipende dal fatto che essa permetteva
distinzioni chiare (interno-esterno, guerra-pace eccetera). Anche in guerra
tutti hanno il loro status e nemico il diventa nemico legittimo. Le
guerre sono limitate circoscritte dal diritto internazionale e terminano con un
trattato che normalmente contiene una clausola di amnistia (azzeramento delle
violazioni delle rispettive leggi commesse durante il periodo di conflitto). La
regolamentazione della guerra attuata dal diritto internazionale europeo significa
una relativizzazione dell'ostilità e un grande progresso in senso umanitario
che invece le contrapposizioni contemporanee di classe o di razza tendono
vieppiù a demolire, facendosi scudo di una superiore finalità “morale”. Stato e
sovranità sono dunque i fondamenti delle limitazioni di diritto internazionale
sin qui applicata alla guerra. Chi demolisce le distinzioni classiche deve
pertanto sapere ciò che fa. Dopo i tentativi consapevoli in tal senso di Marx,
di Lenin e dei rivoluzionari, la situazione è in bilico oggi tra la forma
(statuale, in via di decadimento) e la mancanza di forma (che si approssima),
cioè tra l’ordine classico dello Stato e le ideologie contemporanee che
vorrebbero superarlo in vista di un mondo utopico, dove un ideale romantico di
umanità redenta e di società perfetta riterrebbe possibile rinunciare alla
severa e difficile negoziazione politica e giuridica, e finisce invece per
ottenere risultati per lo più disastrosi. Ciò contiene una sfida per il
pensiero.
Tentativo di risposta
Questo testo costituisce un tentativo di risposta alla
sfida, indagando non più il diritto interno e costituzionale dello Stato, ma
facendolo incontrare con il diritto internazionale. Testo inizia con la frase:
"Il concetto di Stato presuppone quello di politico". Tale
affermazione è una provocazione per gli esperti di diritto pubblico ma si
rivolge anche a storici, a teologi e filosofi, categorie che in qualche modo
hanno recepito e variamente discusso la ricerca in questione. Tra gli storici
interessanti sono state le riflessioni di Otto Brunner che ha voluto verificare
storicamente la pregnanza del criterio del politico qui sviluppato, pur
sottolineando criticamente in esso l’assegnazione di un primato al nemico e all’inimicizia
mentre in realtà il concetto negativo di “nemico” è utilizzato per far
risaltare quello positivo di unità politica, allo stesso modo in cui, rileva
Schmitt, il concetto negativo di pena fa risaltare quello positivo di diritto.
Rivolgersi agli storici non esime dal compito di tenere ben salda la sfida
dell'oggi e dell'odierna evoluzione in senso disordinato e rivoluzionario dei
concetti di guerra e di nemico. La storia, anche per Schmitt, è essenzialmente
storia del presente, cioè nasce dagli interessi sul presente e sul presente fa
ricadere i suoi risultati. Il lavoro si rivolge però anche i teologi e filosofi
che si sono occupati del concetto di politico. Le difficoltà nell'intendersi
con questi ultimi sorgono dal loro tipo di comprensione del problema, opposto a
quello giuridico di Schmitt. Il giurista sostiene di trovarsi a metà strada tra
i teologi e filosofi da un lato, e il progresso tecnico sociale dall'altro,
cioè tra una rivalutazione del diritto naturale a base teologico morale e il
positivismo giuridico dall’altro. Il primo orientamento giusnaturalista è in
altre sedi criticato perché eccessivamente astratto e tale da far prevalere la
massima morale assoluta rispetto alla necessità di normare e ordinare
situazioni concrete. Il secondo, corrispondente al giuspositivismo, è
considerato un modello di interpretazione del diritto che, al contrario, si
limita a commentare meccanicamente i codici vigenti, assumendoli come posti
dalla volontà di una qualsiasi autorità. Di qui la possibilità da parte di
soggetti politici rivoluzionari di abusare del concetto di legalità, facendola
diventare strumento malleabile per raggiungere i loro scopi politici. In entrambi
i casi è minacciato il contenuto informativo delle definizioni della scienza
giuridica. Secondo l’autore, il presente saggio, in una situazione storica e
culturale confusa come la sua, aiuta a far chiarezza. Viceversa, non bisogna
curarsi degli usi extrascientifici del presente saggio, in cui si cita la
teoria dell’amico-nemico solo per sentito dire e con obiettivi di polemica
spicciola
Prosecuzione della risposta
Ad anni dalla prima pubblicazione del testo perdura il
contrasto tra l’impiego ufficiale di concetti classici del diritto e della
politica e la realtà effettiva di scopi metodi propriamente rivoluzionari. Con
tale considerazione Schmitt intende sostenere che la scena della politica
mondiale è caratterizzata dall’irrompere delle prospettive socialistiche,
democratico-radicali e nazionalistiche, che ambiscono a distruggere le forme
istituzionali, le strutture di governo e gli istituti giuridici dell’Europa
moderna, alcune in nome dell’eliminazione del concetto stesso di Stato. Ciò
rende gli strumenti della scienza giuridica tradizionale incapaci di
interpretare la realtà e darle uno specifico ordine e una peculiare
configurazione giuridico-politica. Dunque, la sfida di un pensiero che dia
conto e riesca a fare presa sulla realtà effettiva non viene meno. Per
affrontarla non sono più disponibili grandi sistemi, nati nell’Europa moderna
che ha coniato il diritto pubblico europeo, cioè un grande tentativo
sistematico di regolare giuridicamente i rapporti tra le potenze statali.
Rispetto a questa fase è possibile solo uno sguardo storico retrospettivo, come
Schmitt ha tentato di fare nel suo saggio "Il nomos della terra", in
cui si affrontano i concetti tradizionali di Stato, guerra e “nemico giusto”. Piuttosto
va messo in atto un rinnovato e più attento sguardo attento al
"fenomeno", cioè ai nuovi eventi storico-politici, da giudicarsi in
base a criteri ad esso propri.
La carenza del testo del 1932 è nella mancante
distinzione di vari tipi di nemico: convenzionale, reale, assoluto. Questa
osservazione dovuta a Julien Freund e a George Schwab mostra che la ricerca
prosegue evidenziando la necessità di approfondire il fenomeno dell'ostilità.
Nel saggio Teoria del partigiano si promuove un simile tentativo. Nella
guerra partigiana, osservabile a partire dal conflitto sino-giapponese del 1932
e dalla Seconda guerra mondiale “coesistono due processi opposti, due tipi del
tutto diversi di guerra e di ostilità: innanzitutto un’opposizione autoctona,
nella sua essenza difensiva, che la popolazione di un paese contrappone
all’invasione straniera, e in secondo luogo l’appoggio e il rafforzamento di
questa opposizione da parte di terze potenze interessate, agenti a livello
mondiale”. In questo contesto la figura del partigiano come “irregolare” è
divenuta centrale in una forma di guerra rivoluzionaria sempre più globale.
Allo stesso modo anche la guerra fredda – in cui i concetti di guerra, pace e
neutralità non funzionano più - rompe con gli schemi tradizionali di
interpretazione della guerra. Come sarebbe possibile sospendere la riflessione
sull'amico-nemico in un'epoca che produce mezzi di distruzione nucleare e al
tempo stesso a cancellare la distinzione tra guerra e pace? Di qui la ristampa
de “Il concetto di politico”.
Il concetto di politico (testo del 1932)
Stato società e concetto di politico[2]
1) Il concetto di Stato presuppone quello di politico.
Lo Stato si definisce come status, cioè la situazione di un popolo.
