mercoledì 3 dicembre 2025

Fumo e fuliggini


 Tema: qualcuno si accende una sigaretta nei pressi della scuola, trasgredendo una legge che, essendo ingiusta, non è una legge ma la sua evidente corruzione.

All’amico Gatto

"La salute prima di tutto": verissimo... ma poi nemmeno tanto. Noi siamo animali corporei, vivi: ci pulsa il sangue nelle vene secondo leggi inesorabili e il nostro bene è anche il bene del nostro corpo. Ma siamo anche e soprattutto animali razionali... e liberi. La ragione valuta e discrimina. La volontà decide liberamente. Qual è il bene più grande? La libertà e la ragione o la salute? Tutti e tre diremmo. Ma le circostanze della vita sono complicate e a volte bisogna capire dove stanno i beni maggiori e i mali minori. Bisogna essere liberi di poter scegliere anche un male (minore), per esempio accendersi una sigaretta, senza la coercizione e il controllo, perché anche il bene più grande, come, per alcuni, la salute, se non è liberamente scelto smette di essere un bene. Abbiamo bisogno di consigli e di amicizia per vivere meglio. La legge è necessaria, ma non ci rende migliori. La legge non necessaria ci opprime. Un piacere immediato, sociale, presente, benché prevedibilmente dannoso secondo misure probabilistiche, si può scegliere, a condizione che non nuoccia ad altri (e nessuno nuoce a nessuno, all'aria aperta), al posto del male certissimo di una comunità di talebani della salute, di ultracorpi dell'ordine rigido, di secondini di una prigione prussiana, inflessibili e senza sorrisi, nella quale i polmoni si gonfiano solo della fuliggine nerissima del dispotismo.


Piccola bibliografia:

Ivan Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Boroli editore, Milano 2005

Soshana Zubhoff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell'umanità nell'era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Milano 2023

Michel Foucault, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Einaudi, Torino 1996

Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005

Byung-Chul Han, Psicopolitica, Nottetempo, Milano 2024

Johannes M. Metzl - Anna Kirkland, Against Health: How Health Became the New Morality, NYU Press, 2010

Evgenij Ivanovič ZamjatinNoi, Fanucci, Roma 2021


sabato 25 ottobre 2025

Note sul transumanesimo


TRANSUMANESIMO: un accenno dottrinario

Che cos'è il transumanesimo? Per essere più precisi possibile, e anche sintetici, direi di affidarci alle parole di un membro di spicco di questo movimento culturale, Max More, peraltro espresse uno stile abbastanza suggestivo.

“Cara Madre Natura,

Mi spiace disturbarti, ma noi umani – la tua prole – veniamo a te con alcune cose da dirti (forse potresti riferirle al Padre, considerato che noi non lo vediamo mai in giro…) Vogliamo ringraziarti per le molte qualità meravigliose che ci hai donato con la tua lenta ma imponente intelligenza distribuita. Da semplici composti chimici auto-replicanti ci hai fatti diventare mammiferi con miliardi di cellule. Ci hai dato il massimo controllo del pianeta. Ci hai dato una aspettativa di vita fra le più lunghe nel regno animale. Ci hai dotato di un cervello complesso, dandoci la capacità di ragionare, parlare, prevedere, essere curiosi e creativi. Ci hai dato la capacità di comprendere noi stessi e gli altri.

Madre Natura veramente, ti siamo riconoscenti per ciò che ci hai fatto diventare. Indubbiamente hai fatto il meglio che potevi. Tuttavia, con tutto il dovuto rispetto, dobbiamo dire che sotto diversi aspetti avresti potuto fare di meglio con il nostro organismo.
Ci hai creati vulnerabili alle malattie e alle ferite. Ci obblighi ad invecchiare e a morire – proprio quando cominciamo a divenire saggi. Sei stata un po’ avara nel darci consapevolezza dei nostri processi somatici, cognitivi ed emotivi. Sei stata poco generosa con noi, donando sensi più raffinati ad altri animali. Possiamo funzionare solo in certe specifiche condizioni ambientali.
Ci hai dato una memoria limitata e scarso controllo sui nostri istinti tribali e xenofobi.
E ti sei dimenticata di darci il nostro libretto d’istruzioni! Quello che hai creato, in noi, è magnifico, eppure profondamente imperfetto. Sembra che tu abbia perso interesse per la nostra evoluzione futura circa 100,000 anni fa. O forse hai preferito attendere che noi facessimo da soli i passi successivi. In ogni caso, la nostra infanzia sta per finire.
Abbiamo deciso che è ora di emendare la “costituzione umana”. Non lo facciamo con superficialità, leggerezza o senza rispetto, ma con prudenza, intelligenza e con obiettivo l’eccellenza. Vogliamo che tu sia fiera di noi. Nei prossimi decenni perseguiremo una serie di cambiamenti al nostro organismo, con gli strumenti della biotecnologia, in maniera razionale e creativa. In particolare, dichiariamo i seguenti sette emendamenti alla costituzione umana:

Emendamento n. 1: Non sopporteremo più la tirannia dell’invecchiamento e della morte. Per mezzo di alterazioni genetiche, manipolazioni cellulari, organi sintetici e ogni altro mezzo necessario, ci doteremo di vitalità duratura e rimuoveremo la nostra data di scadenza. Ognuno di noi deciderà quanto a lungo potrà vivere.

Emendamento n. 2: Espanderemo la portata delle nostre capacità cognitive con strumenti computazionali e biotecnologici. Intendiamo superare le abilità percettive di ogni altra creatura e inventare nuovi sensi per espandere la nostra comprensione e il nostro apprezzamento del mondo intorno a noi.

Emendamento n. 3: Miglioreremo la nostra organizzazione e capacità neurale, incrementando la nostra memoria ed espandendo la nostra intelligenza.

Emendamento n. 4: Forniremo la neocorteccia di una “meta-mente”. Questa rete distribuita di sensori, processori di informazioni e intelligenza, incrementerà la nostra consapevolezza di noi stessi e ci permetterà di modulare le nostre emozioni.

Emendamento n. 5: Non saremo più schiavi dei nostri geni. Ci assumeremo la responsabilità dei nostri programmi genetici e otterremo il totale controllo dei nostri processi biologici e neurologici. Porremo rimedio a tutti i difetti individuali e della specie lasciatici in eredità della nostra storia evolutiva. Ma non ci fermeremo qui: potremo scegliere sia la forma del nostro corpo che le sue funzioni, raffinando ed aumentando le nostre abilità fisiche ed intellettuali, fino a livelli mai raggiunti da nessun altro essere umano nella storia.

Emendamento n. 6: Ridefiniremo, muovendoci allo stesso tempo con audacia e con cautela, i nostri modelli motivazionali e le nostre risposte emotive in modi che, come individui, riterremo salutari. Cercheremo una soluzione ai tipici eccessi emotivi umani, introducendo emozioni più raffinate. Avendo così rimosso le barriere emotive ad una razionale auto-correzione, potremo fare a meno di insalubri certezze dogmatiche.

Emendamento n. 7: Riconosciamo il tuo genio nell’uso di composti basati sul carbonio per crearci. Tuttavia, non limiteremo le nostre capacità fisiche, intellettuali ed emotive rimanendo puri organismi biologici. Nella ricerca del controllo sul nostro organismo, ci integreremo progressivamente con le nostre tecnologie.

Questi emendamenti alla nostra costituzione ci porteranno da una condizione umana ad una ultra-umana. Crediamo, inoltre, che “ultra-umanizzare” gli individui risulterà in relazioni, culture e ordinamenti politici di una innovatività, ricchezza, libertà e responsabilità senza precedenti.
Ci riserviamo il diritto di introdurre ulteriori emendamenti, sia collettivamente che come individui. Non cerchiamo una condizione di inalterabile perfezione e continueremo, quindi, nella nostra ricerca di nuove forme di eccellenza, sulla base dei nostri principi e delle nostre capacità tecnologiche.

La tua ambiziosa prole”[1].

Fin qui Max More. Viceversa, uno dei rappresentanti maggiori e più consapevoli di questo approccio alla realtà e alla storia umana in ambito italiano è indubbiamente Stefano Vaj. Egli offre del transumanesimo una peculiare interpretazione che attraversa il pensiero di alcuni importanti filosofi contemporanei ed europei - quindi la riflessione in ambito anglosassone con una cospicua eredità continentale - sottolineando che il post umano è un prodotto specifico della tecnoscienza europea che si associa alle suggestioni filosofiche di Nietzsche, di Spengler, di Juenger, del futurismo italiano, di Gehlen e altri. Egli insiste sulla semplice constatazione che la tecnoscienza cambia la vita e che sarebbe assurdo opporvisi, cercando di ritornare al passato (ma poi a quale passato: esiste forse un passato totalmente non tecnico?), mediante quella che non sarebbe altro che una forma di rimozione. Ciò sarebbe espressione solo di una malcelata paura dell'inquietante avvento di un Brave new world il quale, tuttavia, spesso è solo un’immaginazione distopica funzionale al mantenimento degli attuali equilibri di potere, che al contrario, un'incontrollata e felicemente anarchica diffusione della tecnologia potrebbe mettere a rischio. Il dinamismo che proviene dal progresso tecnologico è, infatti, imprevedibile e rischia di scardinare le strutture di coloro che della tecnologia vogliono mantenere un monopolio a proprio uso e consumo, prima di tutto la durata al comando. Il transumanesimo, che promuove l'abbattimento di ogni barriera che si frapponga agli ulteriori sviluppi delle tecniche in ogni campo e soprattutto in quello antropologico, diventerebbe allora una sorta di un nuovo spettro che si aggira non tanto per l'Europa, quanto per il mondo.

 Il contributo interessante di Stefano Vaj riguarda nondimeno la peculiare inclinazione sovrumanista che possiede il suo transumanesimo Alludiamo al riferimento reiterato del Nostro all'opera di Giorgio Locchi - autore di testi come Nietzsche, Wagner e il mito sovrumanista o L'essenza del fascismo – il raffinato intellettuale promotore di una peculiare interpretazione nietzschiana della storia e in particolare della svolta epocale del Ventesimo secolo, orientato ad una trasvalutazione superomistica dei valori e della vita, in cui si manifesta l'esplodere della volontà di potenza dei singoli e dei popoli, finalmente liberata dalle pastoie morali, metafisiche e cristiane, e dunque in grado di realizzare il sogno atavico dell'essere come Dio, ma in questo mondo, ma in questa vita. In tale condizione, la novità è che oggi il transumanesimo si avvale di quello straordinario amplificatore di potenza che è la tecnica, una tattica della vita, direbbe Spengler - per diventare più-che-vita, proprio in quella sfera dell’umanità corporea che Nietzsche aveva esaltato, rimanendo tuttavia ancora troppo ancorato alla dimensione spirituale.

 Vaj si sofferma su questi temi in diversi testi, tra cui citiamo Biopolitica. Il nuovo paradigma, SEB, Milano 2005, con appendice di G. Faye, e I sentieri della tecnica. Spirito faustiano, transumanesimo, nichilismo, Centro produzioni Moira. Milano 2021. Basta scorrere l'indice dei libri per capire quante implicazioni filosofiche, morali, scientifiche, possiede la tematica in questione. In questa sede non vogliamo naturalmente affrontare tutti gli argomenti approfonditi da Vaj ma soffermarci su due di essi: l'uomo nuovo, la natura e il naturale. Credo, infatti, che siano fondamentali per individuare l’identità profonda del movimento e mostrarne criticamente limiti e debolezze, di là da eventuali ulteriori digressioni e suggestioni per le quali rimando all’interezza delle ricerche di Vaj.

