PREMESSA
Il testo sulla
dittatura non ripercorre solo il significato del termine in un contesto
disciplinare posto al confine tra storia, politica e dottrina generale dello
Stato, con il fine di far luce nell’arbitrarietà degli usi del vocabolo e nella
confusione, eliminando ciò che è slogan e tenendo in tali usi ciò che resiste
ad un’analisi scientifica, non è solo tutto questo, bensì è anche un testo
sistematico, cioè di dottrina e con un fine eminentemente concettuale. Nella
letteratura borghese fino al 1917 il termine può indicare un potere personale
unito al consenso democratico e alla centralizzazione il cui prototipo è
Napoleone. Per Bodley la dittatura è un regime autoritario cui si possono
associare i termini cesarismo, bonapartismo e anche boulangismo.
L’etimologia non viene troppo in aiuto per una
definizione visto che ha una grande estensione concettuale: dittatura è il
regime di “colui che detta”. Bauer e Ostrogoski hanno sottolineato che il
dittatore è nel sec. XX capo di un partito centralizzato: il fenomeno della
centralizzazione diventa elemento fondamentale. Oggi in generale per dittatura
si intende la sospensione della democrazia su basi democratiche, oppure una “dittatura del proletariato” che consiste nella
negazione della democrazia parlamentare e del suo fondamento formale.A tal
proposito Kautsky ha notato che il concetto marxiano di una dittatura
collettiva è una contraddizione, in questo allontanandosi dal suo maestro
poiché Marx sostiene che è sempre una classe la protagonista di un evento
politico reale.
Qual è il contenuto
dell’agire dittatoriale? Può implicare la soppressione delle forme democratiche
ma non il dominio di una minoranza su una maggioranza, oppure no: si tratta
sempre della strategia migliore da scegliere di volta in volta. Questo nella
dottrina marxiana. In essa ciò che conta nella dittatura è sempre l’occupazione
proletaria della macchina centralizzata dello Stato con lo scopo di avviare una
transizione al comunismo. Quindi anche per i marxisti la dittatura è
un’eccezione rispetto a…
a) lo Stato di diritto,
cioè quello Stato che limita al massimo gli interventi pubblici e garantisce i
diritti civili e il rispetto della libertà personale attraverso una
costituzione;
b) le procedure democratiche
per definire il consenso dei cittadini;
c) i diritti
inalienabili.
Così la dittatura può
significare un’eccezione rispetto ai principi democratici e liberali, non
necessariamente rispetto a entrambi. Lo stato d’assedio viene chiamato dittatura proprio perché comporta la
sospensione di prescrizioni positive della costituzione; in un’ottica
rivoluzionaria invece il termine dittatura può essere applicato all’ordine
esistente nel suo complesso, inteso come oppressivo politicamente, oppure al
potere politico che si vuole edificare, come accade nella pubblicistica
comunista. Quest’ultima propone una prassi politica dittatoriale legittimata
non da una norma di diritto, ma da una filosofia della storia che dice che il
naturale sviluppo della storia procede verso il comunismo, secondo uno sviluppo
organico che la borghesia meccanicamente vorrebbe interrompere. È tale
interruzione a richiedere l’intervento meccanico del movimento rivoluzionario.
Ecco allora la dittatura del proletariato
come una eccezione a cui si è costretti, data l’interruzione borghese dello
sviluppo organico della storia.
Quindi la dittatura è
eccezione rispetto alla norma ma non rispetto a qualsivoglia norma. A volte
l’eccezione si configura propriamente rispetto alla norma che si vuole attuare,
per esempio quando si è costretti a trasgredire i principi di una costituzione
in un caso d’emergenza, proprio per creare le condizioni di ordine dove la
costituzione possa nuovamente essere resa vigente. Ciò richiama possibile
contraddizione tra norme del diritto
e norme di attuazione del diritto nel
senso che ciò che uno deve fare per attuare il diritto e rendere possibile la
vigenza di una costituzione rende necessario trasgredire provvisoriamente le
norme della stessa costituzione. Viceversa se la dittatura volesse negare ogni
norma e non puntasse a rendersi superflua, sarebbe solo dispotismo arbitrario.
Alla luce di ciò si capisce come, nella
dittatura, per raggiungere un dato obiettivo, i mezzi sono valutati solo
in relazione alla loro adeguatezza allo scopo. Quando il diritto non riesce più
a mantenere in piedi la società, interviene il potere per operare ciò che è
necessario (Jehrinc). Nondimeno sotto il profilo strettamente giuridico un fine
buono non può legittimare comunque la violazione del diritto. Formalmente
dunque non funziona la sola idea che la dittatura ignori il diritto ma solo al
fine di attuarlo. Bisogna che ciò sia legittimato da una autorità suprema, che
fa questo in relazione a certe circostanze. Da ciò proviene nella dittatura
l’identità
1) tra incarico e
facoltà: il dittatore ha ogni facoltà, ma per incarico;
2) tra discrezionalità
e autorizzazione: il dittatore agisce in modo discrezionale, ma perché è stato
autorizzato;
3) tra commissione e
autorità: il dittatore ha una autorità, ma la detiene in quanto l’ha ricevuta
per commissione.
Da quest’ultimo
elemento si evince che il dittatore è un commissario. Ma tale sua identità si
articola in modo diverso: è pienamente
tale nella dittatura di riforma antica; è commissario del potere costituente
del popolo nella dittatura rivoluzionaria. In quest’ultimo caso esercita un
potere sul popolo, senza smettere di dipenderne quanto a legittimazione.
CAPITOLO PRIMO
LA DITTATURA COMMISSARIA E LA
DOTTRINA DELLO STATO
a) Teoria tecnica e teoria
giuridica dello Stato
La dittatura negli scrittori umanisti del Rinascimento
La dittatura è
considerata nel Rinascimento un nobile istituto della repubblica romana che si
articola in due tipologie: rei regendae
e seditionis sedandae, la prima con
lo scopo di condurre guerre, la seconda di reprimere la sedizione delle plebi.
Non c’è in questo periodo alcun interesse per il passaggio dalla dittatura
classica al cesarismo, inteso come dittatura sovrana.
La dittatura negli scrittori tedeschi del secolo 16º
Qui c’è un interesse
squisitamente storico che esclude la dittatura con il concetto di dottrina
dello Stato.
Machiavelli
Con lo scrittore
italiano inizia dei parallelismi con il proprio tempo. Machiavelli nota che le procedure
amministrative della repubblica sono di ostacolo in periodi di emergenza, così,
sulla base di Livio ma con lo sguardo a Venezia, egli delinea i caratteri della
dittatura. È un potere su mandato che delibera per sé senza consulta. Non può
modificare le leggi e durante la sua degenza i poteri ordinari mantengono una
funzione di controllo. Machiavelli non distingue ancora tra dittatura
commissaria e dittatura sovrana. Per quanto riguarda la figura del principe,
egli non era un dittatore. La differenza tra il testo sul Principe e i Discorsi è
nelle differenti tecniche del potere efficace in diverse forme statuali, cioè
monarchia e repubblica. Il pessimismo antropologico del Principe porta alla giustificazione del potere assoluto;
l’ottimismo della virtù nei Discorsi porta
alla concezione collegiale del potere. Dall’idea tecnica del potere che
Machiavelli avanza nel Principe
deriva che chi costruisce lo Stato è un artista che plasma il popolo come la razionalità
plasma l’irrazionale (si veda il concetto di dictamen rationis). Così la dittatura è convinto che certi in certe
situazioni di emergenza. Il dittatore comunista in azione la cui azione
adeguatezza allo scopo. Tale concezione tecnica non contempla il diritto come
valore autonomo ma guarda a procedure snelle in vista dello scopo in cui ha il
primato il potere esecutivo e la sua efficacia. Lo Stato moderno, in quanto
sottolinea i temi del razionalismo-tecnicità-esecutività del potere ha un
orientamento alla dittatura. Lo si vede anche dal ruolo fondamentale che hanno
i funzionari come soggetti che realizzano la volontà del re contro le
consuetudini e le resistenze dei ceti.
Scioppius distingue i
principia della morale come imperativi categorici, dai praecepta politici quali
imperativi ipotetici.
Nell’ambito dell’epoca
moderna il tema della de poche emerge in quello degli arcana poiltica (tecnica segreta per ottenere uno scopo).
Importante su questo
tema è la riflessione di Arnold Clapmar, De
arcanis rerumpublicarum libri VI, Bremen, 1605. Qui egli parla degli arcana reipublicae che non coincidono
con istituzioni appariscenti, ma rappresentano le forze motrici interne allo
stato, forze che lavorano per la sua salute, tenendo conto che bene del
principe sempre bene pubblico. Essi variano nelle diverse situazioni e possono
essere distinti in
- arcana imperii: i metodi
per tenere in pace il popolo in tempi normali (libertà-partecipazione senza
reale influenza-indulgenza per la vanità umana eccetera);
- arcana dominationis: i
metodi di protezione e difesa del ceto dominante in caso di emergenza di
sedizione. La dittatura è qui arcanum
dominationis dell’aristocrazia.
A questi due elementi
possono essere aggiunti a mo’ di corollario i flagitia dominationis, cioè i metodi tirannici e di abusi di potere
e i consilia machiavellistica cioè la
prassi derivante da una cattiva ragion di Stato.