Questa corrisponde al modo in cui un popolo si è organizzato con le sue leggi e
le sue istituzioni di governo. Tale organizzazione è quella che nei momenti più
difficili, quando è in gioco l’esistenza stessa del popolo, avoca a sé ogni
decisione. Dunque, lo Stato è la situazione che fa da criterio nel caso
decisivo e costituisce lo status decisivo di fronte ai molti possibili
"stati" individuali e collettivi, di fronte a molte e diverse
situazioni che potrebbero caratterizzare la vita collettiva senza essere estreme
e/o tragiche. Tuttavia, questa definizione storico-etimologica non dice ancora
niente sul politico sul suo primato rispetto allo Stato. Finora il concetto di
politico è stato, contraddittoriamente, definito in base a quello di Stato: se
lo stato qualcosa di politico il politico è qualcosa di statale, cioè nella sua
manifestazione, sia pratica sia teorica, presuppone sempre uno Stato esistente:
c’è politica quando c’è lo Stato, solo lo Stato fa politica, solo le sue
istituzioni hanno il diritto di definirsi politiche. Tali definizioni
funzionano fino a quando vi sia uno Stato come entità chiara e stabile che
abbia il monopolio del politico. Fino a quando non c’è dialettica, conflitto,
decisione politica che non veda coinvolti gli uomini dello Stato, che sono
nella società chiaramente distinguibili, avendo un ruolo diverso e
pubblicamente riconosciuto, allora le antiche definizioni[3]
funzionano. Nella misura in cui lo Stato
e la società si compenetrano a vicenda e tutti gli affari statali diventano
sociali e viceversa (democrazia), tali definizioni non vanno più bene. Nello
stato democratico, sociale e totale, tutto è politica. L’Ottocento vede
dipanarsi la storia del passaggio dallo Stato assoluto allo Stato sociale e
totale delle democrazie le quali ambiscono a sopprimere, in nome del primato
della società, ogni differenza. All’incontro della democrazia con il
liberalismo, che intende limitare ogni sovranità in nome delle libertà e dei
diritti borghesi, si genera il paradosso per cui lo Stato deve provvedere
interamente alla vita dei cittadini, perché è democraticamente al loro servizio
e i cittadini ne hanno preso possesso. Però in nome delle limitazioni liberali
cui va soggetto non può agire sovranamente: deve cioè “saper fare ogni genere di
cosa, ma non poterne fare alcuna”. L’identità democratica di Stato e società si
afferma dopo il periodo d’oro del liberalismo primo-ottocentesco, dal 1848.
Amico e nemico
2) Il politico ha propri criteri che agiscono in modo
peculiare e differenziato rispetto ad altri settori dell'attività umana: quello
morale, estetico, economico. Se in questi ultimi il criterio distintivo di
fondo può essere quello rispettivamente di buono-cattivo, bello-brutto,
utile-dannoso, la specifica distinzione politica, alla quale possibile
ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione amico (Freund)-nemico
(Feind). Questa è una distinzione concettuale che fornisce un criterio,
non è una definizione esaustiva una spiegazione del contenuto. Cioè ci aiuta a
distinguere un campo, il campo dell’azione politica, senza dirci quali sono
tali azioni, cioè che cosa fanno i politici, come agiscono o dovrebbero agire.
Quello che ci dice e che essi, qualsiasi cosa facciano, la fanno con amici e
contro nemici. Tale criterio distintivo (e, diremmo, formale, n.d.r.) non
è derivabile dagli altri menzionati e quindi autonomo. Il senso della
distinzione amico-nemico è quello di segnalare il grado di intensità di
un'unione o di una separazione, di un'associazione o dissociazione, che vale
senza che le altre distinzioni debbano per forza essere coinvolte (il nemico
non è per forza brutto o cattivo o economicamente dannoso). Il nemico è semplicemente
l'altro, lo straniero con cui, nel caso limite, è possibile un conflitto.
L'intensità della distinzione e la sua fortissima valenza esistenziale fanno sì
che spesso il nemico sia dipinto come brutto o cattivo, ma ciò non contrasta
con l'autonomia del criterio stesso. In nota Schmitt spiega che chi ha un
nemico assoluto da combattere tende a rifiutare questa analisi come
eccessivamente riflessiva e obbiettivistica, quasi che, come avviene in Lenin,
la metariflessione sulla dinamica amico-nemico depotenziasse la forza con cui
ci si deve scagliare contro il nemico stesso, identificato con il Male. Il
liberale, che al contrario vorrebbe irenisticamente trasformare il nemico in
partner economico – tralasciando la valenza esistenziale della relazione di amicizia/inimicizia
– per motivi opposti tende a neutralizzare la distinzione in oggetto. In
sostanza l’amico e il nemico vengono o demonizzati o normativizzati o infine
moralizzati secondo la polarità valore/disvalore.
Nemici pubblici e privati e guerra
3) Amico e nemico vanno presi nel loro significato
concreto ed esistenziale, rifiutando la demonizzazione o la normativizzazione
che su queste categorie operano da un lato coloro che sono impegnati in una
lotta con un nemico assoluto, i quali ritengono la riflessione su questa
categoria essere una relativizzazione sospetta del loro avversario e della loro
lotta, dall'altro coloro che, neutralizzando i conflitti, vorrebbero
trasformare il nemico in partner e condannare così il criterio come
guerrafondaio. Il liberalismo attentato ad esempio di trasformare il nemico in
concorrente o in avversario nella discussione. Nondimeno la realtà esistenziale
del fatto che i popoli si raggruppano secondo il criterio di amico-nemico
rimane ed è questo che interessa. Il nemico diverso dal concorrente o
dall'avversario privato ma è un insieme di uomini che combatte, almeno
virtualmente già in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un
altro raggruppamento umano dello stesso genere. Nemico è nemico pubblico, poiché
tutto ciò che si riferisce ad un simile raggruppamento e, in particolare ad un
intero popolo, diventa per ciò stesso pubblico. I latini e greci posseggono i
termini adeguati a questa distinzione: in latino nemico pubblico è espresso con
la parola "hostis", quello privato con la parola "inimicus"
(“hostis è colui con il quale combattiamo pubblicamente una guerra … in
ciò si differenzia dall’inimicus che è colui col quale abbiamo odi
privati. I due concetti possono essere distinti anche nel senso che inimicus
è colui che ci odia, hostis colui che ci combatte” E. Forcellini, Lexicon
totius latinitatis); in greco il nemico pubblico è il "polemos",
quello privato l'"echthros". A tale proposito la nota espressione
evangelica dell'amore del nemico riguarda il nemico privato non quello
pubblico.
La contrapposizione è tanto più
politica, quanto più si avvicina al punto estremo. All'interno dello Stato, in
quanto unità politica organizzata, esistono contrasti politici che nondimeno
risultano relativizzati dallo Stato stesso il quale avoca a sé la suprema
decisione sull'amico-nemico. L'idea di una politica fondata sull'antagonismo
rimane anche là dove si è persa la consapevolezza del dato estremo. Ciò è
visibile nel fatto che tutte le espressioni e i concetti politici hanno un
senso polemico: hanno presente una conflittualità concreta e sono a essa
legati. D'altro canto, all'interno dello Stato i conflitti di partito ricordano
la dinamica amico-nemico cui sbiaditamente si rifanno (e quando non sono relativizzati
dall'unità statale, ne minano l'unità stessa, come accade nella guerra civile o
stasis). Insomma, nel concetto di nemico rientra l'eventualità reale di una
lotta, termine da intendersi in maniera assolutamente originaria, cioè tale da
contemplare la possibilità dell'uccisione fisica. Tutto ciò non ha un
significato bellicista o militarista.
Anche in Clausewitz, che affermò il
legame guerra-politica, in realtà la guerra è solo l'extrema ratio del raggruppamento
amico-nemico. La guerra riposa sulle leggi tecnico-tattiche sue proprie, ma
rivela la sua dipendenza dalla politica, cioè dalla decisione politica sul
nemico. Essa, secondo Clausewitz ha una grammatica sua propria, ma il suo
cervello è la politica. Ciò costituisce una rassicurante limitazione della
guerra stessa. Infatti, la guerra non è scopo o meta della politica benché
rappresenti il suo presupposto sempre presente come possibilità reale in cui si
manifesta la conseguenza estrema del raggruppamento politico
amico-nemico. Un mondo completamente rappacificato sarebbe dunque un mondo
senza politica. Nulla può sottrarsi alla consequenzialità del politico: ogni
elemento in grado di generare un raggruppamento amico-nemico per ciò stesso
diventa politico. Nemmeno il pacifismo si sottrae quando dichiara guerra alla
guerra, aumentando, contro le sue stesse intenzioni, l’intensità della sua
supposta ultima guerra per la fine di tutte le guerre. La guerra pacifista
contro la guerra deve essere particolarmente intensa perché trasforma il nemico
in mostro disumano che non può essere solo sconfitto ma deve essere
definitivamente distrutto, in quanto unico responsabile della sopravvivenza
della guerra stessa.