L’UOMO NUOVO

In Biopolitica il nostro Autore cita “l’uomo nuovo” come “idea non pre-moderna ma post-moderna” sottoscrivendo il programma di giungere, appunto, ad un “uomo nuovo, a facoltà superiori” mediante lo sviluppo libero di nuove tecniche. Questo è da farsi evitando qualsiasi “paralisi di ordine morale”, per reinterpretare in chiave rivoluzionaria lo specificamente umano. Quest’ultimo si identificherebbe con quello che lui chiama “terzo uomo”.

Il primo uomo è quello della cosiddetta ominazione che implica la nascita del linguaggio, la formazione di società di caccia e raccolta, lo sviluppo della magia sciamanica e l’identificazione con il proprio ambiente.

Il secondo uomo è quello della rivoluzione neolitica che implica l’agricoltura, la città, la politica, la religione, la divisione del lavoro e la tecnologia “pirica”. L’ambiente naturale diventa ambiente culturale e ha luogo un’azione collettiva plasmatrice della natura (come ha ben visto O. Spengler nel suo L’uomo e la macchina, vero e proprio punto di riferimento di Vaj): si passa dunque dall’esistenza organica a quella organizzata e nascono le nozioni di popolo, razza, ceto, Stato. Si avvia e cresce la domesticazione del mondo vivente e, parimenti, la domesticazione delle masse da parte delle élites. La natura si separa dalla cultura e l’uomo si manifesta come essere storico. A tal proposito tre sono le culture principali: quelle che vedono l’uomo soggetto della storia; quelle che lo vedono oggetto-preda; infine quelle culture, come la giudeo-cristiana, che, pur immerse nella storia, ne rifiutano moralmente il portato (“la torre di Babele”) auspicandone la fine escatologica. In tale modo, dice Vaj, evidentemente sulla scorta di Feuerbach, il divino viene “rovesciato”, da proiezione della propria volontà di potenza a sua condanna trascendente, che nel sistema moderno diventa l’ideologia della fine della storia (il richiamo evidente è qui a Fukuyama e al suo liberalismo pacificato e mondializzato, mediante il quale si entrerebbe in una sorta di regno immanente del benessere senza i noiosi incidenti delle differenze culturali, etiche, politiche e sociali che tanti conflitti hanno prodotto nel passato storico).

Il terzo uomo è quello nel quale avviene il passaggio dalla coscienza all’autocoscienza e dall’azione meramente trasformatrice del proprio ambiente naturale e culturale alla responsabilità dell’autodeterminazione diretta di un contesto ambientale e di un’identità biologica integralmente artificiali per condurre la civiltà ad esiti “più che umani” e “sovrumani”. A tal fine è necessario assumere l’azione in prima persona, sottraendosi ai meccanismi impersonali del Mercato e della Natura, e promuovendo una specifica volontà di potenza sul modello nietzschiano. Ecco allora la citazione di un Heidegger commentatore di Nietzsche: “Nietzsche è il primo a riconoscere il momento storico in cui l'uomo si prepara ad assumere il dominio di tutta la Terra. Nietzsche è il primo pensatore che, in vista di una storia mondiale per la prima volta emergente, pone la domanda decisiva e pensa tutte le sue più profonde implicazioni. La domanda è: l'uomo, in quanto uomo nella sua natura sinora, pronto ad assumere la signoria del pianeta? Se no, cosa deve succedere all'uomo perché egli sia capace di sottomettere la terra e rivendicare così un antico legato? Non deve l'uomo, così com'è ora, essere portato oltre se stesso per adempiere a questo compito? [...] Di una cosa, comunque, dovremo presto renderci conto: questo pensiero che mira alla figura di un maestro che insegnerà il Superuomo concerne noi, concerne l'Europa, concerne tutta la Terra. Non solo oggi, ma ancor più domani. E lo fa sia che lo accettiamo sia che ci opponiamo ad esso, lo ignoriamo o lo imitiamo con accenti falsi”. Il terzo uomo è pertanto l’incarnazione di una nuova volontà di potenza e di un nuovo superuomo che si staglia all’orizzonte del progresso tecnologico, il quale mette a portata di mano quel dominio che Nietzsche affidava quasi esclusivamente ad un’ impervia ascesi immanente e individuale.

Ma qui comincerei ad avanzare alcune notazioni critiche. Innanzitutto Heidegger: non vi sono dubbi che sia un’ottima fonte per cogliere il centro epocale della riflessione nietzschiana, ma non bisogna dimenticare che egli è uno dei suoi più potenti critici. Egli è il primo e più radicale accusatore del nichilismo della volontà di potenza che diviene volontà di volontà, cioè circolo nichilistico di ciò che aspira all’incremento di sé senza alcun senso e alcuna ulteriorità. La volontà di potenza, dice Heidegger ne La questione della tecnica si pone al culmine della metafisica come “entificazione” e “reificazione” dell’essere che, nel suo compimento tecnologico, manifesta l’essere stesso come “fondo” (Bestand), cioè come qualcosa a disposizione per essere infinitamente manipolato, obliandone la verità originaria. Il terzo uomo, come superuomo artificiale e tecnico, rientra appieno in questa critica heideggariana, così pure come l’uomo “tecnico” di Spengler. Questi, peraltro, in quanto compimento sovrumano dell’umanità, distrugge la storia in una forma immanente e secolarizzata di escatologia: che cosa viene dopo il terzo uomo, se non un immenso attivismo che nella sua apparente espansività non fa che riprodurre se stesso quale Soggetto infinitamente generatore di mondi migliori? Questa escatologia dei mondi migliori, tremendamente uguali a loro stessi, non ci condanna ad essere una moltitudine di ultracorpi felici che vivono e lavorano spostando masse e muovendo cose? Non è questo terzo uomo tristemente simile ad un ultimo uomo, sia in senso temporale sia in senso assiologico? Il suo fallimento non riproduce forse il fallimento del grande sogno positivista di una terra elettrificata dove godere delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità?

C’è una filosofia della storia, uno specifico storicismo che caratterizza il transumanesimo. Oggi è il tempo della trasvalutazione transumana dell’umanità. Da quest’oggi non si esce se non mediante velleità reazionarie e salti o fughe in avanti utopiche. Dal potere e dal fascino del Progresso non è possibile né auspicabile sottrarsi. C’è un determinismo macrostorico di fondo nel transumanesimo che attribuisce al Progresso un carattere addirittura più cogente che non l’usuale ottimismo illuministico. Tale determinismo finisce con un movimento dove la ricerca incessante della novità tradisce l’inquietante fissità e circolarità del nuovo, che divora nella sua artificialità tecnica ogni altra dimensione della vita umana, e nello specifico quella spirituale. Che c’è di più fisso del succedersi dei nuovi modelli di I-phone? Quale logica è più stringentemente ripetitiva nei nuovi prodotti della pubblicità? E noi affideremmo la nostra emancipazione morale a questo meccanismo di dominio che assolutamente abbiamo smesso di dominare?

Bisogna in ultimo notare che l’idea di uomo nuovo non è né pre né post moderna. Già il termine “terzo uomo”, contiene, senza volerlo, forti accenti escatologici. Malgrado Vaj rifiuti nettamente ogni concetto che provenga direttamente o  indirettamente dal cristianesimo, la sua (e nostra) cultura di riferimento agisce sottotraccia, producendo interessanti/imbarazzanti (dipende dal punto di vista) cortocircuiti. Ad essa si collega l’annuncio nietzschiano del superuomo, una potente novità evolutiva che genera nel Novecento diversi entusiasmi per la finale creazione di regni politici prodotti da  o nati per ospitare la “nuova umanità” interamente secolarizzata, uscita da tutte le favole metafisiche e pronta per il salto in un nuovo paradiso terrestre, sia esso quello della società senza classi, della nazione senza catene o della razza senza difetti.

Ma questa idea palingenetica, che tanto è criticata da conservatori e liberali di tutte le risme – fautori dell’eschaton realizzato del denaro/mercato senza limiti e confini -, appartiene in realtà al DNA cristiano della civiltà europea, non solo quanto al gioachimismo sospetto dell’età dello Spirito Santo – traduzione storico-salvifica e millenaristica della dottrina trinitaria - bensì in relazione alla ben più alta e profonda nozione di uomo nuovo di paolina memoria. Al santo di Tarso si deve, infatti, attribuire l’espressione   καινς νθρωπος (kainòs ànthropos) che non ha paralleli al di fuori del NT né antecedenti letterali. Ebbene qual è il suo significato? Per rispondere, pur brevemente e senza alcuna pretesa di esaustività, a questa domanda bisogna anzitutto vedere i luoghi in cui compare:

1)       Ef 2, 14-15

14 Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, 15 annullando, per mezzo della sua carne,

la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo,

facendo la pace,  e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce,

distruggendo in se stesso l'inimicizia.

 

2)       Ef 4,21-24

21 se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, 22 per la quale dovete deporre l'uomo vecchio con la condotta di prima, l'uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici 23 e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente 24 e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera.

3)       Col 3,9-10 (variante νέος νθρωπος – nèos ànthropos, con il medesimo significato di “uomo nuovo”)

8 Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. 9 Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni 10 e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. 11 Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti.

1)       Qui si allude primariamente a una trasformazione ontologica: non c’è più il giudeo o il pagano, colui che ha ricevuto la promessa e colui che ne è rimasto escluso, ma è creato l’uomo nuovo, riconciliato con Dio per mezzo di Gesù, che fa la pace e distrugge in sé l’inimicizia. Fare la pace e distruggere l’inimicizia è un’espressione che riguarda l’essere profondo dell’umanità, dacché l’inimicizia, introdotta appunto dal Nemico, ha degradato la natura umana, penetrando sin nelle sue corde più profonde e togliendo all’uomo la pace della vita nella familiarità del Creatore. Ora, solo il fàrmakon sublime della Croce poteva toccare quelle profondità e risollevarle, ricostruendo da dentro l’essenza perduta e negata dell’uomo e facendo di lui un essere totalmente rinnovato.

2)       La trasformazione  ha anche, ovviamente, una ricaduta morale, che implica la deposizione dell’uomo vecchio e della sua condotta fatta di passioni ingannatrici: α πιθυμίαι τς πάτης, ai epithymiai tès apàtes, le passioni dell’inganno che nascono da quella contaminazione iniziale del peccato e che si sono patologicamente diffuse dalla carne – la sensibilità debole e corruttibile – all’uomo intero. Alla lotta contro la prigionia della carne deve seguire un rinnovamento interiore : τ πνεύματι το νος μν ,tò pneumati toù noòs ymoòn,  nello spirito della mente, cioè nell’intimità più radicale dell’uomo - lo spirito – che rende la mente, cioè l’anima, capace di produrre nuovi pensieri e determinazioni in grado di modificare concretamente e completamente la vita. Ecco la nuova creazione in cui l’umanità rinnovata rinasce dall’alto.

3)       La trasformazione ontologico-morale ha una dimensione universale che genera una nuova conoscenza del mistero, tale per cui risultano superabili e relativizzabili le particolari leggi e costumi e tutte le appartenenze, anche quelle religiose. La conoscenza è importante: sembra che Paolo concluda qui le sue riflessioni sull’uomo nuovo dicendoci che egli è rinnovato tanto nell’essere, quanto nell’agire e nel conoscere.

