lunedì 17 giugno 2024

Polemiche doverose: piccoli e fallaci fallaciani. In morte di una destra repellente

 



Abbiamo tutti il bisogno di portare avanti il nostro grande jihad, la lotta contro le bestiacce interiori che si agitano per essere vomitate e guastare con i loro odori acidi le vite nostre e altrui. Poi c’è il piccolo jihad, che è la guerra politica, combattuta contro l’inimicus di parte o di partito. Possiamo anche dire: c’è il globale dell’anima e il locale del corpo. Nella tranvia che porta avanti e indietro dall’una all’altra, si incontrano episodi, fatti, eventi che, pur nella loro piccolezza, hanno un valore simbolico. E a volte si scopre che la loro piccolezza non è poi tale. Allora andiamo al fatto: il TAR concede un campetto da calcio nel paesino di Turbigo all’associazione “Moschea ESSA” per celebrare la festa islamica di Īd al-Adhā che ricorda l’atto di sottomissione di Abramo a Dio, quando il patriarca accettò di sacrificare Ismaele ma poi fu fermato da Allah che “lo riscattò con un sacrificio generoso” (cfr. Corano XXXVII, 102-109). Come si vede, la storia riprende il noto racconto del sacrificio di Isacco in Gen 22,2-13.  Qual è il senso? Musulmani - e cristiani in altri contesti - ricordano il significato profondo della fede, una fede che supera ogni figura sacrificale ed eroica della paganità, e diventa un nuovo modello che sfida l’assurdità etica e scopre nuove, più alte e inaudite forme di razionalità.

Ma apriti cielo! Non si può proprio fare per il sindaco di Turbigo, subito seguito da un’immonda paccottiglia di finta destra, di finta politica e di vera ignoranza. Se si prega in un campo da calcio, si compie un sacrilegio nei riguardi dei venerabili tacchetti delle scarpe dei nostri bimbi: come potrà competere la bassa finalità liturgica dei mussulmani con l’altissima finalità sportiva della struttura? Guai a permettere ai mussulmani di pregare! Lasciate che solo Ronaldo venga a me, dice il finto Dio da quattro soldi della polemica politica. E così ecco un rigurgito di pura cretineria fallaciana a mettere la pietra tombale su un’occasione importante di civiltà e di reciproca comprensione. Ma che vuoi farci? Pretendere che la Santanché, o il consigliere Garavaglia, abbiano letto Kierkegaard è forse troppo. Il mio razzismo, lo stesso che “non mi fa guardare quei programmi demenziali con tribune elettorali”, esige, però, che il demente di destra sia reso innocuo: per lui doppia pena di morte, come diceva Giorgio prima di Giorgia (in altra e ben più tragica occasione, qui siamo evidentemente alla farsa).

 Per questo abbiamo bisogno di un grande jihad dell’intelligenza che ridefinisca gli steccati: la destra, la sinistra il centro devono ruotare attorno all’unico muro che va elevato, il muro della ragione, e all’unico ponte che va distrutto, il ponte oclocratico per cui gli stupidi mantengono l’assurdo e inaudito diritto di ammorbare l’aria vomitando non sensi e coglionerie. Si tratta, come si vede, di una battaglia ecumenica e interreligiosa, dove la croce e la mezzaluna non possono che trovarsi dalla medesima parte della barricata, a costruire un cordone sanitario nei riguardi delle nuove sifilidi dello spirito diffuse dai loro untori istituzionali nei bar, dal parrucchiere e nei centri commerciali, fino a trovare ospitalità nelle latrine dei consigli comunali.

 

                                                                                                                  



domenica 9 giugno 2024

Realismo capitalista. È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo?