Il caso critico
4) Ogni contrasto religioso, morale o
economico si trasforma in un contrasto politico se è abbastanza forte da
raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici. Il politico non
consiste nella lotta stessa ma in un comportamento determinato da questa
possibilità reale, nella chiara conoscenza della situazione particolare e nel
compito di distinguere concretamente gli schieramentio Quando all'interno di
uno Stato, una comunità religiosa, sociale, economica eccetera, è politica al
punto tale da poter impedire allo Stato di condurre una guerra ma non al punto
da poter acquisire per sé il potere statale, l'unità politica statale stessa è
dissolta. Questo è il caso di chi detiene una potestas indirecta[4],
religiosa, morale o culturale, che genera i conflitti senza poterli decidere e
quindi produce stasis, discordia e contrasto interni alla comunità
politica, che finiscono per disgregarla.
È politico un raggruppamento orientato al caso
critico, cioè la guerra, e la sua politicità si misura in base all'intensità di
tale orientamento. Il raggruppamento politico decisivo, che cioè possiede la facoltà
di decidere sul caso critico, è anche sovrano. Non importa se esso coesiste con
la presenza al suo interno di più societates (associazioni o
raggruppamenti di uomini), ciò che conta è sempre solo il caso del conflitto.
Chi decide in caso di conflitto, e chi decide se tale caso esiste, è l'unità
politica decisiva, cioè sovrana[5]. Nella
teoria pluralistica dello Stato di Larski vi è l'elusione di tale problema e lo
Stato, governamental association che si pone in una situazione di
uguaglianza con altre e disparate forme di associazione, non ha una fisionomia
precisa perché non viene affrontato il tema di chi decide sul caso critico. Che
lo Stato sia l'unità politica decisiva dipende dal suo carattere politico, cioè
dal fatto che raggruppa gli uomini secondo il criterio amico-nemico e decide
sull'applicazione concreta di tale criterio. Ciò crea qualcosa di
specificamente diverso da un insieme di associazioni.
Il diritto di
vita e di morte e la guerra come fatto esistenziale
5) Allo Stato compete il jus belli
(diritto di guerra) cioè la possibilità di determinare il nemico di combatterlo
in forza di una decisione propria: con quali mezzi tecnici, organizzazione
militare, probabilità di vincere è indifferente. Lo Stato, dunque, in quanto comunità
politica, ha concentrato su di sé “una competenza immensa: la possibilità di
fare la guerra e quindi spesso di disporre della vita degli uomini”. Tuttavia,
il compito principale di uno Stato consiste soprattutto nell'assicurare
all'interno del suo territorio una pace stabile ("tranquillità, sicurezza
e ordine") procurando in tal modo una situazione normale che funge da
presupposto perché le norme giuridiche possono avere vigore, giacché ogni norma
presuppone una situazione normale. Questo compito conduce alla necessità per lo
Stato di determinare da sé anche il nemico interno attraverso apposite
procedure di “bando”. Qualora si verifichi
un conflitto interno, questo corrisponderà ad una guerra civile. In ogni caso
la comunità politica con il potere che ad essa pertiene di indurre il cittadino
alla guerra e quindi alla morte o all’uccisione del nemico, si eleva sopra ogni
altro tipo di comunità e di società, pur potendo esistere, all'interno della
stessa unità politica, gruppi di rango inferiore cui può essere attribuito il
medesimo jus vitae ac necis (diritto di vita e di morte).
In una “società determinata in senso
economico” non può succedere che si richieda la vita all'individuo per la
difesa della società stessa, giacché, a differenza di quanto avviene nello Stato
politico, ciò contraddirebbe i principi individualistici su cui si regge la
stessa società. Altrettanto non possono fare i "pacifisti" che
chiedono una guerra perché finiscano le guerre. Infatti, la guerra e la
disponibilità a morire e a uccidere non hanno alcun senso normativo o legato a
ideali, ma solo uno esistenziale legato alla realtà di una situazione
consistente nella lotta reale contro un nemico reale.
Non esiste uno scopo razionale, né una
norma così giusta, né un programma così esemplare, non è un ideale sociale così
bello né una legittimità o legalità che può far apparire giusto che gli uomini
si ammazzino vicenda. Se una distruzione fisica di questo genere della vita
umana non deriva dall'affermazione esistenziale della propria forma nei
confronti di una negazione altrettanto esistenziale, ciò non può neppure in
generale trovare legittimazione. Infatti, la legittimazione non può che essere
politica, senza mai essere giuridica o etica. Una guerra ha senso cioè solo
nell'essere combattuta non per ideali o norme giuridiche - cosa che renderemo
grammaticalmente con un complemento di fine o di causa - ma solo contro un
nemico reale - grammaticalmente legato al complemento di opposizione. La guerra
cioè è un fatto eminentemente esistenziale, è il fatto originario che X
minaccia Y e Y combatte contro X. La giustizia non rientra nella definizione
della guerra: “Justitiam in definitionem belli non includo” (Grozio, De
Iure belli ac pacis, 1,I)
Quando uno Stato proclama di rinunciare alla
guerra come mezzo di risoluzione le controversie internazionali e rinuncia ad
essa come strumento la politica nazionale, ciò sottostà a precise riserve:
autodifesa, i trattati esistenti eccetera. Tali riserve fanno parte del
contenuto concreto delle norme e non delle sue eccezioni: uno Stato
indipendente decide poi da sé se sussistono i casi in cui si applicano le
suddette riserve.
Infine, non si può bandire alla guerra in
generale, ma solo determinati popoli, uomini o Stati che mediante un
"bando" possono essere dichiarati nemici. Il bando della guerra non
elimina la distinzione amico-nemico ma da tale distinzione un vigore ancora
maggiore. In sostanza nessun popolo, avente esistenza politica, può rinunciare
alla fatale distinzione amico nemico. Qualunque popolo rinunciasse
volontariamente a distinguere e volontariamente disarmasse ne troverebbe subito
un altro disposto a farlo in vece sua, e cui, per la coscienza del nesso
protezione-obbedienza[6],
dovrebbe sottomettersi. Quindi il politico non scompare dal mondo per il fatto
che un popolo non ha più la forza o la volontà di mantenersi nella sfera del
politico stesso, scompare semplicemente un popolo debole.
Concetto di
politico e pluralismo statale
6) Dal concetto di politico discende
quello di pluralismo degli Stati. Infatti, uno Stato come unità politica esiste
fintantoché si contrappone ad un altro Stato. Ciò è conseguenza del fatto che l'unità
politica, essendo fondata sul concetto di amico-nemico, non può per essenza
essere universale. Un eventuale Stato mondiale non sarebbe politico e
contemplerebbe pertanto una civiltà, un'economia, una morale, un diritto,
un'arte e uno svago non contaminati dalla politica, con la parallela
eliminazione della politica e dello Stato stesso. Ulteriore conseguenza sarebbe
che l'umanità, comprendendo tutti non fosse un'entità politica: la tendenza
universalistica della Società delle Nazioni a concepire un'unità politica
dell'intera umanità si imbatte in insuperabili contraddizioni e chi fa guerra
in nome dell'umanità simili concetti universali li strumentalizza per poter
aumentare la propria potenza e svilire a tal punto il nemico da rendere
legittimo il suo annientamento. Uno Stato mondiale sarebbe altresì una potenza
universale che unifica, centralizza e pianifica il proprio dominio a livello
globale. E non si può sperare che tale enorme concentrazione del potere sia
evitata dalla trasformazione dello Stato in un grande apparato in cui “le cose
si governano da sé” in vista della massimizzazione del progresso tecnico, del
profitto economico (e del benessere). Così nulla si guadagnerebbe in libertà.
Antropologia e
politica
7) Premettiamo a questo capitolo schmittiano
una ripresa di quello precedente con una piccola riflessione interpretativa.