L’umanità nuova in Paolo risulta pertanto qualcosa di strappato a sé, quasi una dilacerazione del vecchio uomo che vede rimosso con una chirurgia finissima ma radicale un tumore profondo dello spirito, della mente e del corpo, ma non in modo anestetico, bensì attraverso l’iperestesia della croce, alla quale l’uomo è associato per inchiodare con violenza la sua violenta vecchiezza e liberarla per la novità assoluta, imprevedibile, improgrammabile, supererogatoria e ineffabile del Regno.

Ciò anticipa ed esprime al più alto livello quella via mistica che poi san Bonaventura avrebbe riformulato come un itinerarium mentis in Deum: via purgativa per liberare lo sguardo nel mondo; via illuminativa per trovare nell’anima la luce della verità, via unitiva per risalire dall’intimius intimo meo al superior summo meo (dal più intimo del mio intimo, alla altezza che sta oltre la mia altezza).

Qui allora si manifestano due alternative. Da un lato abbiamo un “terzo uomo” artificiale che affida la propria emancipazione a un prodotto del proprio ingegno, e che incessantemente si autodomestica, nella ripetizione di singole novità parziali dalle quali ci si aspetta, per una logica sommativa, la novità totale che mai arriverà come mai si giunge all’ontologicamente infinito per semplice addizione indefinita di unità.

Dall’altro lato abbiamo l’uomo nuovo che riposa nella pace della sua definitiva ulteriorità, come un albero rivoltato con le radici in una trascendenza che qui ed ora lo emancipa, pur per brevi e abbaglianti illuminazioni, dalla schiavitù del tempo, dello spazio, delle passioni ingannevoli (san Paolo), dell’occhio che non vede e dell’orecchio che rimbomba (Parmenide). Non un annuncio di potenza che vuole se stessa e mira al controllo della storia, ma che nella storia nasce, si corrompe e muore come tutta la storia che è la sfera dei suoi trionfi, ma anche della sua inevitabile corruttibilità e corruzione; non l’impero e Roma perché luget in auternum, quae se iactabat aeterna,/ Cuius et tyranni iam tunc iudicantur a Summo (Commodiano, Carmen de duobus populis – e se Roma piange, Washington non riderà); non tutto lo splendore e la gloria del cacciatore, ma l’orgoglio del pesce che è tutto nell’abboccare all’amo di un sublime Pescatore che lo strattona verso l’alto (L. Marechal): le acque che sempre cambiano, in cui siamo e non siamo, non sono tutto; il liquido amniotico della nostra immanente comodità pre parto preludono ad una nascita dall’alto, una rinascita nella quale ciò che è umido e caldo, simbolo della nostra dolce dipendenza dal mondo, sarà superato mediante il soffocamento e la perdita del nostro apparato branchiale, per crescere con nuovi polmoni all’aria libera.

Che cosa è più degno dell’uomo? In che cosa la condizione umana è realmente superata? In che cosa essa è prigioniera? Che cosa è favola, proiezione, illusione? Che cosa è verità e vita?

IL FINE E LA NATURA

Sempre in Biopolitica, Vaj esprime un concetto di natura che, tra le tante citazioni dell’Autore, noi riportiamo mediante concetti mutuati da Arnold Gehlen: “Per Gehlen, l'uomo è naturalmente sociale, ma anche naturalmente tecnico, poiché il mondo culturale che costituisce la casa in cui egli si trova a suo agio è un mondo che può evolversi e costruirsi solo grazie all'intervento tecnologico. [...] L'uomo, che si presenta biologicamente carente nei confronti degli animali meglio adattati e più specializzati, è tuttavia capace di prestazioni imprevedibili e di attività insospettate, ma Gehlen si rifiuta di ascrivere queste caratteristiche ad una scintilla divina, ad un'anima immortale impressa da Dio nella sua creatura prediletta. Nell'antropologia elementare non c'è più posto per la divinità, è quindi l'uomo tecnologico che con le sue sole forze è in grado di superare le necessità e proiettarsi nel regno della libertà. La riflessione antropologica di Gehlen si avvicina alla concezione volta a fare dell'uomo l'essere capace di costruire il proprio futuro. E' la libertà di determinare il proprio destino che ripaga l'uomo di tutte le sue carenze organiche, realizzando ciò che tutti gli altri esseri, pur non limitati da ‘inadattamenti’, ‘non-specializzazioni’ e ‘primitivismi’, non riuscirebbero mai a costruire: un "mondo culturale", un ‘ambiente artificiale’, atto a garantire l'esistenza e a soddisfare le esigenze di quell'essere particolarissimo che è l'essere umano. Dalla costruzione dei più rudimentali utensili alla creazione delle più sofisticate apparecchiature odierne, la tecnica ha costantemente aiutato l'uomo ad aprirsi al mondo, a conquistare e a dominare tutta la terra...”. Sulla stessa linea di pensiero si situa Oswald Spengler che nel suo L’uomo e la macchina dice: “[In tale prospettiva] la lotta della natura interna dell'uomo contro la natura esterna non è più sentita come una sofferenza (così Schopenauer e Darwin si rappresentavano lo struggle for life), ma come il grande senso della vita, che la nobilita; così pensava Nietzscheamor fati. E l'uomo appartiene a questa specie”.

La sostanza di queste considerazioni è che riguardo al concetto di natura è possibile stabilire una continuità “naturale” tra il mondo dato e, dentro di esso, l’uomo con la sua vocazione tecnica. Insomma per Vaj  è del tutto bizzarra l’“idea della Natura astratta ed universalista, percepita da un lato come statica, immutabile, da sempre e per sempre data, dall'altro come nettamente separata, anzi in opposizione all'uomo rispetto all'uomo e alla cultura, trascurando il fatto che l'uomo, in quanto essere vivente, della natura fa comunque parte, per quanto vi sia chi arrivi a sostenere che la nostra specie è un "incidente", una manifestazione "patologica" o un "cancro". In realtà, però, è la stessa scienza ecologica a rimettere in discussione questa visione paradisiaca (non estranea del resto al fatto che i suoi propugnatori vivono come tutti gli intellettuali occidentali in un ambiente iperprotetto), nel momento in cui ci mostra come gli ecosistemi evolvano e decadano, come gli equilibri che si vengono a creare siano in realtà risultanti dinamiche provvisorie, che possono variare e variano nel tempo anche senza nessun intervento "umano", risultanti dalla lotta di tutte le specie (o meglio dei loro geni) per mantenersi ed espandersi, e dai caratteri di quel biotopo in quel momento dato. Non esiste in realtà alcun equilibrio naturale prefissato ed indefinitamente autosufficiente che possa essere ‘turbato’ […]. La natura di per sé non è né incontaminata, né benigna, né adatta, ma solo adattabile, alla vita umana”. Così, aggiungo io, il nostro Leopardi nel Dialogo della Natura e di un Islandese:

 “NATURA — Tu non sai quello che ti dici. Tu ignori che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue fra loro di maniera che ciascheduna serve continuamente all’altra, e alla conservazione del mondo: il che se cessasse, il mondo verrebbe parimente in dissoluzione. Così la distruzione è una cosa necessaria all’universo; e per tanto la natura la fa continuamente.

ISLANDESE — Dunque la natura non si cura del bene e del male de’ mortali?

NATURA — Io non ho fatto né il piacere né il bene vostri: io non ho fatto le cose per vostro vantaggio: né mi giova se voi vivete, né mi dispiace se voi perite.

ISLANDESE — Ma dunque la vita di ciascun animale non è altro che un continuo patire?

NATURA — E ciò che chiami male e patimento è parte necessaria di quell’ordine delle cose che io mantengo; parte del disegno mio, e dell’universo”.

Sulla scorta di Pico della Mirandola, un transumanista, sottoscrivendo al tempo stesso la critica leopardiana, direbbe che la natura ha dato all’uomo la possibilità di scegliersi la propria natura. E tale possibilità è la tecnica. Essa proviene dalla natura umana, perché appunto l’uomo è naturalmente tecnico, e, mediante la tecnica, produce continuamente nuove possibilità naturali, rispetto alle quali l’idea di preservare una natura tutt’altro che benigna contro i rischi di una tecnicizzazione integrale del mondo, perde senso.

Sulla base di questi assunti perde parimenti senso l’idea ecologica della preservazione dei ritmi naturali dall’intervento antropico. Tutto insomma va bene. Tale concezione realistica della natura, scevra di romanticismi e irenismi, posta accanto a quell’antropologia che non distingue tra natura e tecnica, da un lato giustifica l’intervento trasformatore dell’uomo, dall’altro ne legittima un’indefinita estensione. Se tutto va bene, perché qualunque cosa faccia l’uomo esprime una possibilità offertagli naturalmente, non può esistere alcun criterio che stabilisca limiti e valutazioni nei termini di bene o male.

Qui possiamo cominciare una fase critica del nostro resoconto. Iniziamo con l’osservare che se tutto va bene, non esiste alcun discrimine per la decisione umana, nemmeno qualora essa si orientasse verso la riproposizione di un criterio stringente di rispetto della natura considerata come dato e come spontaneità. Siccome tutto dipende dall’arbitrio umano, che è un fattore intimamente naturale, il futurismo e il naturalismo romantico rimarrebbero opzioni equivalenti, la città di Blade runner o il sistema di Matrix, non sarebbero distinguibili dal mito del buon selvaggio  e dalla letteratura bucolica. Il fatto che Vaj cerchi di sottolineare che ogni scelta contraria allo sviluppo della tecnica sia assurdamente antistorica, inefficace, irrazionale e un po’ ridicola (come lo è per esempio lo stile di vita degli Amish in America), non ha dunque alcun fondamento nei presupposti che egli stesso pone alla base del suo discorso, a meno che egli non avanzi surrettiziamente l’idea di una natura tecnica dell’uomo statica, fissa e immutabile, indipendente dalla sua decisione. Vale a dire: a meno che egli non riproponga per la tecnica quella stessa idea romantica del rispetto di una natura umana “data” a prescindere dalla sua cultura e dalla sua libertà.

Riguardo alla spietatezza di una natura meccanica e senza fini, bisogna andare oltre a questo che è un pregiudizio tipicamente illuministico, che non tanto sovrappone natura a tecnica, quanto tecnica a natura, in modo da far apparire il grande orologio naturale (sprovvisto di orologiaio) come un immenso meccanismo di tortura in mezzo al quale sono concessi solo brevi intervalli di piacere. Tale inversione speculare del romanticismo è parimenti unilaterale e fuorviante. Una considerazione della Natura come di un sistema sprovvisto di fini, quale reazione galileiano-cartesiana al prevalente finalismo aristotelico, è stata fina da Kant ritenuta almeno parziale. Kant dedica una delle sue critiche, la prima, alla natura-meccanismo, e un'altra ai fini naturali, la terza. In quest’ultima Critica del Giudizio si insiste sul fatto che la natura è anche bella e si propone la nozione di bellezza come forma della finalità senza scopo che genera nell’uomo la risonanza di un piacere senza concetto e senza interesse. In coerenza con il suo soggettivismo di fondo e senza derogare ai principi della scienza, qui si adombra un’idea che, senza tradire troppo le intenzioni dell’Autore, possiamo semplificare così: pare che il mondo che mi circonda sia fatto apposta in modo che io mi possa sentire profondamento a mio agio. Quando ciò accade io riferisco a me una sua certa finalità, che ne articola tutte le leggi affinché si adattino alle mie facoltà percettive e mentali, come se l’intero sistema naturale avesse l’armonia che hanno gli enti ideati per uno scopo, senza che io possa dire né che vi sia uno scopo nella natura né quale sia, a parte il fatto che tale forma armonica della finalità si adatta splendidamente al mio sguardo, facendomi provare, mentre solamente la contemplo, uno specifico piacere, scevro da ogni utile o da qualsiasi secondo fine. Quando così accade, io, di fronte allo spettacolo della natura, dico: “Che bello!”