 Per rendere apprezzabile, nel tempo di una breve presentazione, un testo come Realismo capitalista è a mio parere necessario premettere una piccola definizione di capitalismo, senza ovviamente alcuna pretesa di esaustività. Il capitalismo può essere considerato un sistema economico in cui il capitale, cioè la ricchezza consistente nel possesso dei mezzi di produzione (aziende) è in mano privata. In questo contesto la quantità di denaro detenuta dai proprietari, in regime di libera iniziativa, influenza in modo determinante la politica. Via via si riconosce sempre maggiore centralità alle questioni economiche che diventano il metro di valutazione dello sviluppo della società in generale. Ciò determina

A) un primato dell'economia sulla politica;

B) la nascita di grandi concentrazioni industriali multinazionali con un potere sempre più ampio;

C) la tendenza allo sfruttamento crescente della manodopera salariata;

D) il prevalere di quella cultura crassamente materialista che attribuisce alla produzione al consumo un primato anche di carattere esistenziale e spirituale;

E) l’idea di una crescita della produzione e del consumo indefinita, quale criterio per misurare il livello di civiltà delle nazioni e dei raggruppamenti sociali.

Ora, sulla base di questi rapidi spunti, possiamo domandarci che cos'è ciò che Fisher chiama realismo capitalista. Il realismo capitalista – dice il filosofo inglese - è l’orientamento secondo il quale "è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo [...]: la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l'unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne una alternativa coerente" (p. 26). Quindi realismo capitalista significa la considerazione "realistica" per cui al capitalismo non sembrerebbero esserci alternative. Il capitalismo sarebbe un dato naturale a prescindere anche dai suoi difetti. Anzi, di fronte all'enunciazione delle aporie di questo sistema - per esempio la questione ambientale, quella della salute mentale e quella della metastasi burocratica, tre temi su cui Fisher si sofferma in particolare - la risposta consiste nell’atteggiamento che Alain Badiou ha chiaramente delineato con la seguente considerazione "Ci viene presentato come ideale lo stato delle cose brutale e profondamente ingiusto, dove ogni esistenza viene valutata in soli termini monetari. Per giustificare il loro conservatorismo, i partigiani dell'ordine costituito non possono davvero dire che questo stato sia meraviglioso o perfetto. E quindi hanno deciso di dire che tutto il resto è orribile. Certo, dicono, non vivremo in un paradiso, ma siamo fortunati a non vivere in un inferno. La nostra democrazia non sarà perfetta, ma è meglio di una dittatura truculenta. Il capitalismo è ingiusto, d'accordo. Ma non è criminale come lo stalinismo. Lasciamo che milioni di africani muoiano di AIDS, ma non rilasciamo dichiarazioni nazionaliste razziste come Milosevic. Uccidiamo irakeni con i nostri aerei, non tagliamo mica le gole con i machete come in Ruanda" (p. 32). Si tratta evidentemente di un argomento capzioso che seleziona episodi e personaggi particolarmente screditati agli occhi dell’opinione pubblica per presentarli come una minaccia costante, a fronte della quale le peggiori degenerazioni del nostro mondo improvvisamente appaiono come il male minore. In realtà il fatto che non ci sia alternativa – o che l’alternativa sia il baratro - è un presupposto apodittico, inventato proprio per evitare la ricerca di alternative e fare accettare i difetti senza poter opporre nulla.

Anzitutto, perciò, una coerente posizione di lotta al capitalismo deve evitare di considerarlo scontato e inevitabile, perché questa è la sua trappola retorica. Poi bisogna addentrarsi nelle dinamiche dello sviluppo contemporaneo del sistema capitalistico con una specifica attenzione ai crinali di conflitto e ai temi che, per la loro valenza politica e simbolica, decidono la qualità del sistema politico. Si è già accennato a ciò che Fisher ritiene più rilevante.

Partiamo dalla questione ambientale, su cui il nostro Autore ripropone un’opinione assai diffusa e però non per questo meno vera: vi è incompatibilità tra l'idea di una crescita indefinita e quella della sostenibilità: un sistema economico che vuole crescere infinitamente si scontra inevitabilmente con la finitezza delle risorse. "Nella cultura del tardo capitalismo, però, la catastrofe ambientale figura solo come una specie di simulacro, anche perché le sue reali implicazioni restano troppo traumatiche per essere assimilate dal sistema. Il senso profondo delle critiche mosse dagli ecologisti sta nel suggerire che non solo il capitalismo non è l'unico sistema percorribile, ma che proprio il capitalismo minaccia di distruggere l'intero ambiente umano. La relazione tra capitalismo e disastro ecologico non è né casuale né accidentale: la necessità di espandere costantemente il mercato, feticcio della crescita, stanno lì a significare che il capitalismo è, per sua natura, contrario a qualsiasi nozione di sostenibilità" (p. 54).