- iura imperii: i diritti
connessi all’esercizio della sovranità, uguali in ogni stato, come per esempio
lo sono quelli relativi alla legiferazione;
- iura dominationis: il
diritto di creare un’eccezione quando si verifichi un’emergenza. Ossia il
diritto d’eccezione che deve solo rispettare lo ius divinum e tutto il resto può scavalcare. Qui si ha la pienezza
del potere che supera i poteri costituiti e si avvale di metodi che lo
avvicinano alla dittatura che fa riferimento al moderno potere costituente del
popolo. La decisione sul verificarsi dell’emergenza spetta al sovrano (Carlo V,
Ferdinando II) e riguarda la facoltà illimitata di compiere tutto ciò che è
necessario allo scopo. La sovranità emerge qui i suoi caratteri più puri. Qui
il criterio è la salus publica, non
né l’aequitas né la justitia.
Contro tale concezione
si scagliano i monarcomachi: secondo loro il popolo è dominus e il re l’esecutore della sua volontà; scopo dell’azione
del re è l’utilitas populi che è
uguale all’utilitas rei publicae data
come evidente.
Questo è anche un tema
caro a Grozio e al “giusnaturalismo della giustizia” secondo il quale esiste un
diritto naturale pre-statuale e secondo il quale quest’ultimo coincide con la
giustizia.
Diversamente da Grozio,
secondo Hobbes non c’è un diritto naturale pre-statuale ma il diritto proviene
da una decisione del potere. Nello Stato la legge è un imperium cioè un comando. Scopo del sovrano è evitare la guerra
civile e la sua decisione nasce da un nulla normativo. D’accordo con Hobbes è
Puferndorf che ritiene che sovrano ha la prerogativa di decidere senza essere
sottoposto a istanze di controllo. Per Locke, invece, sovranità risiede nei
ceti, che rappresentano l’ultima istanza decisionale (mediante le loro
istituzioni collegiali e nel rispetto dei diritti di vita libertà proprietà,
n.d.r.) . Per Rousseau il potere, ogni potere legittimo, è semplice commissario
del popolo.
B) La definizione di
dittatura commissaria in Bodin
Bodin affronta il problema di chi ha supremo diritto e suprema
potestà. Tale problema conduce al tema della dittatura e della sovranità. La
sovranità è da lui definita come il potere
assoluto e perpetuo di uno Stato. I latini lo chiamavano majestas. Il dittatore, in tale
contesto, è colui che riceve dal sovrano un compito da eseguire senza possedere
assolutezza e durevolezza del potere. Il sovrano infatti non riconosce altro
che Dio al di sopra di sé. Il potere del sovrano, dunque, non è derivato, quello del dittatore sì.
Contro Bodin, Grozio sostiene che,
una volta che il popolo abbia definitivamente trasmesso la sovranità al
principe, questo non si distingue da un dittatore: entrambi hanno ricevuto la
sovranità, ma ciò non è rilevante, l’importante è esercitarla. Anche la
dittatura, come la sovranità, è summum
imperium in cui il tema della durata limitata della dittatura non è
rilevante. Infatti il dittatore, nel tempo del suo mandato, sembra possedere un
diritto all’ufficio, cioè sembra che il suo status
non sia revocabile. Per Hobbes il
popolo trasmette la sua sovranità al sovrano ma lo fa in modo irrevocabile e
totale, altrimenti si manterrebbero occasioni di guerra civile. Nel filosofo
inglese il dittatore semplicemente un monarca temporaneo (come lo fu Cromwell)
e non ereditario. In tempi eccezionali anche in democrazia per Hobbes è
necessaria una dittatura simile alla monarchia. Per Puferndorf il dittatore non è un sovrano ma semplicemente un
magistrato: la dittatura è un esercizio commissario di funzioni statuali. Bodin, dal canto suo, ritiene che il
dittatore sia un commissario, ma il suo ragionamento è più complesso. Gli
ufficiali di un regno possono essere
- ordinari o
- commissari:
entrambi hanno funzioni
pubbliche, e ad essi rispettivamente corrispondono due forme di esercizio del
potere statuale:
- la forma ufficiale è fondata sulla legge, è
durevole, è in grado di dare diritto all’ufficio, il contenuto della sua
attività è previsto dalla legge;
- la forma commissaria è fondata su
un’ordinanza (la volontà di fatto del principe), non è durevole, non è in grado
di dare diritto all’ufficio ed è dipendente dal mandante, il suo contenuto è
vincolato all’istruzione ricevuta, la sua discrezionalità è solo nella misura
data dal mandante.
Nella visione di Bodin,
in una monarchia assoluta permane lo Stato di diritto che distingue tra legge
universale, razionale e giusta, da un lato, e ordinanza come volontà puntuale e
particolare del principe (dipendente dalle circostanze), dall’altro. L’attività
ordinaria ha un contenuto definito per legge, quella commissaria no. Ciò però
non significa che l’ufficiale ordinario sia meno libero, anzi avviene l’opposto
perché egli si riferisce a una legge che il sovrano non può cambiare quando
vuole e che egli pure interpreta.
Il concetto di commissario prevede ulteriori
distinzioni:
- il commissario di servizio:
non ha particolari poteri; la sua attività è definibile mediante disposizioni
generali poiché egli svolge servizi regolari;
- il commissario
d’affari: sbriga affari speciali dipendenti, caso per caso, dalla volontà del
mandante: per esempio l’ambasciatore;
- il commissario
d’azione: può svolgere il suo mandato rimuovendo gli ostacoli legali e può fare
eccezione alle leggi. La sua è una dittatura che, essendo caratterizzata da
un’eccezione alla legge, non può fondarsi su una legge, né può essere perpetua
(se no diviene una sovranità). I commissari d’azione hanno un ruolo importante
nelle opere di riforma e rifondazione dello Stato.
John Locke non ammette
alcun potere dettato dalle circostanze e dei fatti. Il re per lui è
semplicemente commissario del popolo con poteri limitati. Anche quando dà una
commissione non può valicare la legge. Tuttavia il potere federativo, il nome
con cui Locke indica quel potere che si esercita in politica estera (in cui
particolarmente importante è il concetto di prudenza o moderazione o epikeia), non può, nel suo esercizio,
essere fondato su leggi e quindi deve ammettere la sua dipendenza da
circostanze di fatto.
CAPITOLO SECONDO:
LA PRASSI DEI COMMISSARI DEI PRINCIPI
FINO AL 18º SECOLO
La plenitudo potestatis papale
La plenitudo potestatis papale è un punto di svolta nel passaggio dal
medioevo all’età moderna. Si tratta di una trasformazione spettacolare
dell’apparato di potere senza riguardo ai diritti acquisiti. È una sorta di
rivoluzione legittima. Da Innocenzo III in poi il Papa è un sovrano, i vescovi
non sono vassalli, come potrebbe pensare un uomo legato all’ordinamento
medievale, ma ufficiali. Ciò significa che viene eliminata dentro la Chiesa una
gerarchia fissa di uffici che si ponevano come diritto inalienabile del loro
titolare, anche di fronte all’istanza più alta. Contro tale plenitudo potestatis si scaglia Marsilio
da Padova secondo cui ciò prelude a una tirannia del Papa. Allo stesso modo
Gersone, pur impegnato nel tener fede all’idea monarchica di Chiesa. Da questa
contestazione deriva la distinzione tra sostanza e l’esercizio del potere che
sarà proprio del 19º secolo: il papa ha la plenitudo
potestatis ma la esercita sotto il controllo del concilio, oppure mediante
le gerarchie intermedie. In tal modo il capo non dovrebbe sopraffare le membra,
a meno che non vi sia un caso di evidente necessità. In alternativa a tale
prospettiva si colloca la rivoluzione di Innocenzo III. Egli invia
plenipotenziari con poteri straordinari, di fronte ai quali scompare ogni altro
ufficio perché si considera compiuto dal Papa tutto ciò che fa il legato (il
quale comprende il potere di coercitio).
Il delegato ha sì un potere giurisdizionale, cioè è un giudice delegato,
tuttavia tale potere è sopravanzato dalla commissione papale, secondo la quale
egli assume prove ma anche giudica e attua il diritto “vagliando le
circostanze”, con una discrezione che gli è data dalla necessità di produrre
uno stato di cose concreto. Anche nell’attività ordinaria ci sono cambiamenti
quando c’è un ampio mandato e una commissione senza limiti. Quando per esempio
il commissario ha il potere di nominare altri commissari che nelle loro
funzioni possono interferire con l’attività dei vescovi. Oppure come accade con
i francescani che ottengono dal Papa potere di ispezione. Oppure ancora quando
a un legato è affidata un’intera provincia per ristabilire la quiete pubblica.
In tutti questi casi i poteri non sono solo giurisdizionali, ma anche
amministrativi e organizzativi. Ciò è possibile mediante l’idea di una
rappresentanza personale, per cui il commissario rappresenta il Papa, così come
lo stesso Papa rappresenta Cristo ed è suo “commissario”. Insomma le cose
cambiano quando l’inviato del papa non è solo giudice ma può compiere azioni
che sono rese necessarie per il conseguimento di un obiettivo concreto oltre il
suo stretto mandato giuridico.
I principi temporali e
i loro inviati-missi
Ciò accade anche, in
modo significativo, con i principi temporali che inviano messi con facoltà e
compiti speciali per eseguire incarichi particolari, come l’eliminazione di
illegalità o abusi di ufficio. La diffusione della figura del giudice
commissario e del commissario anche per altri incarichi statali si colloca in
questa direzione. Si pensi al commissario di inchiesta di Luigi il santo del
1247, finalizzata a raccogliere le rimostranze dei poveri sudditi contro i
poteri locali, e avente anche poteri ispettivi, oltreché giudiziari e penali.
Quando i messi itineranti si stabilizzano si ha la trasformazione della
commissione in un ufficio stabile. Il commissario, pur essendo talora strumento
dei ceti per mantenere i propri diritti, è principalmente usato dal sovrano
contro i diritti dei ceti. Questo grazie alla idea che le decisioni del
commissario hanno lo stesso valore di quelle del principe e non sono
inoppugnabili.