Schmitt ha detto prima che nel caso di un'umanità riunita in uno Stato mondiale
ci si dovrebbe chiedere quali uomini spetterebbe il potere relativo ad una centralizzazione
economica e tecnica estesa a tutto il mondo. Infatti, non si può pensare che in
tale caso “le cose si governerebbero da sole” in modo tale da rendere superfluo
il dominio di uomini su altri uomini. Anzi, sembra che egli non abbia nessuna fiducia
in questo ideale umanitario e universalistico il cui rappresentante storico era
ai suoi tempi la Società delle Nazioni. Per Schmitt nel grande apparato delle
cose che si autogovernano tecnicamente, amministrativamente e burocraticamente,
auspicato dai promotori della SdN, la centralizzazione universale estenderebbe
e radicalizzerebbe il dominio dell’uomo sull’uomo, rendendo tutti sudditi di un
immenso potere impersonale. In relazione a tale eventualità, egli dice, si
possono avanzare ipotesi e supposizioni ottimistiche o pessimistiche. Cioè si
può auspicare o meno il realizzarsi di una simile prospettiva solo alla luce di
una specifica considerazione dell’uomo. L’uomo, in sintesi, è buono o cattivo?
Questo per Schmitt è un problema fondamentale per la politica. Le sue parole
lasciano intravedere la convinzione che ha fatto capolino in diverse sue opere
prima e dopo la guerra (si vedano i saggi raccolti da A. Campi nella silloge
intitolata “L’unità del mondo”): se l’uomo è buono, lo Stato mondiale impolitico,
universale, sarebbe in fondo la fine di un potere che apparteneva ad un’epoca
ormai passata dell’umanità in cammino verso vette morali sempre più alte. Se,
viceversa, l’uomo è cattivo, tale utopia celerebbe l’inferno di un dispotismo
generalizzato che solo si dissimula dietro l’apparenza di un apparato neutrale.
Nello Schmitt del “Concetto di politico, la questione va calata nella storia
delle dottrine politiche. La contrapposizione tra visione antropologica
dell'uomo "buono" o "cattivo" è il punto di riferimento
rispettivamente delle teorie liberali e/o anarchiche, da un lato, e quelle
politiche dall'altro. Le prime sono necessariamente impolitiche perché eludono
l'ostilità, nel caso del liberalismo in nome delle esigenze di una borghesia
che vuole assorbire il politico nell’economico, trasformando ogni conflitto in
concorrenza dentro una società pacificata e autogovernantesi con la minima
presenza dello Stato; nel caso dell’anarchismo in nome dell’utopia della
fratellanza universale. Le teorie cui va attribuita la qualifica di “politico”
presuppongono viceversa l'uomo come "cattivo" o almeno problematico.
Tutti i pensatori politici - si spinge a dire Schmitt citando i più grandi come
Machiavelli, Hobbes, Bossuet, Fichte, De Maistre, Donoso Cortés, Taine e anche
Hegel - hanno in comune visione dell'uomo come di un essere problematico. Poiché,
infatti, la sfera del politico è determinata in ultima analisi dalla
possibilità reale di un nemico, le concezioni e le teorie politiche non possono
avere come punto di partenza un ottimismo antropologico radicale, altrimenti
essi eliminerebbero, insieme alla possibilità del nemico, anche ogni
conseguenza specificamente politica. Qui viene alla luce la connessione
metodologica con il pensiero teologico che presuppone l'uomo come peccaminoso,
bisognevole di redenzione, e che rende impossibile l'ottimismo antropologico.
In sostanza, in un mondo di uomini buoni sarebbero parimenti superflui preti e
politici. Questa conclusione che sancisce il legame politica/antropologia
scettica o tendenzialmente pessimistica, è attraversata da diversi
approfondimenti veramente illuminanti:
1) una considerazione su antropologia
e politica - secondo i filosofi dello Stato del sec. XVII, secondo Machiavelli,
letto da Dilthey e a partire dalle idee di
altri studiosi tra cui H. Plessner.
Schmitt osserva che gli apologhi di
animali hanno sempre un significato politico (es. il problema dell’attacco
nella favola del lupo e dell’agnello, o il problema della giustizia
interstatale nelle favole di assemblee di animali…etc.) e i filosofi dello
Stato del XVII secolo come Spinoza, Hobbes e Pufendorf hanno considerato la
relazione internazionale tra Stati sovrani come uno stato di natura in cui
ciascuno insidia l’altro e tutti si comportano reciprocamente come belve mosse
dai loro istinti (fame, avidità, terrore, gelosia). Schmitt vede in ciò un preciso
orientamento antropologico, confermato dalla lettura diltheyana di Machiavelli.
Secondo Dilthey per Machiavelli l’uomo non è cattivo per natura ma inclina
fortemente verso l’istintualità animale. È da tale tendenza che il segretario
fiorentino trae la legge fondamentale della politica. Lo studioso H. Plessner
viene poi citato da Schmitt come uno che ha sottolineato questo legame
costitutivo tra antropologia e politica, evidenziando al tempo stesso il
carattere indeterminato, impenetrabile, disposto al rischio e dunque
tendenzialmente “cattivo” della natura umana.
2) un approfondimento su Hegel e il
nemico come differenza etica;
Qui si dice che Hegel è un pensatore
politico in senso pieno e si elencano alcuni fattori squisitamente politici del
suo pensiero. A) L’idea per cui lo spirito è spirito contemporaneo: mi sembra
di capire che secondo Scmitt, Hegel è immerso nel presente e non prepara
trappole intellettuali in nome di una purezza non politica. Il presente
sono i dinamismi conflittuali della realtà concreta che il filosofo mette in
primo piano nel suo sforzo teoretico B) La dottrina della trasformazione
dialettica della quantità in qualità descrive una prerogativa del politico che
compare sempre quando l’intensità di un conflitto supera una certa soglia, a
prescindere dalla natura del conflitto stesso e dal campo esistenziale in cui è
nato. Per esempio, l’economia, classicamente considerata come luogo di rapporti
puramente quantitativi, neutrali e oggettivi, nell’Ottocento viene scoperta
essere, oltre una certa soglia, matrice di un potere sociale che genera quel
peculiare conflitto che è la lotta di classe. C) La definizione hegeliana del
borghese, come colui che non vuole abbandonare la sfera del privato per mancanza di coraggio, è fortemente
polemico-politica. D) La definizione del nemico come “differenza etica” allude
all’idea che anzitutto il nemico sia l’estraneo da negare nella sua totalità
esistenziale, nei confronti del quale il pericolo di lotta significa anche
pericolo della morte, della fine e del nulla da parte di entrambi i
contendenti. In secondo luogo, tale differenza si pone sul piano etico, cioè
non morale, bensì dell’eticità. Qui bisogna precisare: per Hegel l’eticità è un
momento dello sviluppo dello spirito umano in cui si compie la fusione del
singolo e della comunità. Il singolo non pensa più il bene e il male per sé ma
dal punto di vista universale, cioè del suo popolo. Egli si pensa come popolo.
Ecco allora che “la libertà soggettiva diventa volere razionale universale e il
dover essere del singolo diventa l’essere di un popolo”. Il nemico come
differenza etica allora è l’altro, l’opposto, ma come popolo, non come singolo.
E) Tale concezione del nemico “migra”, con la mediazione di Marx e Lenin, a
Mosca. Qui il metodo dialettico individua la forza concreta di un nuovo
concetto concreto di nemico, il nemico di classe. Tale inimicizia è così
intensa che attrae nella sua sfera lo stesso metodo, che diventa arma di questa
lotta: attraverso la dialettica in Lenin, si individua di volta in volta la
situazione reale, gli attori politici in campo e il contegno da mantenere nei
confronti del nemico di classe per batterlo con più efficacia, pertanto la
dialettica non è solo metodo di analisi spassionata della realtà, ma arma della
lotta che il proletariato compie dentro la realtà per liberarsi dal nemico di
classe (n.d.r.).
3) un approfondimento su Hobbes,
contenente il famoso “cristallo di Hobbes”.