Il secondo tema chiave per Fisher è quello della salute mentale. Sottolineiamo, per prima cosa, la rilevanza del problema: si tratta della compatibilità del sistema capitalistico con la nostra anima. Il malessere psichico è, infatti, sintomo del contrasto esistente tra il capitalismo e l'umanità in quanto tale. Il suo emergere costituisce la punta dell'iceberg del fenomeno per cui una determinata organizzazione sociale produce sostanzialmente infelicità e un certo apparato contrasta con la realizzazione di scopi eminentemente umani come la fioritura armonica delle capacità individuali e delle relazioni sociali. La malattia psichica è dunque la forma patologica dell'infelicità e dell’impossibilità di vivere serenamente sotto l’imperio dell’attuale sistema economico e sociale. Essa assume oggi una dimensione pandemica: nella nostra contemporaneità la depressione - solo per fare un esempio - è la condizione più trattata dal sistema sanitario nazionale inglese. Il tratto tipico della condizione contemporanea è che nell'odierna organizzazione sociale la depressione, l'ansia, lo stress, l'angoscia, fino ad arrivare alle forme più gravi di schizofrenia, sono indebitamente privatizzate. Ciò significa che se ne attribuisce la causa a elementi della storia individuale, quando non alle condizioni biochimiche della persona, sottacendone le cause sociali. Con queste ultime ci si riferisce alla degenerazione dei rapporti al puro livello utilitario ed economico del do ut des, e alla pressione sull'individuo delle esigenze della produzione compensate solo con la prospettiva del consumo universale e, infine, di una dipendenza generata dalla disponibilità indefinita di beni di consumo effimeri. Questa restrizione degli orizzonti è evidentemente patogenetica e tale consapevolezza appare del tutto compatibile con le osservazioni di un anticapitalismo più tradizionale che enfatizza il fatto che il sistema in oggetto disprezza gli assoluti, distrugge le finalità non negoziabili, nega spazio alla vita interiore spirituale e ai legami comunitari profondi, insomma a tutto ciò che non è commerciabile. Rientra in questa serie di negazioni anche il rifiuto di legami che hanno una matrice familiare e non utilitaristica. Anche Fisher, come diversi critici conservatori, individua uno dei sintomi della crisi capitalistica nella condizione della famiglia, benché lo faccia naturalmente a suo modo: "La situazione in cui versa la famiglia nel capitalismo post frondista è contraddittoria nello stesso modo in cui aveva previsto il marxismo tradizionale: il capitalismo ha bisogno della famiglia (in quanto strumento essenziale per la riproduzione e la cura della forza lavoro; perché allevia le ferite psichiche inferte da condizioni socioeconomiche fuori controllo), eppure contemporaneamente ne mina le fondamenta (impedendo ai genitori di trascorrere tempo con i propri figli; alimentando la tensione di coppia nel momento in cui i partner diventano l'unica fonte di consolazione effettiva reciproca)" (pp. 77 78), Ora, queste derive che conducono direttamente al disagio esistenziale e poi mentale, coinvolgono aspetti culturali, politici e sociali che non si possono ridurre, come si è detto, a un problema privato, benché il sistema abbia tutto l'interesse a farlo, in particolare a beneficio delle multinazionali del farmaco (un autentico pilastro della nostra società occidentale).