Negli Stati italiani e
nello Stato della Chiesa
In alcuni Stati
italiani fin da 14º secolo compaiono commissari non solo come missi del principe ma anche come
ufficiali incaricati di controllare l’attività dell’esercito e dei suoi
comandanti. I loro compiti si estendevano fino al punto di assumere il comando
delle armate e di divenire quindi dei commissari d’azione. Esempi di
commissione sono quelli che il governo papale di Bonifacio IX prende per
affrontare lo scisma avignonese. Egli preoccupato delle finanze papali nel 1391
conferisce due commissari il potere di vendere, impegnare o comunque utilizzare
il proprio arbitrio fino ad una certa somma per vendere castro non appartenente
ad un monastero, anche senza il consenso della parte. Nel 1397 a Johannes
Holand viene affidato il potere di fare tutto ciò che ritiene necessario per
difendere pace, tranquillità pubblica, gloria della Chiesa contro i ribelli.
Nel 1398 Malatesta de’ Malatesti riceve, sempre da Bonifacio IX, il compito di
ristabilire l’unità della fede, dell’ubbidienza, della pace nella città di
Roma. Tale mandato si conclude con una autorizzazione generale prendere tutte
le misure di fatto che appaiono necessarie ai fini della riforma e del
ristabilimento della quiete pubblica. Questa commissione dà al soggetto
incaricato poteri giudiziari e amministrativi cui si aggiungono facoltà di prendere
misure puramente fattuali.
Commissari, comandanti
militari e commissari presso l’esercito
Questi sono poteri che
esulano dalla via facti, cioè dal
potere di prendere provvedimenti extra giuridici che un militare ha
nell’esercizio delle sue funzioni belliche. Il commissario non è il condottiero
che presta obbedienza al re per cui combatte, ma uno che ha un incarico di controllo
anche nell’esercito. Ciò, nonostante che a volte lo stesso capo dell’esercito
possa avere poteri commissariali. Le due funzioni, questo è importante
comprendere, rimangono diverse. Papa Eugenio III, dal canto suo, nomina il
vescovo di Spoleto come commissario presso l’esercito con piena facoltà,
arbitrio e potere. L’elenco delle sue facoltà si conclude con la clausola
generale di fare tutto ciò che è necessario per la gloria della Chiesa e il
bene dei sudditi, e che tutte le altre autorità e sudditi gli devono
obbedienza. Qui accanto al commissario civile si presenta un commissario
dell’esercito. Egli ha un compito relativamente speciale e delimitato,
differente da quelli precedenti. Ciò che importa nelle commissioni precedenti è
il fatto che per indicare il potere commissario si dice che a lui si deve
obbedienza come al papa. In generale il commissario “deve fare tutto ciò che è
necessario per…”. A tal fine vi vengono conferite facoltà ordinarie e financo straordinarie.
Diversi tipi di
commissari e loro distinzione dal legato diplomatico
Si presenta qui la
distinzione tra commissario di servizio, che sbriga affari che ricadono nelle
competenze ordinarie; il commissario d’affari deputato a svolgere incarichi
speciali e infine il commissario d’azione il cui obiettivo da conseguire
giustifica ogni tipo di azione. A volte date le circostanze un commissario di
servizio può diventare di affari e anche d’azione. Il commissario va distinto
tuttavia dal legato diplomatico che non è commissario ma procuratore.
Quest’ultimo ha come il commissario un mandato più ampio dell’attività
giudiziaria ma non ha alcuna iurisdictio
e alcuna facoltà autoritativa. In ogni caso nel passaggio dallo stato cetuale
allo Stato assolutistico è decisivo il commissario d’azione. Tale commissario
si sviluppa a partire da elementi giuridici diversi: anzitutto vi è un
commissario di servizio che esegue compiti, poi un commissario di riforma e un
commissario militare. Queste figure sono importanti per capire come si viene a
costituire e quali prerogative via via assume il commissario d’azione. Quindi
andiamo ad analizzare queste figure
concentrandoci sulla storia tedesca.
Le possibilità insite
nell’esecuzione di una sentenza giudiziaria
Malgrado la limitatezza
del compito di far eseguire una sentenza giudiziaria avente valore legale, vi
sono forme giuridiche – come per esempio la dichiarazione di “nemico” – volte a
eliminare gli ostacoli più grossi all’azione intesa a ristabilire l’ordine
legale. L’esecuzione, se deve essere efficace, non deve dipendere dalle
eventuali circostanze avverse e tantomeno dalle resistenze dell’exequndus. Per essere efficace, dunque,
l’esecuzione può travalicare il fondamento legale della sentenza, se le
circostanze lo richiedono. In particolare l’esecutore gode di piena libertà
d’azione in caso di violazione della pace interna. In tal caso l’esecuzione può
divenire intervento militare. Nell’epoca moderna l’esecuzione di una sentenza
può diventare il mezzo attraverso cui il principe per mezzo di un commissario
esecutivo, elimina l’ostacolo dei ceti
così da potersi affermare come sovrano assoluto.
La prassi dei
commissari imperiali e i suoi vincoli
Nel XVII secolo il
potere dei commissari imperiali in vista della imperii utilitas et tanquillitas era superiore a quello dei
magistrati ordinari, perché princeps
vices fungitur eiusque persona representat. Ciò accadeva in particolare nel
caso della proscrizione con qualche ceto a causa appunto della violazione della
pace interna. Tuttavia l’attività dei commissari era anche nel caso della
proscrizione piuttosto lenta. Il compito del commissario imperiale consisteva
principalmente nell’intraprendere trattative, soprattutto se erano coinvolte
questioni importanti o partiti influenti. La cosa si protraeva fino a quando ad
un commissario d’affari non fosse subentrato un commissario d’azione. Esempio
importante dell’attività dei commissari è la lite tra la città di Braunschweig e il duca Julius Heinrich di
Braunschweig. Essa ha inizio nel 1604. Nel 1609 i commissari invitano le parti
a deporre le armi. Nonostante un accordo scritto per la deposizione delle armi
da parte della città, essa nuovamente fa attaccare i possessi del duca dai suoi
mercenari. A ciò segue un nuovo invito con un ultimatum e la dichiarazione di
interdetto. In generale i commissari imperiali erano strettamente vincolati al
mandato ricevuto e dovevano subire le opposizioni dei ceti. Essi rimangono
commissari d’affari che non possono dar luogo ad un intervento militare, la cui
prerogativa spetta a eventuali principi incaricati. In ogni caso l’esecuzione
anche da parte dei principi contiene garanzie per i ceti, secondo l’ordinamento
esecutivo del 1555 che regola tali questioni, perché in linea logica
l’esecuzione, se intesa in modo radicale,
avrebbe potuto divenire strumento dell’assolutismo. Né un commissario
imperiale avrebbe potuto saltare il principe esecutore nella direzione
dell’esercito che porta a terine di fatto l’azione esecutiva.
Wallenstein e il
tentativo sventato di una trasformazione assolutistica
Con Walllenstein,
invece, che l’imperatore, avendo un
esercito al suo servizio può gettare le basi di una sovranità diretta
dell’imperatore sull’impero, sul fondamento formale di una esecuzione delle
proscrizione imperiale. I ceti avvertirono il pericolo e seppero anche
sventarlo, come dimostra la vicenda del condottiero, mentre al contrario, in
Boemia e in Austria l’imposizione del
potere imperiale avviene per mezzo del principe elettore di Sassonia e il duca
di Baviera, nominati commissari esecutivi imperiali durante la ribellione boema
all’inizio della guerra dei Trent’anni. Quindi la repressione dei ceti, avviene
per mezzo dei due principi, cioè per mezzo dei ceti stessi. Il fondamento
giuridico è anche qui la proscrizione, giacché il principe del Palatinato ha
messo a rischio la pace interna. Di qui la commissione imperiale per ricondurre
i ribelli all’obbedienza, il rifiuto della sottomissione e il passaggio
all’azione. I principi, una volta conquistata Praga, si avvalgono di sub
commissari per ottenere obbedienza e procedere contro i ribelli. Il potere del
principe – duca di Baviera in questo caso -
non era quello di un funzionario indipendente, ma di uno che si
riservava di avere mano libera in tutte le faccende militari (con un potere
simil-dittatoriale che si distacca dalla definizione di commissario data da
Bodin). Tuttavia il duca ha amplissima libertà di azione, ma solo via facti, in quanto comandante militare
che deve ottenere il risultato militare. Egli è commissario d’affari solo
quando riceve l’omaggio a nome dell’imperatore da parte delle città sottomesse,
ma ribadisce che come comandante militare, egli non esercita alcuna supremazia
o autorità sugli altri ceti e nemmeno nuovi diritti. Il comandante militare in
quanto tale non è dunque un commissario, anche se l’intervento militare
rappresenta un tipico caso di commissione d’azione.
Comandanti militari e
commissari (dell’esercito)
La distinzione tra
commissario e comandante militare si afferma tuttavia solo nel corso del sec.
XVII. Nel 1508 sotto l’imperatore Massimiliano I si invitano i soldati a
giurare obbedienza al loro principe e comandante a nome dell’imperatore, cioè
in quanto commissario dell’imperatore. Ancora nel 1628 Wallenstein come comandante dell’esercito è anche commissario.
Successivamente vi sarà distinzione tra il comando militare e i commissari
amministrativi dell’esercito, i quali sono organi governativi di controllo,
provvisti di compiti politici, istituiti per trasmettere istruzioni ai capi
militari, trattare col nemico, provvedere al vettovagliamento e agli
approvvigionamenti etc., oppure assolvono compiti connessi all’amministrazione
dell’esercito in senso stretto I commissari dei principi sono all’origine dei
commissari d’affari, che poi diventano di servizio con l’evolversi
dell’amministrazione militare. In particolare durante la guerra dei Trent’anni
si stabilizza un apparato di commissari, spesso alle dipendenze dei comandanti,
e a volte con una certa autonomia.