Ora, noi, di là dalla vocazione kantiana a ribadire la forza della sua rivoluzione copernicana che tutto riconduce al soggetto, possiamo ardire ad affermare, sulla scorta di una nobile tradizione, che il fenomeno della finalità bella ha la sua cosa in sé, ha il suo scopo profondo, ha il suo assoluto oggettivo. La tradizione parla di splendor veri (splendore del vero, Platone), splendor formae (splendore della forma, Tommaso), splendor ordinis (splendore dell’ordine, Agostino): i genitivi dicono l’assoluto, la cosa in sé, l’essenza che risplende nella bellezza del mondo e della natura, e che ne rappresenta anche la tensione fondamentale, il verso dove, appunto il suo scopo. I genitivi sono la verità che affiora splendendo dalle cose; l’essere che ha una sua chiarezza  formale definita, piena come ben rotonda sfera, esatta per ogni ente che è esattamente e straordinariamente quello che è; e infine l’ordine che offre a tutto la sua singolare collocazione nel tutto dello spazio e del tempo con infinita intelligenza musicale.

Accanto al giudizio estetico relativo alla bellezza, vi è anche in Kant un giudizio teleologico che non riguarda la natura in rapporto al soggetto che la contempla, ma in rapporto a se stessa. Si tratta di una teleologia piuttosto timida che sostiene che  “un organo di un organismo vivente, sia esso una pianta, un animale o un essere umano, non ha senso se non in vista del fine della vita dell’organismo nella sua interezza: il braccio, la mano, il fegato, le radici, le foglie, non hanno senso di per se stessi, ma solo in quanto servono al fine di mantenere in vita un determinato organismo vivente” (A. Gargano) così che, appunto, le singole parti hanno il loro fine nello sviluppo del tutto. Come se le parti di un organismo fossero fatte apposta per generare determinate funzioni, come se in sostanza l’occhio fosse fatto apposta per vedere e le gambe per camminare, affinché chi possiede occhi e gambe possa sviluppare certi caratteri e compiere proprio certe azioni.

Orbene, il biologo Jacques Monod in Il caso e la necessità, aggiorna e modernizza le osservazioni kantiane sostenendo che non si può evitare di comprendere la natura come qualcosa di apparentemente finalistico (perché non si può fare a meno di dire che l’occhio c’è per vedere), ma che in realtà tale finalismo è il risultato di cause meccaniche e cieche. Ecco l’emergere della prospettiva teleonomica: “Non esiste alcuno scopo nell'apparente armonia della natura e nei suoi  multiformi adattamenti, ma tutto è, come affermava Epicuro, frutto del caso e della necessitàGli organismi non hanno un fine ad essi esterno, dettato da un ente estraneo, ma proprietà teleonomiche che li distinguono dalla materia inanimata; la loro struttura, infatti, non ha un fine ad esso esterno, ma è determinata dal codice genetico, che detta loro, dall’interno, il programma a cui i viventi si attengono fedelmente; è questo che permette loro di essere strutture organizzate, la cui ‘armonia’ emerge semplicemente non a causa di un artefice, ma grazie a una complessa serie di reazioni chimiche regolate da enzimi codificati da geni a loro volta controllati da altri” (www.anisn.it, sv Jaques Monod).

La filosofia di Robert Spaemann costituisce la più radicale contestazione di un simile orientamento. Il filosofo tedesco ritiene infatti che non si possa interpretare il progetto immanente allo sviluppo naturale come effetto del caso o, il che è lo stesso, della selezione naturale. Infatti, secondo Spaemann, non si può descrivere un organismo come orientato a uno scopo (anche solo apparentemente) se nella realtà non c’è niente che fondi tale orientazione. Pertanto c’ è un motivo reale, c’è una cosa in sé in nome della quale la biologia parla di funzioni, adattamento, riproduzione per la sopravvivenza etc. e questo motivo è un fine cui tendono gli enti naturali e in vista del quale si organizzano in modo non casuale (il caso, nota Spaemann, non è la causa di una data configurazione della realtà, ma è una categoria epistemica che indica il fatto che appunto noi non conosciamo la suddetta causa). In  verità senza una finalità nulla è veramente comprensibile perché è da tale concetto che si evince il senso profondo di un oggetto di conoscenza.

Su questo assunto vorremo articolare una critica alla posizione di Vaj che formula due accuse nei riguardi coloro che propongono il concetto di una morale del rispetto della natura:

1)       Quella di  di tralasciare la continuità tra il naturale e il tecnico;

2)       Quella di considerare la natura come un dato fisso, un oggetto dato che deve fungere da criterio dei nostri comportamenti ecologici, così com’è in una forma originaria, perfetta e immutabile.

In realtà tra la visione irrealistica e romantica di uno spontaneismo naturale fisso e immutabile e la prospettiva di un arbitrio assoluto fondato sull’idea che la tecnica è natura e tutto ciò che compie va bene, si colloca l’alternativa di Spaemann: la natura è finalistica, è come tutta la realtà in statu viatoris, possiede un dinamismo interno, esistono in sostanza “fini naturali” che designano un criterio essenziale (di verità, d’essere) per la sua valutazione. Ma non si tratta di un’essenza data come presupposto (se non solo parzialmente e incompiutamente) ma offerta come meta. Anche il creato “geme e soffre nella speranza” come dice san Paolo (Rm 8,22). La teleonomia, al contrario, inverte la teleologia perché sostiene che “l’attività dell’ente non manifesta più un ulteriore grado di perfezione del medesimo rispetto al semplice esserci, da leggersi come teleologia che trascende se stessa nella partecipazione all’Assoluto, ma si riduce all’autoconservazione dell’ente stesso” (D. Saccoccioni, recensione a R. Spaemann, R. Low, Fini naturali).

Il giudizio teleologico kantiano e la teleonomia in sostanza vedono il senso delle cose dentro le cose stesse, e la loro finalità come immanente ad esse: l’autoconservazione “cieca”. Spaemann ammette ovviamente che l’organismo tende a mantenersi in vita, ma la vita, proprio in questa tensione, rimanda a qualcosa che va oltre se stessa: “La finalità naturale è il modo in cui la Natura partecipa dell’Assoluto”. Vale a dire: l’autoconservazione non è un ciclo chiuso ma un movimento verso l’Oltre, che è fonte di senso dell’essere. Sopravvivenza e riproduzione come uniche finalità trasformano la vita e l’intero processo naturale dal cui seno essa sgorga, in un processo senza senso. La mancanza di senso è tipica dei processi circolari, serrati in loro stessi e condannati alla ripetizione. Il senso è invece una direzione lineare in cui la fine coincide con il fine, e in cui il fine possiede una pienezza definitiva tale da non abbisognare della ripetizione del processo. Si dirà che ciò coincide con una forma di ideologia storica del progresso? Non so se il fatto di dire che natura e storia tendono a un fine che si manifesterà solo nella trascendenza della fine, cioè escatologicamente, implica la statuizione di un meccanismo del divenire per il quale, più si avvicina la fine più si è ontologicamente vicini al fine. Le Scritture non dicono così, anzi la letteratura apocalittica tende a smentire un simile pregiudizio. Al contrario essa non smentisce affatto la tensione, la tendenza, il conatus verso la pienezza che solo dà senso alla vita del cosmo, e che non aumenta né diminuisce storicamente e in modo progressivo, ma è presente in ogni fibra dello spazio e del tempo.

Che ne è allora della tecnica? I fini naturali tornano ad essere un criterio possibile che precisamente consiste nella commisurazione etica della finalità tecnica al bene essenziale cui tende la natura esterna e la natura umana  stessa. Certo: vi è una qualche continuità tra la natura e tecnica, ma come la natura non è data tutta in una volta, non è pura spontaneità, ma è organizzata secondo fini, allo stesso modo la tecnica non è data tutta in una volta, ma secondo fini. Il legame fra tecnica e natura allora si riformula come qualcosa di necessario. Tolti i fini dalla natura, si priva la tecnica del suo naturale meccanismo di autoregolazione. “Una volta spogliata del proprio carattere entelechiale (finalistico, n.d.r.), ‘non c’è più quella natura che prova avversione di fronte a qualcosa’. Caduta la distinzione tra movimento naturale e movimento violento, la natura si consegna definitivamente, - con Cartesio – al meccanicismo. In natura nulla si oppone alla nostra manipolazione, in quanto la natura si riduce a pura estensione e movimento locale: ‘la natura diventa semplice materia per la posizione umana di fini’ (Spaemann, in Amori, Il pensiero di Robert Spaemann tra critica della modernità e ontologia teleologica).                                  

Ciò significa che oggi essa può manifestare l’essere come Bestand (fondo a disposizione, Heidegger), come una tattica della vita finalizzata al dominio e alla potenza (Spengler) oppure come il modo in cui l’operaio, il lavoratore (l’homo faber, n.d.r.) mobilita il mondo (Jünger). Ma, anche alla luce di Spaemann, mi pare di poter dire questa non è una direzione definitiva perché è soggetta a giudizio, valutazione e commisurazione con la tendenza naturale dell’essere al Bene, una tendenza che può essere contrastata, deviata “per violenza”, ma le cui deviazioni possono essere analizzate, comprese e soggette a reindirizzo. Il meccanismo accumulativo del progresso tecnico è di per sé cieco, perché manifesta una continuità indefinita e procede appunto per aggiunte successive senza direzione (cioè è un’accumulazione moralmente indifferente). L’uomo può esercitare un confronto tra la cecità di un processo meccanico di accumulazione – che non esclude, tutt’altro, momenti creativi ma che non è in grado di governarli criticamente per distinguere un nuovo strumento di tortura da un impianto per risonanze magnetiche – e un divenire coerente con un Bene fondamentale seppur solo intravisto per speculum in aenigmate (1Cor 13,12: “Ora vediamo come in uno specchio e in maniera confusa”), verso il quale orientare la sua prassi in armonia con il conatus del mondo.

 E quando Ernst Jünger formula l’auspicio  o la profezia di una nuova fase dello sviluppo tecnico, di là del muro e oltre la linea dei nostri tempi nichilistici, forse allude a tale possibilità. La possibilità di una riconciliazione finale, io direi finalistica, tra il meccanico e l’organico in cui la tecnica si potrà fare più vicina alla vita … per natura e non per violenza. Il bel romanzo di fantascienza di Francesca Conforti, intitolato Spine, descrive un mondo simile, dove l’artificio tecnico incontra l’organico e il biologico, e l’opera manipolativa si apre ai fini naturali senza rinunciare alla sua vocazione creativa.

 È questa una possibile alleanza tra il sacro della creazione e il profano dell’invenzione? Dove c’è un tempio, lì c’è Dio, ma davanti a ogni tempo c’è lo spazio che Dio ha consegnato all’uomo. Dall’esterno noi entriamo togliendoci il cappello e genuflettendoci perché lì v’è ciò che vale veramente, il nostro destino ultimo; dall’interno noi usciamo pieni di spirito e di voglia di vivere con la libertà dei figli. Quando smettiamo di entrare e uscire, il legame tra le dimensioni della nostra vita, tra la contemplazione e l’azione, tra la teoria e la prassi, tra la preghiera e la carità si recide. E tutti, in un mondo fantasmagorico di miracoli artificiali, diventiamo più poveri.

 

 

 

 

 



[1] In www.estropico.com.