La terza questione chiamata in causa da Fisher riguarda la burocrazia. Il tardo capitalismo neo-liberale, pur facendo sfoggio di un atteggiamento antiburocratico (“il mercato nemico degli intoppi generati da regole e obblighi di documentazione”), moltiplica le occasioni di rendicontazione e registrazione burocratica perché scopre che il controllo sociale non va più esercitato alla vecchia maniera, cioè da un’autorità che impone le sue leggi, rese cogenti mediante un sempre più asfissiante apparato amministrativo, ma in modo diverso. Alla direzione top-down del controllo che parte dai governanti e investe i governati, va sostituita una sua forma decentralizzata. Bisogna rendere il controllo a-gerarchico e tecnico: in ogni organizzazione sociale si deve affermare che le finalità stesse dell’organizzazione non sono raggiungibili se i suoi componenti non documentano ogni loro attività. Non deve essere quindi un’autorità esterna a determinare la prassi burocratica, ma la finalità interna dell’organizzazione stessa, cioè il suo specifico funzionamento, il target e la mission di cui tutti devono prendere atto. Così è auspicabile che il controllo diventi autocrontrollo: ognuno, nel compiere il suo dovere lavorativo, deve essere consapevole che il documento è importante, anzi importantissimo e ciò fino agli esiti più perversi, a causa dei quali la fase di documentazione prevale su quella dell’azione: quello che si fa importa meno del documento che si redige per lasciarne traccia. Si pensi ai campi dell’istruzione e della sanità di cui Fisher descrive aspetti tratti dal caso inglese che appaiono straordinariamente attagliati anche a quello italiano, perché probabilmente hanno un carattere sistemico e in certo modo universale. Nelle università inglesi, per esempio, “per ciascuno modulo (didattico, o tematica oggetto di lezione, n.d.r.), il module leader o ML (cioè il docente) deve compilare una serie di documenti: in particolar una module specification (all’inizio del modulo) che tra le altre cose elenchi ‘finalità e obiettivi’, ‘ modalità e metodi di valutazione’ e i risultati previsti per gli studenti; e poi una module rewiew (alla fine del modulo) in cui allo stesso ML viene chiesto di valutare i punti di forza e di debolezza del modulo, di suggerire quali modifiche apportare per l’anno successivo, un riepilogo del feedback da parte degli studenti, il loro punteggio medio e il loro tasso di dispersione. E questo è solo l’inizio. Per un corso di laurea completo i docenti devono predisporre delle ‘specifiche’ sul programma, nonché produrre una ‘relazione annuale’ in cui il rendimento degli studenti viene calcolato attraverso criteri come il ‘tasso di avanzamento’, il ‘tasso di abbandono’, la forbice e l’intervallo dei voti. Tutti i voti degli studenti vanno a loro volta classificati secondo una ‘matrice’. A questa autosorveglianza si aggiunge il giudizio effettuato dalle autorità terze: il rendimento degli studenti viene monitorato da ‘esaminatori esterni’ che si suppone provvedano a criteri standard per l’intero sistema universitario. I docenti devono essere controllati dai loro pari, mentre i dipartimenti sono periodicamente soggetti a controlli di tre o quattro giorni da parte del QAA (Quality Assurance Agency for Higher Education), l’ente preposto a vigilare sulla qualità dell’istruzione superiore. Se poi sono anche ricercatori, ogni quattro o cinque anni i docenti devono sottoporre a un apposito comitato le loro ‘migliori quattro pubblicazioni’ nell’ambito del Research Assessment Exericise…” (pp.89-90). Questo è solo una delle tante possibili espressioni della metastasi burocratica, mediante la quale da un lato si rende capillare un controllo che si avvale della collaborazione costante dei controllati (autocontrollo), dall’altro fatalmente si compromettono i contenuti professionali dell’attività controllata, che divengono occasione per la produzione di immensi database, piuttosto che di risultati efficaci nei riguardi dell’utenza.