I commissari
territoriali o di guerra
Dai commissari presso
l’esercito si devono distinguere i commissari territoriali, cioè i commissari
del principe o dei ceti del territorio che deve
sopportare il passaggio dell’esercito. Essi svolgono compiti di
mantenimento della disciplina, di ispezione e di amministrazione delle paghe:
per tale motivo essi sono a contatto con il potere e l’amministrazione del
principe o dei ceti. Può accadere che il comandante dell’esercito si sottometta
alle indicazione dei commissari o li usi come strumento per le sue operazioni
di guerra. La raccolta dei fondi per la guerra era ugualmente svolta da
commissari di guerra che possono essere istituiti anche dal sovrano
territoriale e che in tal caso hanno più potere del commissario imperiale,
benché nelle operazioni di guerra la loro autorità sia sopravanzata dalle
esigenze della soldatesca che quando deve essere pagata o approvvigionarsi può
passare alle vie di fatto a prescindere dalle diposizioni dei commissari. In
generale vale nell’Impero per gli acquartieramenti e il passaggio dell’esercito
nei diversi territori la gestione concorsuale di comandante di truppa,
commissari di guerra, autorità territoriali.
I commissari d’affari
non sono mai dittatori
Nonostante con il
passare del tempo i commissari d’affari siano inquadrati in una struttura
permanente diventando commissari di servizio, l’incarico di commissario
mantiene un certo carattere di immediatezza cioè non agisce usando una norma
giuridica. Ciò non significa che egli può essere chiamato dittatore. Tutt’al
più potrebbe chiamarsi dittatura l’intero sistema per la rilevanza centrale che
assume in esso una finalità di carattere tecnico-pratico.
Commissario di guerra
in Prussia
La Prssia è esempio
della rilevanza simil-dittatoriale della finalità tecnico-pratica. Diversamente
che nell’impero, il commissario di guerra era preso più sul serio, con
un’estensione dei suoi poteri dalla sfera militare a quella civile. Anche qui
il commissario è strumento di un sistema dominato da una finalità
tecnico-pratica. Ciò poi si consolida in un apparato di funzionari stabili a
sostegno e incremento del potere assoluto del sovrano: insieme alla sovranità
si incrementa anche la burocrazia del principe. In Prussia il commissario
dell’esercito non è solo mezzo per raggiungere un risultato organizzativo o
strategico, ma per realizzare la graduale estensione di un organismo
amministrativo.
Il commissario di
riforma (103)
Il commissario di
riforma è esempio di una commissione d’azione. Egli è istituito dal principe
per far valere l’autorità centrale dello Stato sospendendo l’amministrazione
locale autonoma quando essa frappone ostacoli. Esempi di commissari di riforma
sono quelli istituiti per reprimere focolai di protestantesimo in Austria,
avvalendosi anche di un’adeguata scorta armata mercenaria. L’ordine era quello
di reprimere l’ostinata resistenza delle comunità luterane e culminava nella
formula: “operare tutto quanto le necessità impongono”. Esempio di tale
commissione è quella data a commissari di riforma a Leoben mandati ad attuare
in tutto quel territorio una “riforma” antiprotestante. Essi si devono adeguare
alle circostanze e quando la riforma non poteva essere attuata con le buone
passavano all’esecuzione a mano armata.
Excursus: la dittatura
di Wallenstein
Wallenstein fu
considerato un dittatore perché non teneva in conto i diritti dei ceti e aveva
autonomia rispetto al suo mandante, cioè l’imperatore. Il problema è fino a che
punto i poteri di W. giustificano l’appellativo di dittatore (con un uso del
termine che si va avvicinando al concetto di dittatura sovrana)? La definizione
di dittatura dap arte dei suoi contemporanei, che ha giustificato la sua
attribuzione a W. è la seguente: un
comando militare supremo e indipendente al riparo dalle interferenze degli
altri organi. (con tale definizione anche Maurizio d’Orange e Cromwell vengono
indicati come dittatori). Nel suo primo generalato (1625-1630) W. viene
nominato dall’aprile 1625 “capo” nel
senso che a lui viene affidata la direzione generale delle truppe in , ma non
di tutte le armate dell’Impero, bensì solo dei “rinforzi destinati al Sacro
romano impero”, mentre non dipendevano da lui le truppe operanti negli Stati ereditari.
Nel luglio 1625 egli è nominato comandante in campo cioè generalissimo
dell’intero esercito imperiale nell’Impero, in Ungheria e negli stati
ereditari. L’esercito della Lega cattolica non era ai suoi ordini, ma nelle
consultazioni con questo non gli si potevano frapporre ostacoli. Nella nomina
del 1628 emerge il carattere commissario delle funzioni di W. e un’estrema
ampiezza di poteri: unico limite sono i “comandi generali” per i quali
necessità di un’autorizzazione imperiale. Qui W. deve provvedere a tutto ciò
che è necessario e i suoi atti valgono come se compiuti dall’imperatore. Egli è
dunque un vero generale supremo, ottenendo potestà, autorità e autorizzazione
piene. Nondimeno la sua autorità non è assoluta e tale da compromettere la posizione
dell’imperatore come comandante supremo. Il suo mandato contemplava anche dei
limiti, come per esempio il dovere di ricorrere agli ordini imperiali,
l’impossibilità di liberare prigionieri di alto rango se non su ordine
imperiale, , doveva raccogliere i contributi per il mantenimento dell’esercito
in osservanza delle norme vigenti nei territori etc., era affiancato inoltre da
un commissario imperiale addetto all’amministrazione dell’esercito, da un
commissario politico e da un deputato dell’imperatore come organizzatore del
servizio segreto di informazioni. W. pertanto non era indipendente anche se la
sua influenza politica andò crescendo. Ciò era implicito nel fatto che nella
istruzione con cui gli era stato dato il comando militare era ammessa una certa
flessibilità data dalla necessità che il comandante si adeguasse alle
circostanze. Dato tutto ciò ci si può ancora domandare fino a che punto W.
aveva pieni poteri. Nel primo generalato egli è solo comandante generale e appare
come un dittatore solo perché lo scopo militare sovrasta in determinati momenti
tutto il resto, apparendo egli allora un commissario d’azione con pieni poteri
limitati solo dall’obbiettivo da conseguire. Tuttavia giuridicamente egli non
era un dittatore perché egli non riceve dall’imperatore una piena
discrezionalità, per esempio non poteva intervenire sui diritti di terzi o dei
ceti. Se l’imperatore avesse autorizzato W. a prendere sempre tutte le misure
del caso senza riguardo a eventuali diritti, W. sarebbe diventato un dittatore,
ma l’imperatore non fece ciò. Grazie alle vittorie di W. l’imperatore arriva a
pensare di fare dell’impero uno Stato con un sovrano assoluto. In questa
direzione va la volontà imperiale di
trasferire tutti gli eserciti sotto un unico comando. Ma i principi cattolici
erano ben lontani da accettare che la potestà imperiale in tempo di guerra si
tramutasse in una sovranità elettiva. Essi dunque si oppongono a W. e anzi
sostengono che semmai il comandante dell’esercito deve essere il principe di
Baviera. La controversia finisce con il prevalere dei principi sulla volontà
imperiale: W. è licenziato e la carica di comandante è data a Tilly, mentre una
parte dell’esercito viene sciolta.
Per il secondo
generalato (1631-1634) abbiamo un documenti non autentico ma comunque
significativo sulle istruzioni date a W. Si tratta di un capitolato delle condizioni alle quali
W. assunse il suo compito. Sono 10 punti in cui si parla del tipo di comando
che gli viene dato e della contropartita in denaro ma anche in dignità elettorale
e in titoli che viene pattuita. In tale documento non c’è alcu elemento che possa far pensare a
una dittatura. Si tratta appunto di un contratto per un comando militare che
non implica facoltà politiche. L’impero non si priva mai dell’”arbitrium belli et pacis” che fa parte
del suo jus maiestatis. Straordinaria
nel secondo generalato di W. è l’autonomia del comando militare e il tipo di
ricompense, non la dittatura che vi sarebbe stata solo se quanto attribuito a
W. avesse significato uno stato di eccezione. Ciò anche se i poteri militari in
casi di emergenza possano apparire dittatoriali, in particolare quando si
estende il criterio di “opportunità”, cosa che appare normale a W., che fece di
tale criterio l’elemento per esprimere in libertà le sue eccezionali doti di
organizzatore. Tuttavia, malgrado W. avesse nel suo temperamento tendenze a
fare delle sue facoltà di confisca uno strumento dittatoriale, l’imperatore
stesso, non si sentiva autorizzato ad agire esclusivamente secondo criteri
tecnico-pratici, non osando approfittare dello stato di guerra, forse per
timore della stessa enorme influenza di W. Faceva parte di arcana imperii il
consiglio di evitare di rendere un sottoposto troppo potente (ciò vale anche
nei confronti di Massimiliano di Baviera). L’imperatore si appella all’idea del
“rispetto del diritto vigente”. Se egli non si avvale di diritti eccezionali,
tantomeno questi vengono trasferiti a W. Ciò ha conseguenze anche sul
successore Ferdinando III che sarà obbligato a consultare i principi anche in
caso di necessità, soprattutto per i provvedimenti di proscrizione,, in modo
tale che egli, come osserva Limnaeus, pur vedendo riconosciuto il diritto di
agire in stato di necessità, non può fare un uso arbitrario di tale dispositivo
giuridico per estendere i suoi poteri.