Sulla questione antropologica in
Hobbes, Schmitt elabora tre considerazioni: 1) la bontà o cattiveria dell’uomo
va per Hobbes considerata sempre “in situazione”: lo stato di natura è una
situazione abnorme, così come la guerra civile, mentre questi fenomeni di disordine
e ferocia vengono superati nello Stato che è un imperium della ragione e
che trasforma la guerra civile nella pacifica coesistenza dei cittadini. 2)
Quando Hobbes pensa la natura (physis) umana, lo fa come gli antichi,
presupponendo la costanza dei tipi: immutabile è la natura umana, sempre nuove
sono le armi che l’uomo inventa e i pericoli che genera.4) Il sistema politico
che immagina Hobbes lascia aperta la porta alla trascendenza: il suo sistema
risulta fondato su una verità che Hobbes non ha mai smesso di proclamare come
politicamente fondamentale, “Jesus is the Christ”. Il problema è quale sia
l’autorità che decide l’interpretazione politica, sociale e civile di tale
verità. Chi decide, chi interpreta? La decisione viene dall’autorità (auctoritas
non veritas facit legem, l’autorità non la verità fa la legge): la verità
non si compie da sola ma ha bisogno di comandi e coercizioni. Tale autorità
deve avere un potere diretto, perché la presenza di poteri indiretti (morali o
di qualsiasi altra natura) distrugge l’accordo che l’autorità legalmente fonda
(se ci sono più autorità in contrasto, l’autorità stessa si dissolve). Tale
autorità esercita il comando, ottiene obbedienza e protegge chi le obbedisce.
Questo sistema “a cristallo”
schematizza il modo in cui Hobbes
pensa l’ordine politico, nel quale l’inimicizia tra gli uomini in stato di
natura viene imbrigliata dal sistema politico che, partendo dai bisogni (parte
inferiore), li soddisfa mediante l’esercizio di un potere che protegge (oboedientia
et protectio) ed esercita una funzione utile di comando (auctoritas non
veritas facit legem) e di decisione (quis iudicabit? quis
interpretabitur?) su ciò che è bene o male per la comunità stessa, ma dà
anche il senso di un’umanità che nella convivenza civile necessita di
un’apertura verso l’alto (diremmo di un senso, di un assoluto, e in particolare
dell’assoluto cristiano: Jesus is the Christ). In altri testi Schmitt contrappone
i sistemi così “aperti” alla chiusura degli apparati amministrativi, tecnici e
autoreferenziali in cui il potere si autofonda e autogiustifica come il
mostruoso moloch di qualcosa che “vige perché vige”.
4) un’ultima osservazione su
Machiavelli e il machiavellismo
In genere, nota Schmitt, i pensatori
realisti sono ritenuti amorali o immorali perché descrivono, senza infingimenti
retorici o ipocrisie, l’umanità anche nei suoi aspetti meno nobili. Machiavelli
ha subito questo destino. E tuttavia, seguendo un’osservazione di Manuel Fraga
Iribarne, Schmitt dice che se Machiavelli fosse stato fedele all’immagine di
pensatore “sulfureo” e amorale, che è stata diffusa di lui, non avrebbe scritto il Principe, con
la sua disincantanta ma veritiera descrizione della politica, bensì un testo di
massime commoventi, per dissimulare la verità e meglio approfittare
dell’ingenuità degli altri.
5) un decisivo excursus su Oliver
Cromwell e il suo concetto radicale-puritano di nemico: “I punti più alti della
politica sono quelliil nemico viene visto, con concreta chiarezza, come nemico.
E’ il caso di Oliver Cromwell che raggiunge in ciò livelli di radicalità mai
più toccati né nemmeno dalle più distruttive frasi di Lenin contro il borghese
e il capitalismo. Nel discorso del 16/12/1656 egli dice: “La prima cosa che
dirò e anche quella che costituisce la prima lezione della natura: esistere e
preservarsi... Bisogna innanzitutto mirare alla conservazione di
quell'esistenza nazionale peculiarmente nostra, in contrasto con coloro che
vogliono distruggerla, e perciò la fanno non-esistere. Consideriamo dunque i
nostri nemici i nemici dell'esistenza stessa di questa nazione. Perché infatti,
il vostro grande nemico e lo Spagnolo. Egli è un nemico naturale. Ed è
naturalmente così, a causa di ciò che è in lui contro tutto ciò che è di Dio, tutto
ciò che di Dio è in voi, o potrebbe essere in voi. Poi egli ribadisce: lo Spagnolo
è il vostro nemico e la sua inimicizia è posta in lui da Dio, egli è il nemico
naturale, il nemico provvidenziale, chi lo ritiene un ‘nemico accidentale’ non
conosce la Scrittura e le cose di Dio, il quale ha detto:«Io porrò inimicizia
fra il tuo seme e il suo seme» (Genesi III, 15); si può concludere la pace con
la Francia, non con la Spagna, poiché si tratta di uno stato papista, ed il
Papa mantiene la pace solo finché ne ha voglia”. Schmitt, citando questo passo,
riporta un brano di quel sovrano a Deo excitatus che è il dittatore
inglese. Il quale, in omaggio alla sua ispirazione calvinista e apocalittica,
ambirebbe a distruggere totalmente il nemico, con toni da decreto di sterminio
(Dt 7,2), perché si tratta di un’inimicizia senza possibilità di compromesso,
di un’alterità assoluta e minacciosa. Più volte Schmitt sottolinea che la
teologia afferma che l’umanità è segnata dal peccato e quindi la sua condizione
esistenziale è quella dell’inimicizia; Cromwell ne è la dimostrazione
teologica. Altrove dirà che un conto è ammettere l’inimicizia tra gli uomini
come fatto esistenziale, riconosciuto dalla teologia, altro è affermare che il
nemico è teologico, cioè possiede egli stesso una determinazione assoluta,
quale incarnazione di un assoluto negativo, che Dio indicherebbe quale radice
di una lotta senza quartiere. Ciò impedisce quella razionale relativizzazione
del conflitto che è invece la grande opera di civiltà assegnata ai protagonisti
della politica.)
Il liberalismo,
nemico supremo della politica
8) Tutte le
dottrine politiche sono state snaturate dal liberalismo che non ha prodotto una
sua forma di governo ma si è coalizzato nei modi più diversi con elementi e
idee non liberali. Sono nati così i nazional-liberali, i socialisti-liberali, i
liberal conservatori, i cattolici-liberali e così via. In generale, i liberali
si coalizzano sempre con le forze dominanti quando si tratta di costruire un
sistema. In particolare, è evidente l'alleanza liberalismo-democrazia con la
quale il liberalismo stesso si allea con le forze illiberali dello Stato totale
democratico. Questa incapacità costruttiva è dovuta al fatto che ogni
individualismo conseguente nega il politico, che riguarda l'intensità di
un'associazione o dissociazione, e conduce nella prassi alla sfiducia nei
confronti di tutte le forze politiche e le forme di Stato pensabili. Non esiste,
dunque, una politica liberale ma sempre solo una critica liberale della
politica e il liberalismo non risulta nient'altro che un metodo per
ostacolare lo Stato in difesa della libertà individuale e della proprietà privata.
Il pensiero liberale, ignorando la politica e lo Stato, si muove solo tra le
due sfere dell'etica e dell'economia, dello spirito e del commercio, della
cultura e della proprietà. Questo perché l'individuo deve rimanere terminus
a quo e terminus ad quem (punto di partenza e punto d’arrivo) Per
tale motivo non è pensabile per un liberale il fatto che la comunità, per
difendere la propria esistenza mediante la forza dello Stato, richieda la vita
di un individuo. Per il liberale non c'è un nemico contro il quale combattere
per la vita o per la morte, se lui non lo vuole. Il pathos liberale si
ribella a quella che esso chiama violenza e mancanza di libertà, aspetti
immorali tipici di ogni autorità superiore al singolo. Lo Stato viene accettato
solo come assicurazione delle condizioni di libertà e di intoccabilità
dell'individuo.
La vita sociale dell'individuo si svolge entro
i poli dell'etica e dell'economia e il politico viene visto solamente come
violenza conquistatrice. Il liberalismo vive interamente del suo pathos
etico e della sua concretezza economico-materialistica. La lotta viene
trasferita sul piano economico, e reinterpretata come concorrenza, e su
quello spirituale, e rivista come discussione; al posto della guerra e
della pace vi è una concorrenza eterna ed un'eterna discussione. Lo Stato da un
lato deve tendere ad abbracciare l'umanità, come concetto ideologico ed etico, dall’altro
deve solo sopravvive solo come unità tecnico-economica di un sistema di
produzione e di scambio. Un popolo politicamente unito si trasforma in un
pubblico culturalmente interessato, e, sul piano economico, sia in un personale
di fabbrica e di lavoro, sia in una massa di consumatori. Dominio e potere
diventano nel polo spirituale programma e suggestione di massa, nel polo
economico controlli.