Ciò ha a che fare, da un lato, con la società della comunicazione in cui niente esiste se non è comunicato, documentato e trasmesso, dall’altro con quello che Fisher chiama stalinismo di mercato. Un episodio significativo del periodo della Russia sotto il giogo del dittatore georgiano può aiutare a comprenderne il senso: “Stalin era talmente impegnato a immaginare uno sfolgorante simbolo di sviluppo che pressò e spremette il progetto (di costruire un grande canale navigabile attraverso il territorio russo, n.d.r.) al punto da ritardare lo sviluppo del progetto stesso. Lavoratori e ingegneri non ebbero né il tempo, né i soldi, né la strumentazione adatta a costruire un canale sufficientemente profondo e sicuro per le navi da carico del XX secolo; di conseguenza il canale non giocò mai un ruolo significativo nell’economia o nell’industria dell’Unione sovietica. Tutto quello che il canale riuscì a sostenere fu, a quanto pare, il passaggio di vaporetti che negli anni Trenta furono riempiti di cronisti sia sovietici, sia stranieri, in modo da decantare la grandezza dell’opera. In effetti il canale fu davvero uno straordinario trionfo pubblicitario: ma se nella sua costruzione fosse stato messo anche solo metà dell’impegno riversato nelle campagne di propaganda, ci sarebbero state molte meno vittime e molti più progressi reali, e il progetto sarebbe stato una genuina tragedia classica, anziché quello farsa brutale che fu, in cui le persone in carne ed ossa furono uccise in nome di uno pseudoevento” (pp. 92-93).

Ebbene: “Dello stalinismo, il capitalismo riprende proprio questo suo attaccamento ai simboli dei risultati raggiunti, più che l’effettiva concretezza del risultato in sé […] e i governi britannici targati New Labour, in apparenza il massimo dell’antistalinismo, hanno dimostrato la stessa tendenza all’applicazione di interventi i cui effetti nel mondo reale contano solo fintantoché possono essere spesi in termini di ‘comunicazione’” (ibidem). In questo senso tutti coloro che lavorano in un determinato contesto sono chiamati a mostrare sul piano del documento e della burocrazia che tutto funziona per gratificare un sistema acefalo, cioè l’apparato sociale di mercato, che non corrisponde a un’autorità visibile, ma a un soggetto indefinito (quello che Fisher, sulla scorta di Lacan, chiama “Grande Altro”) che deve essere rassicurato. In ogni cosa il sistema funziona – “ne ho le prove/posseggo le carte” – anche se di fatto l’attività reale si sviluppa in modo assai diverso e con esiti assai diversi da quelli scritti sui documenti. Lo potremmo constatare, aggiungiamo noi a mo’ di commento, riferendoci nuovamente al campo dell’istruzione, anche italiano ovviamente: qui ad un’elencazione tronfia e roboante di obiettivi stellari, per i quali dalle scuole secondarie dovrebbero uscire piccoli geni capaci di sapere tutto e di fare tutto, si contrappone una triste realtà che vede il livello delle conoscenze offerte dal sistema abbassarsi in modo costante e sempre più preoccupante… Ma l’importante è che sul modulo “conoscenze, competenze e abilità” siano riportati, nel linguaggio occultante dell’amministrazione pubblica, una serie di acquisizioni esistenti appunto solo sulla carta.

Ora, complessivamente, riguardo alla questione burocratica, emergono alcuni tratti tipici del tardo capitalismo:

-        Il controllo universalizzato per mezzo di una “furia del documentare” che si riproduce metastaticamente su se stessa e in cui, mentre ciascuno registra la propria attività, contemporaneamente esercita un controllo su se stesso a beneficio del sistema;

-        L’occultamento delle disfunzionalità del sistema perché la struttura burocratica presuppone e non critica mai se stessa, pur favorendo l’autocritica “maoista” e confessionale dei singoli individui (le colpe sono sempre individuali e mai strutturali);

-        L’oppressione esercitata costantemente dalla leva burocratica sulle attività che essa controlla, i cui fini precipui sono resi secondari a fronte del compito infinito della produzione di documenti.

Così Fisher conclude il suo excursus sulla burocrazia citando, grazie a Kafka e ai paradossi del suo Il castello, gli esiti totalitari del sistema capitalistico-burocratico “che non si riduce a un dispotismo” ma a una “visione purgatoriale di un labirinto burocratico senza fine” dominato dall’”impero dei segni” che esercita la sua violenta sovranità sulla realtà effettuale.