CAPITOLO TERZO
IL PASSAGGIO ALLA DITTATURA SOVRANA
DELLA DOTTRINA DELLO STATO DEL 18º SECOLO
In Francia il sovrano
assoluto governa per mezzo di commissari - i cosiddetti intendenti - come per
esempio lo era il responsabile dell’amministrazione di una generalità, di una
provincia o di un dipartimento. La nomina dei commissari veniva fatta dal controllore
generale delle finanze e, per le province di frontiera, su consiglio del
ministro della guerra. Vi erano diverse facoltà a seconda della commissione ma
in generale il commissario aveva il compito di sorvegliare tutto quanto
riguardava l’amministrazione della giustizia, la polizia, le finanze, l’ordine
pubblico e tutto ciò che concerneva il bene dello Stato. Doveva anche inviare
resoconti al re o al consiglio e poteva istruire indagini e perizie ma non
processi (poteva solo vigilare sul loro andamento). Con il suo subdelegato
mediava con gli insorti o con i lavoratori in sciopero, facendosi dare poteri
straordinari e intervenendo con la forza solo in casi estremi. Quest’ultima
attività veniva a volte chiamata “una specie di dittatura”. L’appello contro
l’intendente non sospendeva le sue misure, i suoi subdelegati erano dominati e
in ogni momento revocabili. Fatale diveniva l’attrito tra l’intendente e le
corporazioni locali che mal sopportavano la centralizzazione del potere. Gli
attacchi contro gli intendenti, come ricorda il marchese di Saint Simon,
insistevano sul fatto che essi erano come dei Trenta tiranni. Inoltre la
burocrazia creava una barriera tra le istanze locali e il re. I tributi imposti
dal re senza l’approvazione dei ceti offrivano anche margine all’arbitrio della
distribuzione della riscossione. Contro il commissario del re continuamente
erano levate rimostranze da parte delle istanze intermedie.
Anche il conciliarismo
nella Chiesa rappresentava un analogo delle rimostranze dei ceti contro
l’imperatore: era una sorta di rimostranza dei vescovi contro la plenitudo
potestatis papale.
Similmente ma con
diverso risultato i ceti dell’impero germanico avevano sostenuto che la
sovranità non era dell’imperatore, ma dell’impero di cui l’imperatore non era
che una parte; ora anche i parlamenti francesi sostenevano che il re non è
fuori dello Stato ma una parte del regno. In generale si può dire che in
Francia l’importanza dei ceti sotto i re assoluti è molto più grande che sotto
l’assolutismo di Napoleone. Per Bonald la monarchia e i corpi intermedi sono la
stessa cosa. Montesquieu su questi temi entra in conflitto con l’illuminismo
difendendo i poteri intermedi.
Montesquieu
Per Montesquieu i
poteri intermedi sono essenziali in un governo monarchico che osserva le leggi
fondamentali. Essi sono l’istanza mediatrice attraverso la quale il potere
statuale fluisce in modo da impedire manifestazioni arbitrarie della volontà
dello Stato. Egli ritiene che la nobiltà, la giurisdizione signorile, il clero,
le corti giudiziarie indipendenti, cioè i parlamenti francesi, rappresentino
ostacoli intermedi allo strapotere dello Stato. Contro tali ostacoli si colloca
il consiglio del principe che invece segue solo la volontà del sovrano. La
visione di Montesquieu si oppone alla teologia politica illuminista che vede lo
Stato come un meccanismo perfetto governato da un legislatore razionale (che
dunque non ha bisogno di nessun ostacolo alla realizzazione dei suoi fini,
n.d.r.). Di contro Montesquieu usa l’immagine concreta della bilancia come
fondamento del suo liberalismo. L’idea è quella di congegnare un sistema di
controlli, freni e legami scambievoli: il potere frena il potere (sesto
capitolo dell’11º libro dello Spirito
delle leggi). Dalla bilancia viene anche la possibilità di un’opposizione
al re, o di un conflitto re-parlamento, che può risolversi anche con una
dittatura. Ma la bilancia è fondata sull’idea di una unità dello Stato per via
di equilibrio, contro ogni turbamento dittatoriale. Per questo ogni strapotere
politico sproporzionato rappresenta il nemico (quello stesso strapotere
invocato da Cromwell contro il Parlamento lungo, o da Bolingbroke – uomo
politico tory vissuto 1768-1751 e diveniuto fautore di un regime che eliminasse
i partiti - contro il predominio wigh nel Parlamento). In Montesquieu la
bilancia e i corpi intermedi contro lo strapotere del re sono coerenti con la
tradizione dello Stato organizzato per ceti. Ciò implica anche il rifiuto della
democrazia diretta perché in essa il popolo detiene una potenza immediata. Il
dispotismo consiste nella soppressione della bilancia in cui lo Stato esercita
un potere non mediato da un organo apposito che non si può saltare. Ciò implica
il venir meno della protezione della libertà del cittadino dal potere dello
Stato. Tale protezione non è garantita dalla legge bensì dalla separazione e
dal reciproco controllo tra i poteri e dall’impossibilità di modificare la
legge una volta che è emanata. Anche per il filosofo francese astrattamente la
sovranità è un tutto, tuttavia concretamente a ogni organo deve spettare una
facoltà circoscritta. L’esistenza di una istanza ultima cioè di una competenza
sulla competenza, sarebbe la fine di ogni competenza effettiva e l’inizio del
dispotismo. Trattando della dittatura Montesquieu ripete le tradizionali
dottrine sulla dittatura commissaria a Roma e insiste sul suo essere strumento
dell’aristocrazia che vede minacciato il proprio potere e decide di affidare ad
un singolo cittadino facoltà illimitate. Anche nella monarchia vi è un potere
esorbitante e in via di diritto illimitato del re, tuttavia di fatto esso è
limitato dai corpi intermedi. La dittatura può essere consigliabile in
determinati contesti per lo Stato aristocratico.Però in condizioni ideali non
si dà dittatura se non per breve tempo e solo relativamente all’arresto di
cittadini sospetti. Per quanto riguarda Roma, Montesquieu capisce con il suo acume
storico il ruolo dei commissari nel passaggio dalla Repubblica al cesarismo,
per esempio nelle commissioni straordinarie ottenuto da Pompeo e Silla che
implicano un potere illimitato per ristabilire l’ordine. Ma appunto con tale
pretesto si trasforma il potere in dispotismo. È vero che alcune volte bisogna “mascherare
la libertà”, ma tale detto riguarda l’ammissibilità di una attainder bill, cioè di un atto legislativo che dichiara una
persona o un gruppo colpevole di un crimine e li punisce senza processo. Tale
atto implica la rinuncia all’aspetto fondamentale di generalità che deve avere
una legge, aspetto di cui Montesquieu è assolutamente consapevole. Tuttavia
benché la legge sia generale e questo, insieme al fatto che deve essere
antecedente ai fatti, è importante per la certezza del diritto, la garanzia
della libertà è conservata perché essa non sta nella generalità della legge o
in qualche sua altra caratteristica bensì nella presenza di poteri intermedi.
Su questo tema vi è la famosa riflessione sul potere giudiziario come qualcosa
di invisibile e nullo, in quanto sottoposto alla volontà generale che ha
determinato la legge: ciò non significa che i magistrati siano degli automi di
sussunzione bensì semplicemente ha come riferimento il modello dei giurati
inglesi è quello di un corpo non permanente e quindi meno visibile degli altri
poteri.
Voltaire, gli
economisti e altri illuministi assolutisti
Nemmeno Voltaire
porta fino in fondo la dottrina illuministica della dittatura della ragione
illuminata. Egli è d’accordo con lo Stato centrale come macchina razionale
avversa ai poteri intermedi ma non è un assolutista al 100%. D’altro canto sa
riconoscere troppo bene i lati positivi di una democrazia ed è diffidente verso
la psicologia assolutistica della naturale malvagità dell’uomo. Presso il
gruppo dei filosofi economisti e fisiocrati - Quesnay, Dupont de
Nemours, Baudeau, Senac de Meilhan - predomina un’idea di fondo che è il
risultato della comune avversione per i poteri intermedi storici e della fede
comune nel potere di una burocrazia illuminata: il pensiero naturale e
razionale può sviluppare una giustizia e un ordine politico universalmente
validi che spetta allo Stato mettere in atto. La monarchia è necessaria per
giungere alla libertà contro i poteri intermedi. Ma data la sottomissione alle
leggi dello sviluppo economico, non sono necessari limiti al potere statale. È
indispensabile il dominio di una autorità illuminata fino al compimento
dell’educazione del popolo all’uso della ragione. La ragione sarà in grado di
controllare il governo meglio di qualsiasi istanza costituita. Allo stesso modo
Turgot ritiene dannosi corpi intermedi quando è in gioco l’utilità pubblica. Le
Mercier de La Riviere (L’ordine naturale
e l’essenziale delle società politiche, 1767) ritiene che ci sia un
dispotismo legale, cioè un dispotismo della retta ragione contro colui che non
la possiede e contro le passioni. In questo senso la separazione di legislativo
ed esecutivo indebolisce la forza della ragione che invece deve essere dotata
di un potere irresistibile per consentire la transizione ad uno stato di cose
in cui le leggi naturali si imporranno da sé la cui giustificazione stia
nell’evidenza razionale stessa. Questa dittatura della ragione ha il suo
fondamento in una distinzione tra il filosofo illuminato e il popolo da
illuminare e ciò impedisce di dedurre i poteri dello Stato dalla volontà
popolare, cosa che altresì fonderebbe una dittatura legittimata dal basso.