Accanto a ciò è
importantissimo per i liberali il riconoscimento delle autonomie delle sfere
della vita e della cultura. In particolare, il liberale ha a cuore l'autonomia
delle norme e delle leggi dell'economia dalla politica e dalla morale
(ciononostante questa dottrina diventa parimenti politica quando viene
sfruttata da qualcuno per affermare la preminenza di un proprio gruppo di
potere contro un altro gruppo di potere). Si noti anche come, in omaggio ai
principi liberali, le potenze vincitrici della Grande Guerra abbiano dato alla
struttura ideologica del trattato di Versailles un carattere solo etico-
economico. Infatti, all’insistenza sulla responsabilità dei tedeschi per tutti
i danni e le perdite di guerra (etica), fa da contraltare l’argomento delle
riparazioni economiche e lo sfruttamento degli sconfitti. Per tale motivo
Versailles non è un trattato di pace vero e proprio ed avuto bisogno di sempre
nuovi veri trattati: il protocollo di Londra del 1924, il trattato di Locarno
del '25, l'entrata nella Società delle nazioni nel '26.
Fin dall'inizio il
pensiero liberale accusa lo Stato di violenza. Nel ‘700 il liberalismo intese
il progresso dell'umanità come il passaggio dall'estremo del fanatismo al suo
contrario, la libertà e la maturità spirituale; dall'estremo del dogma al suo
contrario, la critica; dall'estremo della superstizione, al suo contrario, l’illuminismo,
dall'oscurità alla luce. Nell'Ottocento la visione della storia diventa più
complessa, preferendo costruzione a tre stadi, come quella di Hegel e di Comte.
Così tuttavia perde forza polemica. Successivamente, sia in campo sociologico
sia in campo storico, prendono piede altre contrapposizioni a due elementi come
quella di signoria e corporazione di Gierke o quella di comunità e società di
F. Toennies. L'esempio più significativo di contrapposizione binaria è in ogni
caso da identificare con la lotta tra borghesia e proletariato in Marx, dove si
allude ad una battaglia finale in cui il socialismo sfida il suo avversario
liberale sul suo stesso terreno economico, nel contesto della società
industriale.
Dal 1814, tuttavia, il
trionfo dell'Inghilterra sull'imperialismo militare di Napoleone ha un
significato decisivo come vittoria del liberalismo, che Spencer lesse come
passaggio dalla società feudale-militare a quella commerciale-industriale.
Benjamin Constant pubblica nel 1814 un testo sullo Spirito di conquista
che inaugura l'intera spiritualità liberale dell'Ottocento. Qui si fondono fede
nel progresso di tipo ancora morale-umanitario e sviluppo tecnico-industriale.
Il primato dell'economia, del commercio e dell'industria, insieme al
perfezionamento tecnico, la libertà individuale e la razionalizzazione appaiono
qualcosa di unitario contro la feudalità, la reazione e lo Stato di polizia
qualificando tale contrapposizione come la battaglia tra la pace e la violenza
bellica.
Tipicamente ottocentesca e
liberale è allora la dicotomia tra
Libertà,
progresso e ragione + |
Feudalesimo,
reazione e attività violenta + |
|
Economia, industria
e tecnica + |
contro |
Stato, guerra e
politica + |
parlamentarismo |
contro |
dittatura |
Per
Constant l’ 800 era l'epoca nuova che doveva
sostituire quella delle guerre. Prima i popoli guerrieri sottomettevano i
popoli che conducevano il commercio, nella sua contemporaneità sarebbe accaduto
il contrario. Nel frattempo, la coalizione liberale di economia, libertà, tecnica,
etica e parlamentarismo ha sconfitto i suoi avversari, cioè in sostanza lo Stato
assoluto e qualcosa nel panorama storico-sociale cambiato, ma non nel senso
auspicato dai liberali stessi: l'economia non è più libertà, la tecnica non
serve più soltanto al comfort ma anche alla produzione di armi e
strumenti terrificanti; il progresso non provoca eo ipso il
perfezionamento morale umanitario, la razionalizzazione tecnica può essere
l'opposto di una razionalizzazione economica.
Un
altro noto rappresentante della lotta liberale contro lo Stato è Franz
Oppenheimer. Allo Stato compete la politica, alla società l'economia. Strumento
dell'economia sono lo scambio e la reciprocità, cioè la giustizia e la pace;
strumento della politica sono la violenza, la rapina, l'usurpazione. Questo pathos
antistatale è significativamente rovesciato rispetto alla visione hegeliana
dello Stato come regno della moralità e della ragione obiettiva, situato ben al
di sopra del “regno animale” della società egoistica. Tuttavia, la prospettiva
di Oppenheimer risulta particolarmente arbitraria perché, come lui ha fatto, però
invertendo le parti i valori, si potrebbe definire la politica come la sfera
della lotta gloriosa e l'economia invece come quella dell'inganno, poiché non è
detto che il legame tra politica e violenza sia più realistico di quello
dell'economia con l'astuzia la frode. Il dominio su basi economiche
diventerebbe allora un terribile inganno e il sistema dello scambio un crudo
meccanismo di sfruttamento. Questo non escluderebbe l'utilizzo di concetti
morali quali giustificazioni della propria condotta di fatto: anche gli usurai
si appellano alla santità dei contratti e alla massima pacta sul servanda.
Il liberalismo non può,
con i suoi appelli etico-economici, estirpare la politica perché dalla sfera
economica continuamente si possono generare contrasti politici e non è vero che
la violenza è l'economia siano collocate in regioni opposte. Un imperialismo su
basi economiche cercherà di impiegare i suoi strumenti economici di potere come
la restrizione del credito, il blocco delle materie prime, la svalutazione
della valuta straniera e così via, considerando violenza extra economica il
tentativo di un popolo o di un altro gruppo umano di sottrarsi all'effetto di
questi metodi "pacifici". Insomma, i mezzi economici possono essere
altrettanto violenti di quelli politici, benché i liberali utilizzino un vocabolario
pacifista per dissimulare la loro violenza e criminalizzare le reazioni del
nemico. In questo, essi cercano di combattere l'ultima guerra dell'umanità, la
crociata contro il politico la crociata contro la guerra, più intensamente politica
e più intensamente bellicosa di tutte le altre guerre.
L’Epoca
delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni
Nell'Europa centrale noi viviamo sotto lo sguardo dei russi. Da un secolo la loro osservazione psicologica dadi nostri grandi principi e le nostre istituzioni; la loro vitalità abbastanza forte da potersi impadronire, come di armi, delle nostre conoscenze e della nostra tecnica; il loro coraggio nei confronti del razionalismo suo posto, la loro forza nei confronti dell'ortodossia nel bene e nel male sono travolgenti. Questa è la nostra situazione: non è possibile dire nulla di significativo sulla cultura della storia senza essere consapevoli della propria situazione culturale e storica. Da Hegel in poi, molti, e nel modo migliore Benedetto croce, hanno insegnato che ogni conoscenza storica è conoscenza del presente. La coscienza della propria condizione nutre la coscienza storica e viceversa. In Russia ci si è calati sul serio nella condizione del presente, dominata dalla tecnica e dall'economia, e la si è portata ad un'estrema radicalità. Ciò significa che in Russia si è fatto sul serio con l'anti-religione del tecnicismo che domina i nostri tempi, e che la è nato uno stato, il più statale, ed il più intensamente statale, di qualsiasi altro Stato del principe più assoluto. Tutto ciò può essere compreso solo in base allo sviluppo europeo degli ultimi secoli che mostra a caratteri enormi il senso della storia moderna d'Europa.