I tre argomenti fondamentali dell’ecologia, della salute mentale, e della burocrazia, non esauriscono lo spettro di interessi di Fisher, ma anzi divengono occasioni per ulteriori approfondimenti su questioni che ci limitiamo a menzionare rapidamente:

-        La liquidità del sistema capitalistico: in esso tutto è effimero e si cerca il nuovo per il nuovo affinché nel succedersi delle mode nulla cambi: l’instabilità sistematica del capitalismo determina la fine delle visioni di lungo corso, e proprio per questo impedisce sviluppi reali, producendo stagnazione, conservazione, paura e cinismo.

-        L’interpassività: il sistema capitalistico imbriglia gli individui in una serie di relazioni obbligate – connesse alla produzione e al consumo di beni – che prescindono dal loro esplicito consenso e anzi spesso si alimentano di un atteggiamento critico. “Non si impone alcuna ideologia. Un apparato funziona sulla base della passività che consente di continuare a usufruire dei beni di consumo e del piacere ad essi connesso, senza partecipare all’apparato con un consenso esplicito. Così si rimane legati a una matrice che genera piacere e stordimento pur senza acconsentirvi e senza sentire la responsabilità per quello che accade dentro il sistema”. Tutto ciò in base alla sotterranea consapevolezza della sua inesorabilità, a fronte della quale ogni prassi eversiva appare come inutile e folle.

-        La morte del padre: in nome della soddisfazione immediata del desiderio, che elude ogni divieto paterno, si distruggono tutte le possibilità educative. Si passa dall’imperativo paterno del dovere all’imperativo materno della gioia, i cui principali attori sono i media, quale sistema di orientamento morale ed emotivo … così l’uomo viene incarcerato nella prigione senza muri dei suoi sentimenti, liberi da ogni forma, determinazione e disciplina consapevole.

Il saggio di Fisher rappresenta dunque una critica sintetica ma sufficientemente articolata al nostro odierno modus vivendi, che, malgrado mantenga la forma e le dimensioni di un pamphet, possiede un’indubbia vastità di orizzonti e una ricchezza di suggestioni dalle quali trarre motivo di riflessione e di ispirazione per alimentare la ricerca da parte di chi non intende arrendersi allo status quo.

La scommessa, per questi ultimi, sarebbe elaborare un’adeguata pars construens circa un modello di vita e società radicalmente alternativo a quello vigente. Un compito che si capisce bene essere immane. Nondimeno si può cominciare, come effettivamente suggerisce Fisher, a elaborare alcuni rimedi che si contrappongano al dogma realistico del sistema, per cui esso è assolutamente insostituibile.

Anzitutto bisogna denunciare e ciò va fatto sulla base di argomenti veramente rilevanti, come per esempio quelli affrontati nel libro, reagendo al concetto di inevitabilità e trasformando tutto ciò che è dato per scontato in una messa in palio. Ogniqualvolta il capitalismo pretende di metterci di fronte a un fenomeno “naturale” e “inevitabile”, bisogna sospettare l’intervento della retorica “realista” e mettere in discussione proprio quel fenomeno. Poi bisogna lavorare sui desideri che il neoliberalismo suscita ma non è in grado di soddisfare: per esempio la riduzione della burocrazia tramite il rifiuto dell’autosorveglianza e la promozione dell’autonomia del lavoratore. Bisogna rifiutare la medicalizzazione del disagio, orientando la ricerca verso le sue implicazioni e dimensioni sociali. Infine, vi è necessità di una nuova ascesi, nella coscienza che la limitazione del desiderio, lo purifica, lo rende più autentico e ne incoraggia l’incremento in vista dell’azione.