Anche presso i fautori di una radicale eguaglianza, come il Cerutti
collaboratore del giovane Mirabeau, è contemplata la forza di un potere
centrale in grado di imporla contro i poteri intermedi. Morelly (Il codice della natura, 1755) dal canto
suo ritiene che la bontà originaria dell’uomo è stata corrotta dalla società
organizzata per ceti. Contro la sua ingiustizia è necessario il dispotismo,
mezzo fondamentale per realizzare l’uguaglianza. Lo Stato appare qui come un
pedagogo onnipotente.
La posizione complessa
di Mably
In Mably troviamo invece una teoria dei
contrappesi. Certo solo una forte monarchia può eliminare il dominio di una
classe o di un partito e promuovere l’uguaglianza generale, ma va rifiutato al
contempo il dispotismo della ragione. Infatti l’evidenza della ragione non è
mai del tutto evidente per colpa delle passioni che sono presenti per natura
anche nei governanti. Nei loro confronti quindi sono necessarie garanzie. Si
tratta di un ribaltamento liberale della dottrina assolutistica della naturale
malvagità umana. Da questa dottrina segue che il governo è Stato sono mali
inevitabili e che quindi bisogna contenerli entro il minimo indispensabile. Per
Thomas Paine la società nasce per soddisfare bisogni e per sviluppare la
convivenza razionale degli uomini, lo Stato invece è il prodotto dei nostri
vizi. Mably non arriva a tanto ma sullo Stato nutre le medesime preoccupazioni
degli americani. Secondo lui esiste sempre il pericolo che il detentore del
potere, cioè l’esecutivo, sia spinto dalla brama di potenza a sopraffare gli
altri organi. Quindi, se è vero che i poteri intermedi sono negativi egli
ritiene che non si possa raggiungere alcuna unità politica senza condizioni di
vita che siano in generale di uguaglianza. In tali condizioni i cittadini
partecipano al legislativo che è diviso dall’esecutivo per evitare che nasca un
magistrato universale cioè un despota. Commissioni speciali del legislativo
controlleranno la persistenza dell’equilibrio, senza che però l’autore si
accorga del fatto che queste commissioni possono trasformarsi in esecutivo e
quindi una nuova forma di potere dispotico. L’avversione per l’esecutivo è
passata da Mably alla Rivoluzione francese. È tuttavia nella convenzione
nazionale che le istanze di controllo si trasformano in un potere autonomo,
cioè nella dittatura della convenzione nazionale. In Mably la dittatura
sospende le funzioni degli altri organi: essa è il potere assoluto di fronte a
cui scompare ogni altra competenza esistente. Egli la ritiene necessaria perché
le leggi con il tempo si corrompono e loro la corruzione diventa troppo grande.
Il dittatore gli appare chiaramente una sorta di commissario di riforma,
provvisto di poteri limitati da esercitare nei confronti dell’organizzazione
statuale nel suo complesso. Se la dittatura viene esercitata dei rappresentanti
del popolo a suo nome ciò vuol dire che è, come quella della Convenzione
nazionale, una dittatura sovrana.
Rousseau
La sua idea di
dittatura contenuta nel “Contratto sociale” è indizio di una novità per ragioni
diverse. Nel libro IV capitolo 6, egli sulla dittatura ripete cose
apparentemente superficiali, inserendovi però importanti, quantunque poco
apparenti, novità. Il libro in questione, irto di contraddizioni, è sintomo
della crisi in cui si dibatteva l’individualismo europeo nel punto in cui esso
si ribaltava in assolutismo e il suo postulato della libertà in terrore. Per
Gierke il punto di partenza del “Contratto sociale” è la libertà individuale,
incondizionata, naturale e inalienabile. L’obiettivo dello Stato è quello di
essere un luogo dove nessuno non sia libero e l’individuo non sacrifichi la
benché minima parte della sua libertà. Come attuare questo sistema? Bisogna
unirsi ad altri in società per proprio libero consenso in modo che ciascuno non
faccia che obbedire a se stesso, rimanendo libero come prima. Ma libertà è
diverso da assenza di legami. Il legame nello Stato di Rousseau è contrattuale.
Il contratto stipulato all’unanimità decide la nascita della società, dove poi
la maggioranza vince sulla minoranza. La maggioranza è quella che costituisce
la ratio cognoscendi (n.d.r.) della
libera volontà generale. Nella società, di fronte all’individuo, c’è solo la
volontà generale. Tra lo Stato e l’individuo non c’è nessuna rappresentanza. Il
contratto di nascita dello Stato in Rousseau implica sono unione, così come
quello di Hobbes implica solo sottomissione. Il risultato di entrambi i casi è
che l’individuo lo Stato si trovano direttamente di fronte senza mediazioni. Ma
in Rousseau c’è un’altra conseguenza di questa visione circa i rapporti
individuo-stato. All’interno del giusnaturalismo abbiamo due versioni:
1) l’individuo è una
realtà concretamente esistente a prescindere da qualsiasi organizzazione e
forma sociale e si pone come ciò che è per principio illimitato di fronte ad
uno stato per principio illimitato. Questo è il caso del giusnaturalismo della
giustizia e di Locke.
2) i rapporti del punto
uno sono completamente capovolti. Questo è il caso di Hobbes.
In Rousseau ognuno
mette in comune la persona e le facoltà proprie sotto la direzione sovrana
della volontà generale. In cambio egli viene accolto nella comunità come membro
indivisibile del Tutto. Come si configura questo Tutto che nasce dall’unione
degli individui? Esso è un Io collettivo dotato di vita e volontà propria, che
ha ricevuto dall’individuo tutto ciò che possiede per restituirglielo in modo
che ora lo possegga a pieno titolo. Egli dunque ha potere su tutti gli
individui. L’uomo deve essere privato di tutto: esistenza, vita e forza, perché
gli sia restituito dallo Stato. Tutto quanto appare come esigenza della unità
sociale è perciò stesso giustificato, toccasse pure le convinzioni religiose.
Ogni indipendenza che non si risolva in quella dello Stato è qualcosa di
sottratto a esso. La volontà generale è la volontà del sovrano e costituisce lo
Stato comunità. È altresì ciò che per il solo fatto di esistere è ciò che deve
essere: essa è sempre retta, non può errare, coincide con la ragione stessa; è
imperitura, immutabile, pura. Per contro la volontà individuale o particolare
in quanto tale è pari a zero. “Particolare” per Rousseau, come “privato” in
Hobbes, suona quasi un’offesa. Diventa quindi illegittimo il solo fatto di
porsi il problema dei diritti inalienabili dell’individuo e di una sfera di
libertà sottratta alla presa della volontà generale sovrana. Il problema è
semplicemente eliminato dall’alternativa: o l’individuale è in armonia con il generale
e quindi ha un valore, oppure non è in armonia e allora è pari a zero, cattivo,
corrotto non rappresenta una volontà degna di rispetto né moralmente né
giuridicamente. Pertanto non ha senso la divisione dei poteri di fronte alla
volontà generale. La volontà generale è la volontà razionale che tutti devono
possedere. Il governo si limita a eseguire la volontà generale. Il governo ha
il compito di eseguire le leggi. È la potenza che traduce in pratica la volontà
della legge: è il braccio della legge, la forza applicata alla legge.
Monarchia, aristocrazia, democrazia sono forme dell’esecutivo, mentre al
legislativo appartiene alla volontà generale del popolo, è cosa del popolo.
Quest’ultima è generale quanto al soggetto, cioè procede da tutti ed è da tutti
posseduta in quanto cittadini. È generale quanto al fine cioè l’utilità
pubblica. È generale quanto alla fattispecie perché non contempla casi singoli
eccezionali e si rifà ad un concetto astratto di legge. Nella generalità c’è la
sua giuridicità e normatività. Non vi possono essere istituti che rappresentino
la volontà generale. La volontà generale possiede determinate qualità di valore
che ci sono o non ci sono: non esiste via di mezzo. La logica conseguenza di
questo principio può essere la soppressione pura e semplice della democrazia:
occorre infatti tener presente che secondo il contratto sociale la volontà
generale è indipendente dalla forma di governo. Gli individui possono
ingannarsi sul contenuto della loro volontà, quando il loro volere sia
soggiogato dalle passioni e quindi privo di libertà (cfr. lo stoicismo). È
pertanto vero che essa può invece essere posseduta da una minoranza o da uno
solo (solo in Corsica ci sono le condizioni storiche e sociali per una
democrazia diretta). Infatti in Rousseau volontà, interesse, popolo sono entità
morali e non fattuali. In un popolo di schiavi l’unanimità non dimostra di per
sé che esista una volontà generale. Tutto in Rousseau è sovrastato dal pathos della virtù. Solo chi è
naturalmente buono è anche libero e ha diritto di definirsi come popolo e identificarsi
con esso. L’avversario politico è un essere moralmente corrotto, uno schiavo
che va reso inoffensivo. Se la maggioranza è preda della corruzione, è lecito
usare mezzi coercitivi per ricondurla alla virtù. Ecco allora la dittatura e il
dispotismo della libertà. Il pathos
più radicale della libertà può saldarsi con la più spregiudicata oppressione di
fatto dell’avversario: ma è appunto una oppressione di fatto e non morale.
L’opposizione fra diritto e potestà, che finora era stata l’insegna del diritto
conculcato contro la potestà dominante, serve adesso alla minoranza vittoriosa
per opporre diritto e maggioranza. Ciò fino a quando in uno Stato in cui tutti
sono liberi, tutti i non liberi sono stati eliminati. In modo diretto la
trattazione della dittatura in Rousseau è nella linea della tradizione. C’è una
dittatura tipica nella quale le leggi “dormono”, che da Rousseau è contemplata
sebbene sia difficile pensare come le leggi che rispondono al criterio della
volontà generale possono essere sospese e con quale autorità. Però accanto a
questo tipo di dittatura c’è una dittatura per concentrazione di competenze a
diritto vigente. Questo tipo di dittatura è come uno stato d’assedio in cui
tutte le competenze passano all’esecutivo e quindi può accelerare nell’applicazione
della legge. In ogni caso la dittatura è definita da Rousseau come una
commissione. Il commissario verso lo Stato ha appunto solo doveri e la
commissione non implica mai diritti acquisiti. Lo stesso esercizio del potere
statale è una commissione. In democrazia tutti gli uffici non sono per diritto
ma per un compito affidato dalla volontà generale. Il governo stesso media la
volontà generale e non ha alcuna autonomia nei suoi confronti. Il governo
dunque è una commissione, mai può essere considerato effetto di un contratto.