 

martedì 5 agosto 2025

Il sex appeal dell'indistinto. Un romanzo di J .J. Saer



Juan José Saer, Il testimone, La Nuova Frontiera, Roma 2023, pp.186, E. 16,90

 Un quindicenne, imbarcato in una nave spagnola come mozzo, approda al Nuovo Mondo. Arrivato alla foce di un fiume, sbarca insieme ad alcuni compagni, mentre il resto dell’equipaggio si mantiene prudentemente all’ancora, e viene attaccato da una tribù di cannibali. Le frecce avvelenate degli indios sterminano rapidamente il gruppetto, ma lui misteriosamente viene mantenuto in vita. Diventa ospite fisso del villaggio e piano piano giunge a capire lo stile di vita degli indigeni, non senza assistere al rito cannibalico, che scopre avere cadenza annuale, dapprima con i suoi compagni di viaggio, poi, nel prosieguo della sua permanenza con diversi soggetti, appartenenti alle tribù confinanti. Esso coincide sempre con il pasto di carne umana arrostita, seguito da un abbondante libagione di distillato alcolico e poi dallo scatenamento degli istinti sessuali, con accoppiamenti singoli e di gruppo, segnati da violenza distruttiva ed autodistruttiva, che sovente portano i protagonisti a subire conseguenze fisiche permanenti oppure a morire. Dopo tale evento, fatto di ingordigia alimentare e sessuale, di ubriachezza e di sfrenatezza, la tribù torna a una quotidianità seria, monotona, fatta di compiti da svolgere e di attività lavorative di ogni tipo, portate a termine con attenzione e acribia particolare … L’ospite europeo si trattiene per un decennio come  osservato e, al tempo stesso, osservatore, imparando poco a poco lingua, usanze e soprattutto, diremmo, la spirito e il carattere collettivo della strana società presso la quale si trova a vivere. Tutto ciò fino al momento viene rispedito su una canoa verso una nave spagnola che nuovamente si affaccia alla foce del fiume. Tornato in patria, l’esperienza segnerà il resto della vita del giovane, che farà una discreta fortuna e potrà incontrare persone che lo istruiranno e gli permetteranno di adornare i suoi ricordi con una coscienza e una riflessione sempre più matura. La sua vicenda sudamericana lo seguirà con dolcezza ossessiva e disincantata: in vecchiaia deciderà di metterla per iscritto, maturando la sua interpretazione della filosofia implicita e di una ipotetica costellazione dei significati della vita degli indios. Così il Nostro giunge alla conclusione che essi concepiscono il mondo come una precarietà incombente, che solo il lavoro umano può puntellare, così come reciprocamente solo il mondo può sostenere la precarietà della vita umana. Pertanto vivere non può significare che sostenere, riparare, ristrutturare l’ambiente circostante, destinato altrimenti a un’irrimediabile entropia. Il disordine di un divenire oscuro e senza senso minaccia costantemente. Dunque bisogna lavorare con la massima serietà, sia al proprio sostentamento sia al mantenimento delle cose, degli utensili, dele capanne, e di tutto quanto l’umano ingegno avesse per un attimo strappato alla natura. Il lavoro diviene un compito diffuso in una comunità che vi si dedica in modo consapevole ed egualitario, seguendo procedure consolidate per prendere le poche decisioni necessarie a organizzare la vita quotidiana, in un contesto dove non si determina alcuna gerarchia sociale. Nessuna particolare credenza religiosa segna la vita della tribù, se non un’ossessione del permanere, un culto dell’essere di fronte al divenire, di cui il protagonista ospite, deve diventare testimone privilegiato. Perciò ognuno vuole consegnare alla sua memoria un tratto di sé, una evidenza, un che di incrollabile, benché a volte banalissimo, che riassuma nella memoria del testimone stesso il proprio essere o essere stato in un mondo altrimenti destinato alla consunzione nell’indistinto, nell’irrazionale scorrere di tutto verso la notte, diremmo con Hegel,  in cui tutte le vacche sono nere. Come se gli sforzi prolungati per mantenere in ordine le cose avessero bisogno di essere raccontati e attestati da qualcuno, per non scomparire nella corrente del fiume. Che tale forza della notte incomba , peraltro, con il suo tragico portato nichilistico, tanto da bussare con insistenza alle porte della vita, fatta altrimenti di seria, costante e monotona dedizione al proprio compito, lo conferma il rito annuale e l’annuale scatenamento delle forze infere del piacere incontrollato, e dell’istinto naturale-bestiale fino a quel momento tenute a freno con grande profusione di energie sublimatrici. Il testimone non può far altro che assistere, assolvendo al suo compito di spettatore ricettacolo, anch’egli provvisorio ed effimero, dell’essere, mentre la tribù finalmente sconfitta dal divenire torna nella routine a vivere la sua diuturna e impari lotta.

Noi partecipiamo del viaggio, noi viviamo questo mistero tremendo di un non senso fondamentale che aleggia sulla vita degli indios e sulla nostra, fidando solo nel racconto che fissa più i dubbi e le domande che non l’essere agognato e perduto della tribù. Un racconto di cui l’autore Juan José Saer ci rende partecipi, forse sovrapponendo alla vita dei protagonisti, la vita contemporanea, e al loro mondo la direzione entropica e nichilistica del nostro, fatto di cannibalismo simbolici e di sfrenatezza dei sensi, cui si contrappone la serietà irresistibile del sistema del lavoro e della produzione. Solo che noi non abbiamo un testimone cui consegnare la nostra vita, dandoci l’illusione di qualcosa che possa sfuggire al mortifero sex appeal dell’indistinto che il nostro ordine civile, così come quello degli indios immaginati da Saer, è alla fine incapace di contenere, rappresentando il lato oscuro di una dialettica di luce-oscurità senza sbocchi, senza fine e senza direzione.

lunedì 21 luglio 2025

Blossio di Cuma, filosofo e politico

 


Fernando La Greca, Tiberio Gracco e Blossio di Cuma. Filosofia e politica a Roma nel secolo degli Scipioni, Licosia edizioni, Ogliastro Cilento 2016, pp. 145, E. 18

 

Tiberio Gracco fu tribuno della plebe nella Roma repubblicana della prima metà del secondo secolo a. C. Il suo destino politico è legato alla Lex sempronia con cui redistribuiva le terre di pubblico dominio (ager publicus) espropriando coloro che se ne erano accaparrati una porzione maggiore di  500 iugeri, la cui parte eccedente sarebbe stata divisa tra i cittadini più poveri, e al contempo confermando nella proprietà coloro che ne possedevano un’estensione minore. Si tratta di una misura rivolta a ingraziarsi la plebe romana ma anche gli italici che avevano servito Roma senza avere ufficialmente ricevuto una ricompensa idonea, rimanendo solo ufficiosamente detentori di una porzione di terra sufficiente al sostentamento loro e della famiglia. In generale erano pochi in Italia coloro che possedevano più di 500 iugeri, così che la legge sembrava destinata principalmente  a rendere fedeli a Roma quei membri della piccola borghesia rurale, i cosiddetti possessores,  assai importanti sotto il profilo politico-militare, ma oggetto di disinteresse da parte delle élites dell’Urbe. Così Tiberio con la sua legge avrebbe ottenuto un duplice effetto: “Da una parte si proponeva alla plebe romana una redistribuzione dell’ager publicus, lasciando che si immaginassero chissà quali eccedenze, dall’altra [...], prima di queste redistribuzioni,  si sistemavano come piena proprietà molte situazioni di possesso precario, forse migliaia, includendo e regolarizzando anche possessores latini e italici, e rendendoli così cittadini a pieno titolo”. In questo modo si sarebbe potuto “attenuare il divario tra le classi sociali [...] rafforzare la classe media con un redistribuzione delle risorse,  assicurando un lavoro dignitoso, possibilità di crescita e pari diritti alle masse popolari romane e italiche”. Tutto ciò è spiegato con documentatissima precisione da Fernando La Greca, nella prima parte del suo testo. Qui emerge un Tiberio certamente “popolare”, ma incline anche a valorizzare la piccola proprietà e gli alleati italici senza per questo poter evitare la furia degli optimates che temevano non solo le conseguenze a lungo termine della legge, ma anche il consolidamento e forse l’ulteriore espansione del potere dei Gracchi e del loro “partito”,  sostenuto dall’importante famiglia degli Scaevolae, e poi da un vasto consenso “di popolo” in tutta la Penisola. Dunque, come si può cogliere in un Sallustio ritradotto e rivisto, “la nobiltà colpevole e perciò atterrita proprio dagli alleati, dai Latini e dai cavalieri,  si scaglia contro i Gracchi”, e ordisce la congiura che nel giugno del 133 metterà fine alla vita del tribuno. L’immagine di Tiberio che si delinea dalla disanima di La Greca lo conferma perciò come politico accorto, innovatore, consapevole delle esigenze della Repubblica di allargare il bacino della cittadinanza per mantenere la pace sociale a Roma e in Italia e garantirsi nuove prospettive di espansione e di potenza. Insomma, di là dalla conclusione infelice della sua vicenda, si tratterebbe di una figura di rivoluzionario “realista” o di un ardito riformista, perfettamente a suo agio, tuttavia, nei meccanismi e nella cultura del potere romano.

Non estranea alle scelte del politico è la costante presenza al suo fianco di due figure interessanti: il retore Diofane di Mitilene e il filosofo Blossio di Cuma. Quest’ultimo, su cui si concentra l’Autore,  sembra offrire a Tiberio un quadro di giustificazioni etico-metafisiche alla sua prassi, rimanendovi legato ostinatamente anche al declinare improvviso e violento delle fortune del Gracco. Disgraziatamente del nostro filosofo non ci è stato trasmesso niente eccetto le testimonianze di Plutarco, Valerio Massimo e Cicerone. Da loro risulta che “Blossio, filosofo originario di Cuma fu discepolo ad Atene dello stoico Antipatro di Tarso, di cui conquistò l’amicizia e la stima; a Roma fu hospes degli Scaevolae ed ebbe una parte importante nei piani di riforma di Tiberio Gracco di cui fu probabilmente maestro e sicuramente amico fedele; dopo la tragica fine di Tiberio si recò in Asia minore presso Aristonico, il quale, aspirando al trono di Pergamo, aveva suscitato una rivolta contro Roma; allorché Aristonico fu fatto prigioniero dei Romani, Blossio si uccise”.

La Greca anzitutto fa parlare le fonti dirette, aggiungendovi qualche ulteriore testimonianza che potrebbe alludere a Blossio. Ma più o meno non si esce dalle notizie che abbiamo testé riassunto. Allora lo studioso campano opta per una strategia, diremmo, di accerchiamento, passando in rassegna tutti i contesti che possono gettare una qualche luce sul testo-Blossio. Si parte da un excursus sulle sue origini familiari  nella città di Cuma. Poi si affronta il rapporto generale tra lo stoicismo e la politica per vedere come esso trova una particolare declinazione nella riflessione del suo maestro Antipatro di Tarso. Di seguito si analizza lo stoicismo romano, contrapponendo la sua ala conservatrice che fa riferimento a Panezio, a quella rivoluzionaria del gruppo di Tiberio. Infine si affronta l’utopia eliopolita che probabilmente orienta ideologicamente il ribelle Aristonico che Blossio finisce per sostenere con un impegno diretto e definitivo.