Fin qui Fisher. Alle sue stimolanti riflessioni potremmo aggiungere un corollario. La sua cultura marxista di provenienza ha sempre grandi difficoltà a elaborare un’antropologia del radicamento. È il certificato di nascita in ultima istanza illuministico e individualistico del marxismo che lo impedisce. E tuttavia vi è un’evidenza assoluta che il capitalismo, sin dalle sue origini, è intrinsecamente cosmopolita e rifiuta la differenza culturale, storica, etnico-linguistica come un inutile orpello a fronte dell’universale fungibilità del denaro. D’altro canto, uno stile di esistenza ancorato alla justissima tellus, al mondo della vita e delle tradizioni, costituisce l’antidoto migliore al mare anarchico dei desideri edonistici e del consumo che è una matrice refrattaria ad ogni radice. Dunque, radicamento e appartenenza comunitaria e tradizionale rappresentano un altro tema che un anticapitalismo non superficiale deve affrontare con serietà. Da Fisher dalle sue provocazioni a pensare è utile partire, oltre Fisher è necessario spingersi a pensare, con l’aiuto di tutti gli strumenti che, di là dal filone propriamente marxista, la nostra tradizione culturale offre con vastità e profondità di orizzonti.

sabato 1 giugno 2024

Kalttaykh, il nuovo romanzo di Lawrence Sudbury

 


Kalttaykh si direbbe un non-luogo. Marc Augé nel suo Introduzione a un’antropologia della surmodernità, sostiene che i non-luoghi siano tutti gli spazi che hanno il carattere di non essere identitari. Lo sono per esempio autostrade, svincoli, aeroporti, grandi centri commerciali, outlet, campi profughi, ascensori, sale d'aspetto. Potremmo dire che il luogo di ambientazione della vicenda di Kalttaykh sia propriamente una sorta di sala d'aspetto della vita, in cui tutto trascorre senza originalità e personalità, cioè appunto senza identità.

Questo non-luogo funziona benissimo anche come puro sfondo letterario, per essere una base del tutto preparatoria affinché un'eccezione possa risaltare con le sue tinte forti sull'anodina, incolore e insapore normalità. Troppi caratteri decisi, troppe qualità speciali, troppe identità di spicco affollerebbero a dismisura una trama che vuole al contrario accendere un solo riflettore. L'unica luce deve cadere sulla storia di una morte, sulla storia di un uomo e dei legami che hanno determinato il suo infelice destino.

Da lì, ci dice l'Autore, viene tutto, grazie all'indagine dell'ispettore Becks, persona sufficientemente normale e comune, più strumento degli eventi che accadono che non stratega che determina i fatti. Egli, pur da forestiero, condivide la generale insignificanza della città che lo ospita. Infatti, nulla può capitare a Kalttaykh se non sullo sfondo della sua inguaribile mediocrità.

Essa è raccontata in modo magistrale con una narrazione in terza persona che vede l'ispettore, alle prese con i suoi fallimenti esistenziali, improvvisamente catapultato nella novità del cadavere ritrovato lungo la riva del fiume che attraversa le campagne del paese.

La cittadina, con i suoi negozianti al minuto, i suoi burocrati comunali, il suo medico condotto, i suoi abitanti-replicanti anonimi affaccendati in faccende anonime, in definitiva con i suoi uomini senza qualità, è sconvolta nei suoi ritmi insulsi, così come la vita del poliziotto, che intravede nell'evento nuove incombenze ma anche nuove possibilità di fuga dalla sua quotidianità insoddisfatta.

Il tutto viene restituito nella forma del resoconto ironico e distaccato, pieno di lieve humour british, che in fondo ci fa apprezzare, con la sua leggerezza, la simpatica leggerezza del nulla di quelle vite (e forse anche della nostra)...

Per esempio: il nulla della signora Belovici, la prima scopritrice del cadavere, frustrata dal marito che non la sfiora, dedita alla pasticceria casalinga, ma molto saggia dell'aver indossato mocassini con il tacco basso nel giorno del ritrovamento del morto.

Il nulla del dottor Tolomeis, il medico condotto, che non ci vede ma deve far finta di vederci, che per la sua malattia agli occhi ha interrotto una brillante carriera ed è ora confinato controvoglia in un paesino che è la tomba della sua giovanile grandezza.

Il nulla della "ventiduenne", impiegata del comune di Kalttaykh, sogno proibito del maschio locale, che, nonostante i suoi dieci chili di troppo, i capelli ossigenati fino a imbarazzanti tonalità platinate e un trucco troppo pesante, si fa forte delle sue minigonne e dei suoi vertiginosi tacchi a spillo.