Il contratto fa nascere diritti da entrambe le parti, mentre in Rousseau non
c’è alcun diritto di fronte al popolo sovrano. Il concetto di commissario, che
è un prodotto dell’assolutismo e contraddice tanto le concezioni giuridiche medievali
quanto il giusnaturalismo della giustizia, viene applicato da Rousseau al
rapporto tra principe e popolo, con questa peculiarità che ora è il principe a
figurare come commissario. Quello che il popolo fa e vuole è soggetto
unicamente al suo arbitrio e colui che ha il compito di conseguire gli scopi
rispondenti alla volontà del popolo non può essere se non commissario. Nulla
rivela l’assolutismo statale di Rousseau come la riduzione della attività dello
Stato ha un complesso di funzioni commissario. Il dittatore vero e proprio
detta legge dall’esterno, però, essendo commissario, è a sua volta soggetto
all’interno a qualcuno che gli detta le leggi. A questo punto il “contratto
sociale” che presenta un’altra figura interessante, il Legislatore. Egli è una
persona saggia e di nobili sentimenti che si colloca fuori e prima della
costituzione (mentre il dittatore sospende solo il diritto vigente
costituzione). Suo compito è progettare una legge che poi verrà sanzionata
dalla volontà generale per mezzo di una sorta di referendum. Tuttavia gli
uomini sono in genere egoisti e propensi unicamente a loro vantaggio
particolare; d’altro canto, però, per correggerli non c’è che quella legge che
deve essere sottoposta alla loro approvazione. Ne deriva che deve esistere
un’autorità di natura completamente diversa cui il legislatore possa fare
appello, in poche parole una missione di ordine divino. Il legislatore è una
grande anima in senso filosofico. Il genio, l’uomo eccezionale che promuove la
legge sotto l’impulso di un’ispirazione. Il problema è se questo può da solo a
garantire un risultato positivo nella votazione popolare. Questo è il nocciolo
della questione, ma non se ne fa parola. Quindi il legislatore è qualcosa di
straordinario: né magistrato, né sovrano, niente di preciso insomma, perché la
sua funzione appunto quella di costruire lo Stato, dal quale soltanto nascono
quei concetti. Contenuto della sua attività è diritto ma senza forza e privo di
potenza. La dittatura è onnipotenza senza legge potenza senza diritto.
L’opposizione tra diritto senza potenza e potenza senza diritto portata qui a
tale estremo che non può non svolgersi nel suo contrario. Il legislatore sta
fuori dello Stato ma dentro il diritto. Il legislatore semplicemente diritto
non ancora costituito, il dittatore semplicemente potenza costituita. Se
stabilissimo una connessione capace di conferire al legislatore la potenza del
dittatore, di creare cioè un legislatore dittatoriale e un dittatore che detti
la costituzione, avremmo allora il passaggio dalla dittatura commissaria alla
dittatura sovrana. Ora questa connessione viene stabilita da un’idea, quella di
potere costituente, che rientra nel suo contenuto nella logica del “contratto
sociale” ma non vi ha ancora definito come un potere speciale.
CAPITOLO QUARTO:
IL CONCETTO DI DITTATURA SOVRANA
Cromwell
Nel quarto libro del Contratto sociale Rousseau concepisce
ancora la dittatura come dittatura commissaria che implica l’esistenza previa
di una costituzione. Nemmeno Mably con il concetto di dittatura di riforma riesce pienamente a fare luce sulla differenza
tra dittatura commissaria e dittatura sovrana. Nel medioevo il problema del
rapporto tra le due non si poneva perché sempre si legava la sorgente del
potere a un organo costituito. Nei monarcomachi, viceversa, vi è l’idea che le
autorità costituite siano sostenibili da qualcuno senza ufficio costituito,
purché a Deo excitatus. Tuttavia ciò
è più teorico e pratico e lo si vede in Cromwell il quale è ben lungi
dall’accogliere quello che pur si diceva all’interno del mondo del puritanesimo
radicale e cioè che il popolo è la sorgente di ogni potere politico. Nell’Agreement of the people del 1647,
divenuto famoso come primo progetto di costituzione democratica in senso
moderno, vi è un orientamento che Cromwell accolse parzialmente, per poi
reprimere i loro autori, cioè il gruppo dei Levellers, considerandoli un branco
di fanatici e disconoscendo il suffragio universale nonché il popolo come fonte
di ogni potere. Cromwell era dittatore su commissione del Parlamento lungo, ma
se ciò fosse stato vero la fine del Parlamento lungo avrebbe dovuto
corrispondere alla fine del potere di Cromwell. Invece accade il contrario: nel
1653, sciolto il Parlamento lungo, Cromwell si autoqualifica Lord protettore mediante l’“Instrument of government”che offre ampia
autonomia all’esecutivo. Nel 1655 scioglie anche il Parlamento convocato in
base all’Instrument; promuovendo nel
1656, mediante un terzo Parlamento, una costituzione in cui egli diveniva Protettore a vita e acquisiva il diritto
di nominare un successore. Ciò nondimeno egli nel 1657 rifiuta di acquisire il
titolo di re d’Inghilterra e, dopo aver sciolto nel 1658 anche il terzo
Parlamento, continua a governare fino al settembre di quell’anno senza
Parlamento. Cromwell di fatto è un sovrano
dal momento in cui viene sciolto il Parlamento lungo e l’Instrument of government può essere senza dubbio considerata una
costituzione ottriata. Con lo scioglimento del Parlamento lungo ha luogo la
vera e propria rivoluzione, quello che accadde dopo è un tentativo di definire
la sovranità di Cromwell. Benché abbia governato dal 1655 con l’aiuto dei suoi
generali non si può parlare strettamente di dittatura militare, perché i
generali erano strettamente dipendenti, in quanto commissari, da Cromwell
stesso e quest’ultimo ne sospese le funzioni nel 1656. Quella di Cromwell è una
dittatura sovrana? La risposta può essere positiva solo se per dittatura si
intende la semplice soppressione della divisione dei poteri e tuttavia in
questo modo il concetto di dittatura perde ogni carattere distintivo. Se per
dittatura di concepisce viceversa la soppressione delle istanze intermedie, il
concetto va a sovrapporsi a quello di centralismo. Se si piglia come
riferimento l’organizzazione militare, allora dittatura è ogni sistema fondato
su una rigida disciplina. Se per dittatura si intende il cesarismo proveniente
da un colpo di Stato che si oppone alla monarchia legittima, Cromwell e
Napoleone sarebbero dittatori già solo per il fatto di essere generali.
(Se Cromwell va
considerato un dittatore sovrano bisogna tener conto dei fattori che
costituiscono la dittatura sovrana, in particolare si può anticipare che manca
a Cromwell l’accettazione del riferimento giuridico al potere costituente del
popolo, cui si sostituisce la excitatio a
Deo, n.d.r.)
La dittatura
In realtà per capire il
concetto di dittatura bisogna tener presente in essa il potere a un carattere
di “azione per produrre un determinato stato di cose” in virtù della quale si
sopprimono i limiti legali. Per questa ragione non è dittatura uno stato
militare o di polizia. Alla dittatura è invece connessa l’idea di un avversario
concreto la cui eliminazione diventa lo scopo specifico dell’azione. Il nemico
è una presenza immediata e oggetto immediato dell’azione della dittatura.
Potrebbe giuridicamente essere istituito un legame tra dittatura e legittima
difesa: entrambe affrontano abbattono un pericolo attuale con un atto che è sia
di azione sia di reazione. Tuttavia questi chiarimenti non ci forniscono ancora
un criterio per distinguere dittatura commissaria e dittatura sovrana.
Dittatura commissaria e
sovrana
Allora bisogna dire che
la dittatura commissaria sospende una costituzione per difenderla. Il dittatore
deve creare uno stato di cose che consenta l’applicazione del diritto. La
costituzione quindi può essere sospesa senza cessare di rimanere in vigore
perché la sospensione significa unicamente un’eccezione concreta. La dittatura
sovrana invece vede in tutto l’ordinamento esistente uno stato di cose da
rimuovere completamente con la propria azione. Essa non sospende una
costituzione vigente facendo leva su di un diritto da essa contemplato, e
perciò costituzionale, bensì mira a creare uno stato di cose il quale sia
possibile imporre una costituzione ritenuta quella autentica. In altre parole
la dittatura sovrana si richiama non a una costituzione già in vigore ma ad una
ancora da attuare. Essendo quest’ultima non esistente, si tratterebbe allora di
una questione di forza pura e semplice assenza di diritto? No perché ogni
costituzione ha un nesso inscindibile e giuridicamente rilevante con il potere
costituente. Il dittatore può rimanere sovrano pur ammettendo la sua dipendenza
da quella fonte di ogni potere costituito che è il potere costituente. Infatti
il potere costituente, pur essendo fonte di ogni potere costituito e di ogni
esercizio del potere, non può costituirsi. Esso può solo rendere qualcun altro
sovrano. Questo altro sarà sovrano in dipendenza dal potere costituente,
rappresentando per così dire la sua voce, che altrimenti non può farsi sentire.