Tale strategia di avvicinamento progressivo al nostro protagonista cumano, mediante tutto ciò che più o meno direttamente lo riguarda, parte dall’ unico dato teorico assodato: il valore assoluto dato da Blossio all’amicizia e la conseguente venerazione per l’amico Tiberio, assieme ovviamente al ruolo esistenziale e filosofico dell’impegno politico evidente dai dati biografici. Che cosa dunque aggiungere? Un’analisi dei retaggi familiari della gens Blossia, conduce a ipotizzare un preciso orientamento ideologico. I Blossii erano una famiglia proveniente da Capua, città tradizionalmente ribelle a Roma. Essi non solo condividevano tale orientamento ma lo promuovevano attivamente, distinguendosi nel 210  come guide di un fallito attacco al presidio romano della città, riconquistata da appena un anno, dopo la sua alleanza con Annibale del 215. Appartenenti alla fazione democratica e antiromana, i Blossii, si disperdono dopo la caduta della città e alcuni di loro si stabiliscono a Cuma, senza perdere una virgola delle loro convinzioni politiche. È interessante notare come i democratici potessero farsi portatori di una fierezza indipendentistica e nazionalistica, a fronte degli aristocratici che cedono ben presto a una solidarietà di casta e preferiscono passare dalla parte di Roma collegandosi con le élites dirigenti dell’Urbe. Nondimeno, di là da questo orientamento generale dei membri della gens, Cuma, a differenza di Capua, è fedele a Roma - e i suoi abitanti, quali membri di una civitas sine suffragio, a Roma non sono stranieri ma cittadini (municipes). Ciò consente al discendente Blossio di inserirsi nella clientela di Tiberio e di fare, diremmo oggi, politica attiva, portandosi dietro quel retaggio popolare che era appartenuto alla sua stirpe. A Roma egli giunge come filosofo già formato e forse con una certa fama. Già, infatti, aveva compiuto il suo cursus studiorum presso Antipatro ad Atene. La stima del maestro nei confronti dell’allievo è indubbia e ciò lascia supporre che il primo vedesse nel secondo un continuatore legittimo delle proprie dottrine e del proprio stile filosofico. In particolare nell’ambito di quella che oggi chiameremmo filosofia politica, se la tradizione stoica aveva evidenziato l’idea di un cosmopolitismo universale fondato sulla comune appartenenza degli uomini al Logos divino, ciò non esimeva il saggio dal prodigarsi anche in un presente ancora ordinato secondo una suddivisione dell’umanità in popoli e Stati. In questo quadro poteva essere superata l’apparente contraddizione della chiamata del saggio a servire lo Stato, mettendo a sua disposizione la conoscenza e la pratica della verità e della giustizia. Quindi, contrariamente ad ogni forma di “ritiro dal mondo”, per il filosofo stoico se è necessario passare a forme di convivenza sempre più razionali, è pure indispensabile partire dal dato di realtà di una pluralità di differenti organizzazioni politiche, per compenetrarlo di ragione in modo sempre più marcato. Di qui, sin dall’allievo di Zenone, Perseo di Cizio, e dal successivo Sfero di Boristene, l’invito all’impegno presso i re e le autorità per influenzarne la politica secondo principio etico-razionali.

Non estraneo a tale impostazione era Antipatro, il cui pensiero si connota di accenti particolarmente realistici quando associa al perseguimento del sommo bene, quello di beni intermedi che in qualche misura lo preparino e lo annuncino. In tale senso è significativa la distinzione tra due sostantivi che riguardano la sfera semantica del concetto di “fine o scopo”: skopos, cioè l’obiettivo esterno e diremmo oggettivo di un’azione e telos, l’azione morale che insiste sull’impegno personale nel realizzare l’obiettivo sottolineando il ruolo del coinvolgimento soggettivo nell’agire. Se bisogna colpire un bersaglio, le circostanze esterne “possono fare sì che il bersaglio sia colpito oppure no; ciò, tuttavia, non solleva il soggetto dal dovere di fare tutto ciò che è in suo potere per colpirlo”. Blossio deve aver recepito tale prospettiva nel momento in cui tende sempre “a raggiungere anche obiettivi minimi in vista dell’ideale stoico di una comunità di eguali, a cominciare dalla redistribuzione delle terre nel progetto agrario di Tiberio e dall’eliminazione della schiavitù nella Eliopoli di Aristonico”, realizzando al contempo uno skopos reale e sociale, e il telos della quella concreta militanza politica che non teme sconfitte provvisorie e che nella quotidianità dell’impegno non perde di vista il fatto che il bene da conseguire non è solo squisitamente politico ma eminentemente etico e interiore. Su questo doppio binario non stupisce che Blossio abbia potuto non sentire lo stacco tra la ricerca filosofica e la dimensione dell’agorà. Qui Antipatro sosteneva particolarmente il valore della famiglia e del matrimonio per il bene e la continuità della patria, tema sul quale insiste Tiberio confortato non solo dalla tradizione romana, ma anche evidentemente dalla mediazione filosofica di Blossio, attento ad un bene intermedio assai rilevante per il complessivo miglioramento della vita comunitaria.

Recependo infine il dibattito tra Antipatro e Diogene di Babilonia sul rapporto tra l’utile e l'onesto, cioè tra una condotta strategica e spregiudicata e una consapevole di un valore intrinseco, universale e perciò obbligante dell’azione, Blossio deve aver su questo fondato quella sua peculiare intransigenza rivoluzionaria che qualcuno in secoli recenti avrebbe indicato con l’impegnativa parola “virtù”.

 Di qui anche  la radicale opposizione che lo stile di Blossio avrebbe incontrato presso i circoli conservatori degli Scipioni, legati allo stoicismo reazionario di Panezio, tutto potere e  proprietà privata. Al contrario il filosofo cumano potrebbe, senza alcuna forzatura, essere indicato come l’ispiratore di Tiberio, il maggior innovatore della politica romana, colui che aveva potuto retoricamente chiedere “se non fosse giusto che i beni comuni fossero divisi in comune, se un cittadino non fosse più autentico di uno schiavo, e se un soldato più utile di un non combattente, e se uno che avesse parte nei beni pubblici non fosse meglio disposto verso gli interessi dello Stato”. Il legame fra i due, cementato dalla comune passione popolare,  appare una sorta di destino che attraversa anche le altalenanti sorti della politica. Si può ben comprendere allora il resoconto di Cicerone, del tutto simile a quello di Plutarco: “[Blossio sostenne] di avere tanta stima di Tiberio Gracco da fare qualunque cosa egli volesse. Allora gli dissi ‘Anche se avesse voluto che tu dessi fuoco con le fiaccole al Campidoglio?’ ‘ Non avrebbe mai ordinato una cosa del genere - disse - ma se lo avesse fatto avrei ubbidito”.

Ebbene, conservando nel cuore quest’intimità fiduciosa e fedele, nel 133, alla fine dell’avventura del tribunato, Blossio fugge da Roma e si reca a Pergamo, altro luogo di rivolta e sperimentazione politica. Aristonico, pretendente al trono del regno ellenistico dopo la morte di Attalo III Filometore, che aveva nel testamento lasciato i suoi domini al popolo romano, si fa banditore nel medesimo territorio della costruzione di una nuova compagine politica, lo Stato utopico di Eliopoli. Qui sotto la sua sovranità caratterizzata da un’intensa devozione al Sole, dio benvolente ed egualitario, tutti, anche gli schiavi, avrebbero vissuto in una condizione di libertà, indipendenza, uguaglianza e prosperità.

 L’utopia eliopolita ha origini letterarie lontane, provenendo dal resoconto su una mitica “isola del sole”,  steso dal viaggiatore Giambulo (forse anch’egli invenzione poetica) e tramandato in forma di riassunto da Diodoro Siculo (90-30 a. C. circa) nella sua Biblioteca storica: “Gli abitanti di quest’isola utopica sono distribuiti in piccole comunità  che vivono in pace e armonia ; la loro massima divinità è il sole. L’isola abbonda per natura di frutti e animali, tuttavia tutti sono tenuti a lavorare, eseguendo a turno vari tipi di lavoro, per soddisfare le esigenze essenziali della comunità. Si dedicano anche ad attività culturali, specialmente all’astronomia. Le donne e i bambini sono in comune;  il più anziano è il capo della comunità; altre magistrature sono assunte da ciascuno a rotazione. Vivono fin oltre 150 anni e muoiono volontariamente addormentandosi sotto piante velenose. La caratteristica principale di questa ‘isola del sole’ è la completa uguaglianza fra gli abitanti: tutti lavorano [...], a turno assumono cariche civili e religiose [...] e infine non vi sono schiavi. Si tratta di un'utopia filosofico-letteraria, una descrizione di un paese immaginario, ma che pure presenta un’ ideale di organizzazione sociale e politica”. Non mancavano nel mondo greco elaborazioni simili e soprattutto la visione di Giambulo sembrava adattarsi benissimo alle prospettive politicamente egualitarie elaborate dall’antico stoicismo zenoniano. Non è poi da tralasciare il fatto che in Cleante, secondo scolarca stoico, esiste un’esaltazione del sole quale “principio fisico e spirituale del mondo, sovrano dispensatore di giustizia a tutti in parti uguali”. Quanto a Blossio, a tali tradizioni letterarie e filosofiche si aggiunga la diffusione del culto di Apollo a Cuma, ricco di simboli solari e componente fondamentale dell’orgoglio identitario della città.

È del tutto plausibile allora che Blossio, trasferendosi a Pergamo, abbia trovato terreno favorevole a una sorta di missione emancipatrice collegata con le riflessioni stoiche più politicamente ardite e con la letteratura utopica di cui si è detto. Di qui l’ulteriore spinta che può aver dato al progetto rivoluzionario di Aristonico, al tempo stesso egualitario e antiromano, diremmo oggi radicalmente democratico e nazionale.

Ecco dunque delinearsi l’immagine di un Blossio eroe dei due mondi, capace di spendersi ovunque si presenti un' occasione propizia e promotore di un' ideologia di rivolta sociale che è al tempo stesso una filosofia e una teologia politica. Qui gli aspetti egualitari giungono a fondersi con una dimensione di rivalsa popolare e indipendentistica, perché sia nel caso del passato capuano dei Blossii, sia nel caso dell’opposizione aristocratica a Tiberio, sia infine nella vicenda di Pergamo, una caratteristica mi sembra emergere dal preciso approfondimento di La Greca: le aristocrazie sono tendenzialmente internazionalistiche, cioè mostrano indifferenza all’eventualità che la comunità di appartenenza possa essere assorbita da una potenza straniera o non vedono, nel caso di Roma, l’utilità di una solidarietà interclassista dove l’appartenenza comune e una missione politica vissuta come ideologia mobilitante possa alimentare un ulteriore incremento della propria potenza. L’importante appare l'immutabilità del quadro e delle gerarchie sociali. Viceversa laddove vi sia una proposta di mutamento o financo rovesciamento delle suddette gerarchie, lì si diffonde anche una peculiare sensibilità per un destino comune, dove un certo orgoglio nazionale non manca di associarsi a percorsi di militanza politica di risveglio utopico connotati da grande afflato religioso e, nei circoli più consapevoli, filosofico-razionale.