La successione di differenti centri di riferimento
dal nocciolo dell'era presente, da ritrovarsi nel trionfo della tecnica dell'economia, si va a ritroso cercando i centri di riferimento delle epoche passate. Si coglie nello sviluppo culturale e civile europeo il passaggio dal teologico al metafisico al morale e all'economico. Qui non si vuole fare una filosofia della storia ma elaborare una considerazione fenomenologica del passato da cui tuttavia non si vuole estrarre nessuna legge di sviluppo storico. Centri di riferimento sono quindi oggetto di uno sguardo fenomenologico che trova nella storia dei nuclei tematici che informano di se tutti i concetti della cultura e della vita individuale e comunitaria. Di questi nuclei concettuali le élites si fanno più o meno consapevolmente portatrici.
Le fasi della neutralizzazione e della spoliticizzazione
il
passaggio da un centro di riferimento ad un altro comporta la neutralizzazione
di un conflitto sorto nel precedente centro di riferimento (la dinamica
continua delle neutralizzazioni esprime il continuo risorgere dei conflitti).
Ciò significa che quando nel campo della teologia sorge una controversia
irrisolvibile si cerca una sua neutralizzazione, cioè il raggiungimento di un
campo neutrale dove si possa trovare un accordo, in una metafisica
"comune". Quando, nel campo della riflessione metafisica, i diversi
sistemi non sono più compatibili, si cerca di trovare un terreno comune
neutrale in una morale condivisa. Quando le morali si scontrano sarà il comune
interesse economico a fungere da terreno di pacificazione. Con la tecnica si
ritiene che la civiltà europea sia giunta ad un terreno completamente neutrale.
Questo è il nocciolo della odierna fede nella tecnica. Tuttavia, tale sede
contiene un aspetto di mistificazione poiché l'assoluta disponibilità della
tecnica non elimina i conflitti, ma si pone al servizio di qualunque parte in
conflitto aumentandone a dismisura la potenza. Ma la stessa tecnica, se
guardiamo non alla sua pura dimensione strumentale ma al pensiero che l'ha
generata, non è nulla di macchinale, bensì è fondata su una metafisica attivistica
che ha un preciso significato spirituale. È la fede in una potenza e in un
dominio sconfinato dell'uomo sulla natura, e quindi anche sulla physis
umana, la fede nell'illimitato superamento degli ostacoli naturali, nelle
infinite possibilità di mutamento di perfezionamento dell'esistenza naturale
dell'uomo in questo mondo. Questa può essere qualcosa di fantastico satanico,
ma è qualcosa di spirituale.
Se la tecnica rappresenta
l'esito di una secolare processo di neutralizzazione, tuttavia ne rappresenta
anche l'uscita perché non può far nulla quanto a facilitare la pace o la guerra,
ma è pronta ad entrambe le soluzioni allo stesso modo. Il destino di quest'era
non è consegnata alla pacificazione neutrale della tecnica ma a quel tipo di
politica abbastanza forte da impadronirsene e ai raggruppamenti amico nemico
che crescono su questo terreno. Le masse che aderiscono ad una cupa religione
del tecnicismo sperando di trovare in essa la spoliticizzazione assoluta e
l'inizio di un'era di pace e comfort dovranno ricredersi. "Oggi
sappiamo che la guerra più terribile può essere condotta solo in nome della
pace, l'oppressione più terribile solo in nome della libertà e la disumanità
più abietta solo in nome dell'umanità". D'altro canto, anche coloro che
volevano trovare nel tecnicismo solo morte spirituale una meccanica priva di
anima si dovranno ricredere. L'esistenza spirituale non può trovare un centro
di assoluta neutralità. "Un raggruppamento che vede dalla sua parte solo
spirito e vita e dall'altra solo morte meccanica non significa altro che una
rinuncia alla lotta e ha solo il valore di un lamento romantico. Infatti, la
vita non combatte contro la morte, né lo spirito con la mancanza di spirito. Lo
spirito combatte lo spirito e la vita contro la vita e l'ordine delle cose
umane scaturisce dalla forza di una coscienza integra. Ab integro nascituro
ordo. Pare che con tale espressione Schmitt voglia dire che conoscere il
conflitto, la sua inevitabilità, il suo risorgere sempre dalle neutralizzazioni
artificiali, e le sue ragioni che oppongono sempre una certa vita spirituale ad
un'altra vita spirituale significa possedere una coscienza integra e non
mistificata della vita umana. Da tale coscienza si può costruire un ordine
autentico, non oppressivo, non distruttivo della vita umana.
Corollario 1: Rassegna dei diversi significati funzione del
concetto di neutralità politica interna dello Stato (1931)
Schmitt
lamenta la confusione sul concetto di neutralità e prova a promuoverne una
chiarificazione. Anzitutto bisogna distinguere i significati negativi di
neutralità, cioè quelli rivolti ad eliminare la decisione politica, da quelli
positivi, cioè quelli che conducono ad una decisione politica.
Nella
prima categoria vanno inseriti i seguenti significati:
1)
Neutralità nel senso di non-intervento, di indifferenza, di "laisser
passer", di tolleranza passiva e così via.
2)
Neutralità nel senso di concezione strumentale dello Stato, per la quale lo
Stato è un mezzo tecnico che deve funzionare in modo concretamente prevedibile
e deve offrire a tutti le medesime possibilità di utilizzazione.
3)
Neutralità nel senso di uguali "chanches" nella formazione
della volontà statale.
4)
Neutralità nel senso di parità, cioè di identica ammissione di tutti i gruppi
di tutte le tendenze esistenti, alle medesime condizioni e con la medesima
considerazione quanto al godimento dei vantaggi e delle altre prestazioni
statali. Questa parità fa sorgere il problema di quali gruppi assumono rilievo
ai fini della parità stessa cioè di chi inserire all'interno di questa
generalizzata estensione di privilegi e di diritti. Infatti, la neutralità nel
senso di parità è praticamente attuabile solo nei confronti di un numero
relativamente ridotto di gruppi legittimi e solo con una distribuzione
relativamente pacifica del potere e dell'influenza fra partners
legittimati modo paritario. In ogni caso essa conduce o ad un equilibrio
incapace di decisione, oppure, in presenza di gruppi forti ed omogenei, ad una itio
in partes (separazione di campi) come quella fra cattolici e protestanti in
Germania a partire dal 16º secolo. Si tratta di una riflessione evidentemente
profetica se pensiamo alle tematiche relative al multiculturalismo e alla sua
concreta applicazione all'interno di una certa unità politica.
Al
secondo ambito dei significati positivi di neutralità appartengono le seguenti
accezioni:
1)
Neutralità nel senso dell'obiettività e concretezza sulla base di una norma
riconosciuta;
2)
Neutralità sulla base di una competenza non fondata su interessi egoistici
3)
Neutralità come espressione di un'unità e totalità comprendente gli opposti
raggruppamenti e che perciò relativizza tutte le contrapposizioni;
4) Neutralità dello
straniero al di fuori dello Stato, che, in caso di necessità, come terzo,
provoca la decisione quindi l'unità.
Corollario 2 Sulla relazione intercorrente fra i concetti di
guerra di nemico (1938)
1)
Il concetto di nemico è oggi fondamentale in relazione a quello di guerra. Nella
guerra come azione vi è la presenza del nemico e un'ostilità attuale;
nella guerra come status vi è un'assenza del nemico e un'ostilità
presupposta. Nella guerra totale l'ostilità sembra essere tanto presupposta
quanto attuale in una sorta di catena che via via si ha autoalimenta. Nella Prima
guerra mondiale tale ostilità si concluse non con la pace ma con una condanna
del vinto.
2)
"Nel sistema pattizio della politica post-bellica ginevrina, l'aggressore
viene indicato come nemico. Aggressore ed aggressione vengono descritti in
termini concreti: chi dichiara la guerra, chi viola un confine, che non si
attiene ad una determinata procedura e a determinati termini eccetera è un
aggressore e un violatore della pace. La costruzione concettuale propria del
diritto internazionale diventa qui, a vista d’occhio, di tipo
penal-criminalistico". La costruzione di una fattispecie criminale e la
preoccupazione riguardo all'aggressore ha lo scopo di ridurre il nemico al
delinquente.
3)
L'amico e il nemico sono concetti che hanno una dimensione pubblica e la loro
privatizzazione e psicologizzazione conduce ad una perdita del senso
pubblicistico e politico del termine.