Infine, il nulla del nostro ispettore, non grasso ma flaccido, nel cui corpo la materia lipidica sembra che sia irresistibilmente attratta verso il basso, così come il suo deretano inesorabilmente proiettato verso terra. Un uomo in cui non solo il corpo subisce le impertinenze della gravità, ma anche lo spirito, refrattario a ogni forma di altezza e di grandezza.

Questa è la normalità di Kalttaykh, una normalità diremmo "nichilista", rispetto alla quale si staglia e si eleva l'eccezione, cioè la storia, il romanzo.

La storia è in qualche modo eccezionale solo per il fatto che è degna di essere raccontata, e per esserlo deve tingersi finalmente di un colore forte, di contrasto, che esca con la sua luce dal grigio dall'indistinto.

Ora, se la normalità è sempre umoristica, perché la piccolezza è ridicola e perché riderne o sorriderne e l'unico mezzo per resistere alla sua onniavvolgente oscurità, la storia ha invece il suo peso grave.

Il libro di Sudbury è anche un giallo e l'attrattiva del giallo è a mio parere articolata in due punti: da un lato abbiamo la tecnica dell'intreccio e la godibilità del perdersi dentro il labirinto della trama in cui non mancano sorprese e colpi di scena; dall'altro c'è la serietà della questione centrale che è sempre di vita o di morte. Il giallo, potremmo dire, si presta ad essere un genere autentico perché ci fa presente il nostro essere-alla-morte, la nostra finitezza, la serietà ultima della vita che è la morte.

E allora a Kalttaykh viene scoperto un cadavere e ciò determina una scossa nella normale vita cittadina, una vita resa così efficacemente dallo stile narrativo in terza persona, distaccato e ironico. Anche le indagini, anche le vicende che ne seguono, potrebbero presto rientrare in quella insignificante routine come semplice variazione sul tema, destinata ad alimentare le chiacchiere future degli abitanti del borgo.

Ma accanto al comico vi è il tragico, accanto alla superficialità vi è la profondità, accanto alla morte-pettegolezzo vi è la morte-baratro, la morte-provocazione, la morte-domanda. Quindi, a intervallare il racconto in terza persona vi è il peso diversissimo di un testo in prima persona, in stile epistolare e diaristico, dove l'accadimento del paesino trova la sua vera risonanza di senso, appunto la sua vera dimensione tragica.

Se la terza persona racconta per lo più una commedia, perché lavora con la superficialità di quello che dicono tutti (in fondo "si muore"; "si vive"; "si fa"; "si dice": dove il "si" tutto riduce alla piattezza monodimensionale che evita sistematicamente le domande più esistenzialmente rilevanti), se la terza persona tutto assorbe, anche la morte, la prima persona riguarda appunto una tragedia. Il diario tragico inizia lapidariamente: "Io sono morto"; e finisce dicendo: "È già l'ora di andarsene, io a morire voi a vivere; chi di noi, però, vada verso il meglio e cosa oscura a tutti meno che al dio".

Dentro questa forbice stranamente dis-cronica ("io sono morto" e poi "io vado a morire") si apre lo spazio per una riflessione seria e per un excursus necessario sul vivere e sul morire che però non scade mai in una forma saggistica e didascalica, ma è attraversato dal profondo pathos ed esistenziale di un pensare sofferto e vissuto.

La bellezza del romanzo di Sudbury è proprio questo alternarsi di registri narrativi e della terza persona ironica con la prima tragica.

Capire chi è l'assassino non è allora, anche per il lettore, un gioco di acume investigativo. È bensì un viaggio nell'umanità, perché non vuol dire indicare il reo con nome e cognome, ma sapere qualcosa di lui (e di tutti), cioè sapere qualcosa della nostra umanità con sguardo lucido e disincantato.

A tale sguardo - che è quello dell'Autore - manca una fede ottimistica ma non la radice di ogni fede: la domanda di Giobbe sulla vita e sul dolore, quella di Qoelet sulla violenza, quella di Cristo in croce rivolta al Dio che l'ha abbandonato.