 Caio Blossio di Cuma - filosofo dell’amicizia, promotore ovunque di una coscienza politica elevata, in cui il servizio alla comunità diventava un dovere assoluto delle élites e un principio etico che poteva ricondurre la convivenza sociale a una superiore e divina razionalità - sembra dall’ indagine preziosa di La Greca essere il crocevia di queste tensioni e tendenze. Pertanto, confortati  dall’idea crociana ed ermeneutica che ogni storia è storia del presente, corriamo volentieri il rischio dell'anacronismo dicendo che egli può dire molto alla nostra contemporaneità che ha irresponsabilmente cacciato le utopie sociali e nazionali nella spazzatura della storia, accontentandosi del grigiore di un presente monocratico e globalista sotto l’impero, certo a suo modo egualitario, ma innaturale,  violento, straccione e criminale, del denaro.

mercoledì 11 giugno 2025

Sotto portici dipinti. Una presentazione

 


"Sotto portici dipinti”: il titolo del libro fa riferimento alla stoà poikilè, il portico dipinto eretto all’inizio del V sec. a.C. nella parte settentrionale dell’agorà ateniese, al riparo del quale Zenone di Cizio (336/35-264/63), il fondatore di quella che per questo motivo sarebbe stata chiamata “scuola stoica”, amava discutere di filosofia e scambiare le sue acquisizioni con i compagni di avventura del suo itinerario teoretico. L’idea è che ovunque si incontrino persone che desiderano approfondire seriamente e dialogicamente la filosofia e i suoi problemi, lì vi sia un portico dipinto, un luogo dove le pressanti necessità della vita e le tempeste che essa produce vengono per un attimo messe a tacere per rivolgere loro lo sguardo riflessivo del logos.

La consulenza filosofica è una disciplina che propriamente va alla ricerca di questi luoghi, li prepara, li inventa, li allestisce, nella convinzione che in essi la vita umana trovi la sua cifra autentica. La filosofia è sempre una richiesta di sapere su ciò che veramente conta, che incontra una qualche proposta di approfondimento da parte di chi, su tale via del sapere si trova già in cammino. Per questo ha la natura di una consultazione. Non si tratta tuttavia di una semplice relazione domanda-riposta, ma di una dialettica, dove chi porta in comune un certo problema non si accontenta finché non accede a una dimensione di verità che può condividere sinceramente e senza riserve, pur dentro i ragionevoli dubbi alla quale la nostra condizione umana ci condanna. Ma tale dimensione ha una profondità tale che, a partire dalla discussione, mette in gioco pure colui che appariva più esperto e si trovava per così dire in una posizione “avanzata” … lo mette in questione, lo trasforma, lo sottopone a nuovi rigori della ragione e della conoscenza. Ciò fa sì che non esista un rigido rapporto gerarchico tra i dialoganti, ma che ognuno riconosca e omaggi quella verità sulle cose, sul mondo e sulla vita che è posta alla fine, quale scopo e meta del camminare assieme.

Per questo la consulenza filosofica è protesa in avanti verso il suo inarrivabile compimento, verso il suo ideale obiettivo di pienezza del sapere: un’utopia stimolante e mobilitante. Ma è vero che anche il passato conta. Essere nani sulle spalle di giganti e comprendere il carattere ineludibilmente e intrinsecamente storico del pensare è fondamentale. Anzitutto consente di non crescere nell’orgoglio, la fine di ogni ricerca e il veleno di ogni verità. Poi mette in moto quel carattere intersoggettivo dell’indagine filosofica che non è solo sincronicamente legato al dialogo che avviene qui ed ora, ma ha un carattere diacronico e si rivolge alle pietre miliari della filosofia che, pensando, hanno messo in circolo problemi e soluzioni fondamentali, dai quali non si può rifuggire se non si vuole cadere in pessime banalità autoreferenziali.

 Ecco allora che la filosofia-consulenza filosofica invita a uscire da sé, a instaurare dialoghi coi vivi e coi morti, a cogliere la dimensione infinita della ricerca ma anche la stabilità e irreversibilità di alcune conquiste, pur nella loro continua revisione e  nel loro incessante approfondimento. Seguendo tale prospettiva, in questo libro ci si è sforzati di dare conto di un reale itinerario di consulenza filosofica, che si è appoggiato alla personalità e alla biografia dei soggetti coinvolti, ma che ha anche puntato coinvolgere i grandi della storia del pensiero, in vista di quel superiore rigore e di quell’apertura alle più diverse e sorprendenti suggestioni che essi procurano allo sguardo del lettore attento e curioso. Di qui l’incontro coi presocratici e con Platone, dai quali è venuta a noi europei la nozione stessa di verità e quella corrispondente di menzogna, cioè è nato sostanzialmente l’oggetto interno della filosofia, quello senza il quale la disciplina perderebbe immediatamente il suo significato sia tecnico sia esistenziale. Un passaggio attraverso i loro scritti e le loro opere ci ha confermati nella visione di questa centralità della verità e della menzogna e ci ha spronati a coglierne per loro mezzo il carattere dialettico-dialogico. Abbiamo capito che il metodo della filosofia è anche il suo contenuto: la verità filosofica dentro il dialogo si sviluppa come verità dialogante e dialettica in cui gli opposti si confrontano e vengono messi alla prova, in modo tale che ogni verità è oggetto di una visione di insieme che via via si articola escludendo ciò che solo appare vero, ma portandolo con sé quando è necessario definire un campo e stabilire dei confini.

Qui è l’opera del logos: assumere un punto di vista dall’alto, vedere l’insieme delle cose assolutamente, in quell’universalità sciolta dalle catene delle relazioni abituali,  e poi, però, procedere verso l’interno, dimodoché la verità generale trovi specificazione e determinazione nelle sue componenti particolari e singolari che nel tutto si trovano articolate e coimplicate. La dialettica-dialogica di Platone, che si trova a compimento di una storia presocratica e socratica, si propone come metodo-contenuto della filosofia che ha una forza conoscitiva ma anche etica: è la via per capire metafisicamente il mondo , ma anche per evitare le derive illusionistiche di chi scopre nell’arte di argomentare una disciplina utilitaristica e, aggrappandosi a quella, individua una strumentalità carrieristica estremamente umiliante per la natura stessa del logos. Se questo è, infatti, la natura umana, ogni sua strumentalizzazione coincide, come capirà Kant, con una strumentalizzazione dell’uomo che va sostanzialmente a scapito della sua dignità. Nella lotta antisofistica, Platone aveva già intuito l’enorme posta in gioco, sotto  tale preciso profilo etico, e al tempo stesso l’occasione per dare una nuova identità più matura e vasta alla sua filosofia. Noi vi ritroviamo la percezione del valore degli assoluti metafisici e morali, ma anche la necessità di non cadere nelle semplificazioni che sovrappongono l’assoluto al complesso come reciproci nemici.

Così pare abbia fatto, con la genialità che lo contraddistingue, Carlo Michelstaedter, proprio sviluppando una specifica interpretazione di Platone e insistendo sull’enorme fascino degli aut aut, contrapposto a tutte le retoriche sociali e culturali della dilazione e del compromesso che, a partire dalla prospettiva alta della Grecia classica si sono venute via via volgarizzando nella storia, per diventare il senso comune di una morale dell’utile, del comodo e della sistematica elusione del vero e del bene. Ci è sembrato quindi obbligatorio, al di là dei nostri personali gusti – che tuttavia hanno avuto un ruolo – affrontare lo scoglio del filosofo di Gorizia dopo aver attraversato in parte quelli di Atene.

 Il risultato non lo anticipiamo. Ma la pretesa possiamo dirlo fin da adesso, è quella di aver detto qualcosa a noi stessi e di noi stessi, senza tuttavia fermarci qui. La filosofia è cura di sé e racconto di sé, ma non può non essere al tempo stesso cura e racconto degli altri e del mondo. Nel nostro specifico: cura e racconto dei filosofi che ci hanno accompagnato, da un lato, e dei problemi che attanagliano la nostra post-modernità, dall’altro. Se l’obiettivo è stato raggiunto almeno in parte spetta al lettore dirlo… se così non fosse, il percorso presentato in questa cronaca potrà almeno divenire la testimonianza di un tentativo che di per sé ha valore a prescindere dai risultati.

mercoledì 4 dicembre 2024

Il Silenzio. Recensione a Maria Ignazia Angelini, Un silenzio pieno di sguardo, EDB, Bologna 2017(4)


La fede è femmina, essa si determina nella sighé (σιγή), parola che dobbiamo mantenere al femminile e tradurre con silenziosità (anche se poi, per comodità, adotteremo la forma più comune ed eufonica “silenzio”). Questa è la prima considerazione che madre Maria Ignazia Angelini nel suo difficile e affascinante testo, Un silenzio pieno di sguardo, mi induce a compiere. Ecco: a far giustizia delle tante vuote retoriche neofemministe sulla Chiesa maschile ecc. ecc., un testo radicalmente femminile, in radicale consonanza con la femminilità della fede cristiana. Direi che tutto qui è donna, anche la forma, anche il logos, anche lo stile dell’argomentare che cerca di costruire un tessuto di evocazioni e di suggestioni, dentro il quale il lettore maschio fatica a entrare, se non cercando in esso una perduta complementarietà, dopo aver passato troppo tempo a contemplare l’ombelico dei propri sillogismi, onfaloscopia, come la chiamavano i polemisti antichi, per certi versi inevitabile.

Per me, dunque, un esempio straordinario, quello di madre Maria Ignazia, di pensiero al femminile che nemmeno ho trovato nel tutto sommato facile procedere di una grande e seria femminista come Adriana Cavarero che, criticando il freddo razionalismo platonico, se ne fa nondimeno irretire, almeno quanto al procedere lineare e consequenziale dell’argomento filosofico. Al contrario il testo della monaca milanese è un tessuto, come detto, e  fa apparire trame e orditi di esperienza, di autenticità pratica – la pratica della preghiera costante nell’abbazia di Viboldone –, di impegno riflessivo dell’anima, laddove la sighé, dopo essere stata condizione antropologica, giunge come sigillo e compimento teologico del vissuto di fede.

Ma a che proposito e perché parlo di femminilità. Non è solo una questione di stile, ma anche e soprattutto di contenuti. La sighé non è semplicemente il “silenzio tranquillo del raccoglimento”, né ha il carattere di condizione del fedele nel suo intinerarium mentis in Deum quando viene tratto dentro la vita pleromatica e lì si annulla, come in un abisso infinito. Neppure si può descrivere come un’ascesi che disciplina la lingua e la parola evitando la loro dispersione nella chiacchiera mondana. No, è qualcosa di più e d’altro, avverte madre Maria Ignazia. Esso mantiene un carattere dialogico e ha forse il suo modello nel perfetto e silenzioso dialogo intratriinitario, manifestandosi solo successivamente nel rapporto Creatore -creatura grazie all’immagine di sé che il primo lascia nella seconda. In questo dialogo si determina la peculiarità intenzionale del silenzio cioè di apertura della coscienza rivolta-a e quindi disponibile a ricevere ciò a cui si rivolge. Questa ricezione è ascolto e al tempo stesso interrogazione e implica il Mistero come suo oggetto intenzionale, cioè “la realtà intuita come abitata da una trascendenza”.  La Parola è detta una volta per tutte nella creazione di un mondo meraviglioso che si dà alla nostra meravigliata contemplazione. Lì c’è silenzio e stupore. Ma la Parola venuta al mondo prende una carne che viene ferita e corrosa sulla croce fino al compimento finale. Anche ciò avviene nel silenzio. È l’abisso di una sofferenza silenziosa che cambia la matrice di peccato insediatasi nel mondo e la rovescia nello splendore di una gloria eterna. Ma ciò, appunto, avviene nel silenzio, silenzio che è massimamente sonoro come la sofferenza è massimamente gloriosa. La dimensione contemplativa del silenzio è lo sforzo più intenso di accoglienza e di conformazione al silenzio glorioso del Verbum consummatum, per aprire la coscienza credente alla capacità di essere affetti da Cristo, colpiti in pieno perché pienamente esposti all’onda d’urto della redenzione mediante la croce. Il silenzio consente di volgere lo sguardo a colui che hanno, abbiamo, trafitto e tramite questo sguardo agli altri, al mondo in una diversa luce di verità. Il silenzio è quindi pieno di sguardo. Mi sembra di capire questo nell’espressione così evocativa di madre Maria Ignazia: lo sguardo è lo sguardo ricevuto dall’assoluto trafitto ed esaltato nell’agonia della croce, che emette lo spirito nel silenzio della creazione e la cui misericordia trasformatrice colpisce gli occhi e l’anima di chi guarda in silenzio attonito e stupefatto. Questi dispone la sua persona, così affetta, ad una contemplazione che cambia radicalmente il segno della sua vita dalla miseria alla gloria, ridestando una nuova capacità di guardare che riempie il mondo: lo sguardo di chi porta una buona notizia, lo sguardo dell’evangelo, lo sguardo annunziante di una nuova parola nata da quei silenzi.