4)
La distinzione di guerra e pace in base al concetto reciprocamente opposto è
possibile quando si accolga il presupposto che tra pace e guerra non c'è un
medio. Oggi invece siamo in presenza di una situazione intermedia
(l'imposizione della pace di Parigi; il sistema di prevenzione della guerra
proprio del patto Kellog e della Società delle Nazioni; l'estensione dell'idea
di guerra anche ad azioni non militari). Nella situazione intermedia tutto
viene ridotto a finzione e ad astrazione giuridica e la decisione tra pace e
guerra è demandata ad una decisione soggettivistica e volontaristica.
5) Nella guerra totale viene meno la distinzione tra combattenti e non combattenti e si assiste all'inglobamento di settori extra militari nella belligeranza. Tutto ciò porta ad una intensificazione radicale dell'ostilità.
6) Nella situazione
intermedia tra pace guerra non è possibile stabilire con certezza neanche il
concetto di neutralità.
[1] Per capire questo ragionamento bisogna tenere presente
un’idea pur sintetica e grossolana di Stato. Noi consideriamo Stato tutte le
istituzioni che dirigono la vita collettiva, secondo il modello costituzionale
di una repubblica parlamentare, di matrice liberaldemocratica. Quindi per noi
Stato è il parlamento, il governo, il potere giudiziario, l’amministrazione
pubblica, con la sua burocrazia e i suoi uffici. Le istituzioni statali sono
più o meno queste, benché abbiano subito diverse variazioni nella storia, a
seconda delle epoche e delle forme di governo che si sono succedute. Diremmo
però che sin dalla fine del Medioevo e dal tramonto delle due grandi
istituzioni universali di Chiesa e Impero, nasce una peculiare modalità di
gestione della vita collettiva in cui si determina il governo di un territorio
di media grandezza (non la città-Stato greca; non i grandi imperi dell’età
classica; non le signorie regionali dell’Italia rinascimentale, non il Sacro
Romano Impero né il Sultanato mussulmano, ma un territorio come la Francia, l’Inghilterra,
la Spagna etc.), che sviluppa forme di potere autonomo e indipendente -
dapprima monarchico-assoluto poi monarchico-costituzionale poi repubblicano a
seconda dei paesi e dei costumi - abitato da popolazioni relativamente omogenee
dal punto di vista linguistico, culturale, religioso, e caratterizzato dalla
pacificazione dei conflitti interni e dalla libertà d’azione all’esterno, in
relazioni con altre entità (europee) della medesima natura e tali da
riconoscersi reciprocamente. Questo processo, esordito appunto alla fine del
medioevo, giunge a suo compimento dopo la guerra dei Trent’anni e determina la
situazione classica della “statualità”, che sopravvive fino alla fine del
Settecento e comincia ad essere messa in crisi con l’avvento dell’illuminismo
liberale, democratico e socialista. Secondo queste ultime prospettive
l’esercizio della politica non è più un’esclusiva delle istituzioni statali e
dei suoi rappresentanti, ma diventa un fatto sociale. La società non è più quel
settore della vita collettiva in cui si svolge principalmente la vita
economica, culturale e religiosa in un contesto pacificato e a-conflittuale. La
società non lascia più la politica e il comando in mano allo Stato, ma chiede
di diventare essa stessa politica, dividendosi in partiti e movimenti,
proponendo nuove forme di partecipazione alle decisioni sulla vita comune,
fatte anche di rivolte violente e mobilitazioni ripetute contro altri settori
della società ritenuti nemici del bene pubblico. La società si politicizza e si
articola in schieramenti amico-nemico sempre più radicali. Lo Stato dal canto suo
tende a riprodurre in sé i conflitti sociali e ne viene influenzato, perdendo
il suo monopolio della decisione politica sul destino della nazione e del
popolo. I centri di potere non sono più solo statali. Diventano economici,
partitici, mediatici etc. La sovranità non è più un attributo del governo
ufficiale, vertice esecutivo e legislativo dello Stato, ma dei gruppi più
aggressivi che se la conquistano, esautorando le autorità tradizionali, così
come avviene in parte nelle rivoluzioni inglesi del Seicento e americana, ma
soprattutto nella Rivoluzione Francese. Ecco
la fine della statualità (n.d.r.).
[2] Dal punto 1 al punto 8, prima del saggio L’epoca
delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, i titoletti sono
redazionali.
[3] Per esempio, quella di Bodin: “Governo giusto che si
esercita con potere sovrano su più famiglie e su tutto ciò che esse hanno in
comune fra loro”; o di Hobbes. “È un'unità reale di una moltitudine in una sola e
medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro in cui ciascuno
cede a tale persona ogni potere di decidere e comandare”; o Montesquieu: “Un
organismo che tende alla propria autoconservazione, nel quale le leggi riescono
a mediare tra le diverse tendenze individuali in vista del perseguimento di un
obiettivo comune” [n.d.r.].
[4]
Potere di influenzare la condotta degli uomini mediante indicazioni morali,
suscettibili di diventare politiche, cioè di raggruppare le persone in
schieramenti amico-nemico, senza che tale potere si prenda poi la
responsabilità politica diretta di decidere i destini della comunità. Così il
soggetto di questo potere si limita a porre motivi di lotta tra i membri della
comunità, senza offrire loro una relativizzazione concreta che ne mantenga
l’unità e la coesione interna. Thomas Hobbes ha riflettuto in profondità su
questa tematica a proposito dei rapporti tra il sovrano e la Chiesa (n.d.r.).
[5]
Qui c’è un riferimento all’esordio della precedente opera intitolata “Teologia
politica” (1922) in cui Schmitt elabora la sua famosa definizione di sovranità:
“Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione” (C. Schmitt, Teologia
politica, in Idem, Le categorie del politico, cit. p. 33). Ciò
significa che il soggetto che decide se e quando esiste una condizione tale da
rendere inapplicabili le norme vigenti e che mette a repentaglio la sopravvivenza
stessa della comunità, quello è il sovrano. Il caso estremo della vita di ogni
entità collettiva, dove essa corre il rischio concreto di dissolversi nel caos
in cui nessuna legge è applicabile, questo è lo stato di eccezione. La
decisione sovrana, prescindendo da ogni legge precedente, decide in totale
libertà quando tale caso sussiste e quali siano le misure adatte a ristabilire
l’ordine, quell’ordine “normale” nel quale possano tornare ad essere vigenti ed
efficaci le leggi. Naturalmente tale situazione ha una dimensione di
imprevedibilità tale che non può essere contemplata in una norma. Una legge non
può dire che cosa fare quando le leggi stesse risultano totalmente inefficaci a
governare una situazione-limite. Nella situazione limite la legalità è sul
punto di crollare e ha bisogno dell’intervento extra-legale del sovrano per
essere ripristinata, pena la fine della comunità. “Bisogna creare una
situazione normale e sovrano è colui che decide in modo definitivo se questo
stato di normalità regna davvero” (ivi, p. 39). In sostanza il vero e
autentico potere sovrano non è quello che si esercita secondo norme
prestabilite, perché le norme non possono pre-stabilire tutto, ma per sua
natura supera ogni norma, perché ciò è richiesto dalla realtà multiforme e
complessa delle comunità umane, la cui esistenza è precaria e sempre a rischio
di dissoluzione o per motivi naturali, o per l’incombere del nemico o per la stasis-guerra
civile che sempre rischia di determinarsi fa i loro membri [n.d.r.].
[6]
Dice Schmitt subito di seguito: “Il protego ergo obligo è il cogito
ergo sum dello Stato e una dottrina dello Stato che non sia
sistematicamente consapevole di questa massima resta un frammento
insufficiente”. La relazione gerarchica tra lo Stato e i cittadini si avvale di
questa fondamentale componente: nessuno obbedisce a un’autorità, aggiungiamo
noi, se questa non possiede una forza di protezione superiore a quella che il
cittadino ha di auto-proteggersi. Se all’interno dello Stato un’associazione
può proteggere meglio dello Stato, essa può richiedere la fedeltà del cittadino
e lo Stato è dissolto (cfr. il fenomeno mafioso). Ma tale relazione è di tutta
evidenza anche in campo internazionale con i trattati di protezione e di
garanzia, le federazioni egemoniche etc. [n.d.r.].
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