È evidente che qui il maschile e il femminile sono categorie molto riduttive. Ma è altrettanto vero che la capacità di contemplazione ricettiva, stupefatta e silenziosa è un tratto fondamentale della femminilità. madre Maria Ignazia arriva a citare un commento di Kierkegaard a un passo di san Paolo, 1Tm 2, 11-12 oggi ritenuto un po’ imbarazzante da molti esegeti e anche da qualcuno che troppo spesso sente di doversi scusare per essere cristiano: “La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all'uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo”. Ecco che cosa dice il filosofo danese: “E tu donna, a te è riservato di essere l’immagine dell’uditore e del lettore della Parola che non dimentica. Tu osserva nel modo giusto l’ammonizione dell’Apostolo: ‘La donna taccia nell’assemblea’, stia in silenzio e il suo silenzio esprima quanto profondamente ella fa tesoro della Parola. Non credi al silenzio? Io sì. Permettimi di descriverti la donna uditrice della Parola che non dimentica la Parola; e non dimentica, dopo questa descrizione, di diventare anche tu così. Ella tace, ma tu domandati: che significa questo silenzio? Riflettiamo che proprio questo silenzio è ciò di cui c’è bisogno perché la Parola possa avere presa sugli uomini. L’umanità attuale, infatti, è malata. E se uno chiedesse: ‘ Che si deve fare’, risponderei: ‘Anzitutto procura silenzio! Tutto, infatti, oggi è rumore’ […]. Promuovi il silenzio!’ E questo oggi lo può la donna. Il silenzio è come un’atmosfera, l’atmosfera fondamentale in cui ci si immerge: perciò si dice ‘fondamentale’, perché sta a fondamento. Ebbene la donna, che si specchia nello specchio della Parola, ella diventa veramente silenziosa”.

Il suo silenzio, nato all’ombra della Parola, è veramente eloquente e in grado di insegnare più di quelle parole nate da un professionismo retorico, abile nel gestire questo strumento piccolissimo, la parola, con cui fare cose grandissime (Gorgia). Se oggi c’è un “cultus” da condannare, un cultus né maschile né femminile, ma proprio di quell’umanità indifferenziata che vive al livello delle dinamiche ripetitive del desiderio e del consumo, è proprio la retorica. La retorica, ci insegna Carlo Michelstaedter, è l’attitudine utilitarista a chiedere alle cose di poter continuare a protrarre se stessi nel tempo, senza mai sfiorare la questione del senso, perché esso risiede nella dilazione continua della fine, che nondimeno verrà a troncare il processo di metastasi viziosa della loquacità pubblicitaria (perché promuove sé illudendosi di guadagnare a sé il consenso del mondo) nel silenzio malato della disperazione. Il silenzio sano della contemplazione ne è il grande antidoto, perché insegna a distruggere l’essenza autocentrata e autoreferenziale della retorica. Madre Maria Ignazia, che propone una silloge commentata e ragionata della sapienza dei padri del deserto di ambito ellenistico e siriaco sul silenzio, coglie nel segno quando riporta questo apoftegma: “Un fratello che viveva con altri fratelli chiese a padre Bessarione: ‘Che cosa debbo fare?’. Dice a lui l’anziano: ‘Taci e non misurare te stesso’”. Quanto diventiamo stranieri al mondo della misura, non quella metafisica, ma quella statistica ed economica, applicando questa continenza della comunicazione retorica, che esalta sé come centro mentre misura con i propri criteri l’altro per dominarlo e assoggettarlo? Il silenzio realizza esattamente nella contemplazione affettiva del Mistero di un’alterità smisurata questa estraneità al mondo della mathesis immanente, circolare, nutrita di parole funzionali che non dicono ma se-ducono. La proposta del silenzio anti retorico è anche una proposta di xeniteia, di estraneità, dell’essere straniero mediante una forma discreta ma radicale di anachoresis, di allontanamento dalla città e dalla responsabilità civile. La vita monastica, dal mondo del cristianesimo primitivo dei padri del deserto, attraverso la grande esplosione dell’epoca medievale, continua a parlarci, benché con la discrezione umile che si addice non più alla gloria dei trionfi e dello splendore dell’epoca delle cattedrali, ma all’umiltà di una fede crocifissa nel mondo moderno. Continua a parlarci di come exire de saeculo, pure dentro la vita nel mondo, di una disciplina ferrea che diventa intensamente mariana quando invoca l’umiltà dei servi che silenziosamente operano nel loro essere-risposta a un dono, nel loro essere dipendenti da una grazia. La forza potente dell’ascolto produce in loro una differenza ontologica che è l’alterità da questo mondo e dalle sue logiche. Il ritiro agonico dal mondo, nella lotta incessante contro il profluvio di cose e di parole, è condizione per tornare a fecondarlo mediante il silenzio eloquente dello spirito, che parla ogni lingua ma procede dal silenzio del Padre e del Figlio, nel dialogo dell’abbandono di Cristo sulla croce come ultimo atto della sua relazione terrena con il Padre: per Isacco di Ninive, sottolinea madre Maria Ignazia, la funzione generativa del silenzio è dominante, è come il grembo del senso, il principio di scioglimento della durezza del vivere e del cuore, è il “mistero del secolo futuro”, mentre “le parole sono l’organo di questo mondo”.

Lasciarsi coinvolgere in questa dinamica di rifondazione del mondo a partire dalla croce, significa rispondere sì a quel Dio “che non si compiace della veemenza del tuono, né dell’ardore del fuoco”, ma si è manifestato “nella dolcezza di un sottile silenzio”. “Dio - dice Efrem il Siro commentando l’episodio di Elia sull’Oreb (1Re 19,12) - prima rivela la sua forza trascendente” e spaventa Elia perché il suo cuore “si allargasse così da poter contenere lo Spirito, la forza e la profezia […] . E dopo tutto questo “Elia intese il mormorio di un silenzio leggero” e Dio “cominciò a rivelarsi amichevolmente, dolcemente a Elia”. La dolcezza di Dio sull’Oreb trova il massimo compimento nella croce con la quale il Dio misericordioso muore nel silenzio cui vengono condannati i servi, per offrire l’eterna compagnia della sua dolcezza a chiunque ascolti e riceva la grazia che sgorga dal suo sacrificio. Siamo molto al di là dello zelo per la giustizia che aveva caratterizzato l’azione del profeta Elia nei confronti del re idolatra Acab e della regina Gezabele (1Re 17-18): “Perché non imiti dunque la dolcezza del tuo Signore, commenta Efrem, non addolcisci lo zelo che urge per punire i figli del tuo popolo. Così da diventare un intercessore per loro, invece che il loro accusatore?”. Veramente è figura della croce questa improvvisa inversione della lotta nella dolcezza, che ribalta il senso comune e ambisce ad agire su un altro piano, non il grido forte della battaglia, ma il silenzio sottile che lascia esterrefatti, stupefatti, senza parole per come si esprime l’onnipotenza amica, la violenza amante, la forza benevolente di Dio, che distrugge il nemico salvandolo, e lo salva sacrificando se stesso. E quale insegnamento continua a fornire a noi oggi questo modello del profeta e del Figlio, in un’epoca in cui coloro che conducono guerre fanno fuoco sempre in nome della giustizia, sentendosi come strumenti di Dio, prima di portare nei suoi confronti l’enorme responsabilità della fede e dell’obbedienza.

Fino ad ora mi era parso che il silenzio di Dio fosse da leggere nel modo di Sergio Quinzio: quasi un ritirarsi di Dio, le cui promesse di redenzione appaiono continuamente contraddette da una storia che nega nei fatti ciò che la fede afferma, cioè che Egli ne è il signore. Dio rimane silente certo di fronte al dolore e al male, ma in particolare a un male che lo riguarda da vicino: l’apostasia, il nichilismo, la disfatta esteriore e interiore dei cristiani, che non perdono per la normale e financo prevedibile incoerenza degli uomini, ma per l’abbandono orgoglioso della fiducia e del timore nei riguardi dello stesso nome di Dio.

Invece madre Maria Ignazia mi suggerisce qualcosa di diverso: dal silenzio dell’ Oreb a quello del Verbum consummatum, fino al silenzio dell’eterno colloquio tra le persone della santissima Trinità, tutto conduce ad altri silenzi e ad altre parole: “L’uomo è troppo piccolo per comprendere tutti i linguaggi. Se potesse comprendere il linguaggio dei Vigilanti (angeli, n.d.r.), allora potrebbe elevarsi fino alla comprensione del linguaggio originario che tra loro parlano il Padre e il Figlio. Ma il nostro linguaggio è straniero alla voce degli animali e il linguaggio dei Vigilanti è straniero a ogni altro linguaggio. Il linguaggio con il quale il Padre parla al Figlio è straniero anche ai Vigilanti. Ma quale bontà, la sua. Come ha rivestito tutte le forme per consentirci di vedere, così ha adottato tutte le voci per trasmetterci il suo insegnamento. La sua natura è unica, ma così può essere vista. Il suo silenzio è unico, ma può così venir inteso”.

E tale silenzio, che porta con sé la radice teologica di ogni bellezza, cioè la purissima gratuità – che bella definizione! più radicale di quelle semplicemente filosofiche che alludono a  integritas, proportio e claritas – promuove il silenzio dell’ascolto e della meraviglia che, poi, effonde nel canto e nel giubilo. Madre Maria Ignazia fa più volte riferimento ad Agostino. Io mi permetto di aggiungere Jacopone da Todi, il cui Iubelo del core mi sembra si attagli eccezionalmente bene a questo contesto, cantando quello che potremmo dire il momento effusivo del silenzio accogliente della fede, proprio di un cuore ferito da Dio, cioè affetto fino alla lacerazione da un amore senza misura:

O iubelo de core,

che fai cantar d’amore!

 

Quanno iubel se scalda,

sì fa l’omo cantare,

e la lengua barbaglia

e non sa que se parlare;

drento no ‘l pò celare,

(tant’è granne!) el dolzore.

 

Quanno iubel è acceso,

sì fa l’omo clamare;

lo cor d’amor è appreso,

che nol pò comportare:

stridenno el fa gridare,

e non virgogna allore.

 

Quanno iubelo ha preso

lo core ennamorato,

la gente l’a ’n deriso,

pensanno el suo parlato,

parlanno esmesurato

de que sente calore.

 

O iubel, dolce gaudio

ch’è’ drento ne la mente!

Lo cor deventa savio

celar so convenente;

non pò esser soffrente

che non faccia clamore.

 

Chi non à costumanza

te reputa empazzito,

vedenno esvalïanza

com’om ch’è desvanito.

Dentr’a lo cor firito,

non se sente de fore.