Il sovrano può rimanere tale proprio perché non c’è un altro potere costituito
che minacci la sua sovranità, bensì solo il potere costituente che è muto e inattivo
finché non prende vita in un potere costituito. Quindi anche la dittatura
sovrana si riferisce ad un contesto giuridico cioè alla legittimazione in un
potere costituente, che tuttavia non si identifica con un riferimento fisso. Infatti
il soggetto rispetto a cui il dittatore sovrano è commissario è il popolo, la
cui volontà non si può precisare se non attraverso il suo rappresentante.
Il potere costituente
secondo Sieyès
L’idea di un potere costituente viene da
Sieyès e dal suo scritto sul “Terzo stato”. Per lui fondamento dei poteri
esistenti è la costituzione: non c’è potere costituito che può dirsi al di
sopra della costituzione. Ma fondamento della costituzione è il potere
costituente: tutti i poteri ne dipendono. Esso è per principio illimitato e non
soggetto alla costituzione che è la sua fonte. Non è pensabile alcuna
coercizione nei confronti del potere costituente: gli stessi diritti
inalienabili dell’uomo sono privi di oggetto là dove regna la “volontà
generale” (Rousseau, qui sembrerebbe che il potere costituente sia una potenza
assoluta). Il popolo, come titolare del potere costituente, non ha vincoli e
può darsi la costituzione che gli pare più conveniente. La costituzione è
inviolabile non perché il popolo non la possa modificare o scegliere, ma perché
gli organi costituiti e le legislazioni ordinarie debbono obbligatoriamente
farvi riferimento.
Jellinek e il circolo
vizioso tra Stato e organi dello Stato
Se se si accettano le
teorie - come quella di Jellinek - secondo le quali lo Stato esiste solo nei
diversi organi che esprimono una qualche competenza legislativa, esecutiva,
giudiziaria, e non esiste una volontà dello Stato al di là dei suoi diversi
organi, anche il potere costituente sarà costretto entro i limiti delle
competenze dei diversi organi e quindi dovrà avere per sua natura una potenza
limitata. Questo, nonostante le teorie in oggetto cadano in un circolo per cui
lo Stato che si esprime solo nei vari organi ed è considerato solo il sostegno
dei vari organi, in realtà è sostenuto dai suoi organi e non esiste se non nei
suoi organi. Così “l’assoluta mediazione attraverso i vari organi viene a
identificarsi con l’assoluta immediatezza della volontà che si manifesta
nell’organo statuale: dietro gli organi non sta alcuna persona sono essi lo Stato
che esprime la sua volontà” (pag.178).
Sieyès e
l’illimitatezza produttiva del potere costituente
Ciò è molto differente
dalla dottrina del potere costituente dalla quale origina la volontà dello
Stato che si esprime attraverso la costituzione, la quale affida competenze ai
diversi organi, ma che emerge, quale suo
fondamento, dal potere costituente del popolo, evitando così il circolo vizioso
tra Stato e organo dello Stato. Contro
lo Zweig che fa della dottrina del potere costituente il tentativo di
formalizzare giuridicamente e razionalmente la costruzione dello Stato, che
altrimenti sarebbe un puro dato di fatto (ciò è considerato da lui il culmine
del razionalismo illuminista, mentre in realtà tale culmine sta nel tentativo
di Condorcet di razionalizzare il diritto di resistenza mediante una
regolamentazione giuridica); contro di lui bisogna dire che la teoria di Sieyès
è la ricerca di un principio organizzatore non organizzabile della convivenza
civile e politica. Il suo rapporto con il potere costituito è analogo al
rapporto in Spinoza tra natura naturans e natura naturata. Tale dottrina
considera il popolo il soggetto di un potere illimitato infinitamente produttivo
che non si costituisce mai da solo ma costituisce sempre l’altro da sé, e che
coincide con la nazione la quale, come tale, rimane sempre nello stato di
natura. La nazione nello stato di natura a solo diritti e niente doveri, mentre
i poteri costituiti hanno solo doveri e niente diritti.
Il potere costituente
può essere rappresentato a mandato libero
A questo però Sieyès
congiunge l’ammissione di una rappresentanza. I rappresentanti, come i deputati
dell’assemblea del 1789, non fungono semplicemente da legati o trasmettitori di
una volontà già determinata poiché anzi sono essi stessi a darle forma. E
tuttavia pur essendo la volontà del popolo priva di contenuti, il
rappresentante nei dipende assolutamente. Questa dottrina, opposta alla
razionalismo, prelude alla filosofia del 19º secolo in cui Dio è posto al
centro del mondo come qualcosa di oggettivamente oscuro, così come potere costituente
informe eppure produttore di forme sempre nuove è al centro della vita dello
Stato. Ogni organo statale è commissario rispetto al potere costituente del
popolo, che può intervenire in ogni momento in tutta la sua pienezza. La
dipendenza del commissario dal mandante implicherebbe un mandato imperativo, ma
ciò è escluso perché la volontà del popolo non ha mai un contenuto preciso. I
rappresentanti sono dunque dipendenti ma il loro mandato non può essere
specificato in una serie di contenuti precisi. Unico contenuto è la
concretizzazione generale e fondamentale che è il progetto di costituzione. I
rappresentanti cioè devono fare la costituzione. Si distinguono quelli
ordinari, cioè quelli previsti dalla costituzione e che sono tali in virtù di
una legge, da quelli straordinari che esercitano immediatamente il potere
costituente e possono avere qualsiasi potestà.
Può esserci un
impedimento all’esercizio del potere costituente del popolo. Esso, può secondo
Bourgeaud, consistere nel disordine stesso che esige un potere rivoluzionario
che emani una carta provvisoria, la quale garantisce le condizioni minime
perché possa essere ristabilito l’ordine costituito un governo; oppure lo
stesso ordine vigente può essere considerato come un impedimento all’esercizio
del potere costituente e questo diventa un motivo di sempre nuove rivoluzioni.
In tutti i casi abbiamo una commissione d’azione come per la dittatura
commissaria e una dipendenza funzionale dalla costituzione giusta che però è
ancora da realizzare. Tale costituzione rimane sospesa durante la dittatura
rivoluzionaria che ha il compito di realizzarla. Ma mentre la dittatura
commissaria riceve l’autorizzazione da un organo costituito e possiede un
titolo nel quadro della costituzione vigente, la dittatura sovrana deriva
dall’informe potere costituente soltanto quoad exercitium e immediatamente.
Essa fa appello al popolo sempre presente che può entrare in azione in ogni
momento e quindi avere un peso immediato anche sotto l’aspetto giuridico. Il
potere del dittatore sovrano è tale in via transitoria ma non in virtù di una
commissione d’azione di un potere costituito bensì di una commissione d’azione
di un potere costituente.
La dittatura della Convenzione
nazionale e non del Comitato di salute pubblica
La dittatura della
convenzione nazionale finisce nel giugno 1793 con l’approvazione della
costituzione a suffragio universale. A causa dello stato di guerra e della
controrivoluzione che minacciava la costituzione stessa, la Convenzione
nazionale decise il 10 ottobre 1793 che il governo provvisorio della Francia
fosse rivoluzionario fino a che non fosse giunta la pace. Assolto il suo mandato
di fare la costituzione la Convenzione cessava di essere un organo costituito,
e non esisteva alcun organo che potesse dichiarare la sospensione della
costituzione stessa. La Convenzione agì perciò facendo appello al potere
costituente del popolo supponendo che esso fosse impedito dall’esercizio per
via della guerra e della controrivoluzione. Il suo governo essa lo chiamò rivoluzionario.
La soppressione della divisione dei poteri che, pur non menzionata tra i
principi della costituzione del 1793, il governo rivoluzionario implicava non è
sufficiente a definire il governo rivoluzionario come una dittatura. Ciò non lo
distinguerebbe da un assolutismo, un dispotismo, o una tirannia. Al contrario
ciò che lo definisce una dittatura è l’eccezione rispetto uno stato di cose
ritenuto giusto, nello specifico rispetto alla democrazia o ai diritti di
libertà o alla divisione dei poteri sanciti dalla costituzione.
Condorcet e Barère
sulla dittatura
Una definizione più
soddisfacente che non la pura negazione della divisione dei poteri la troviamo
in un articolo di Condorcet intitolato Sul
significato della parola rivoluzionario
in cui sostiene che il sussistere del contratto statuale, quando esso sia messo
a rischio da qualche circostanza, deve prevalere sui diritti dell’uomo. Il
termine rivoluzionario si addice a uno stato di cose deviante dei principi di
giustizia, caratterizzato da misure di fatto determinate unicamente dalle
circostanze straordinarie. Tra l’altro, arriva anche a definire la legge
rivoluzionaria come una legge di circostanza. Quando Barère propone
l’istituzione di un Comitato di salute pubblica egli chiarisce che tale comitato
non deve ricevere alcuna facoltà legislativa bensì deve restare sempre
responsabile di fronte alla Convenzione. Esso non esercita una dittatura e non
elimina la divisione dei poteri. Al contrario secondo Barère è la Convenzione
nazionale che esercita una dittatura che è necessaria e legittima perché è in
realtà il popolo ad esercitarla su se stesso ed è approvabile da uomini liberi
e illuminati.
Comitato di salute
pubblica e Convenzione
Cionondimeno il Comitato
di salute pubblica che agisce per conto della Convenzione finisce per prevalere
su di essa e governare effettivamente, e infine finisce per esprimere il
predominio di un individuo. Tuttavia bisogna tenere conto che lo stesso
Comitato è posto accanto ad altri comitati come quello “sulla sicurezza
generale”. Inoltre il Comitato di salute pubblica restò sempre finanziariamente
dipendente dalla Convenzione. Infine, nei tempi lunghi, l’istanza decisoria
rimane, come dimostra quello che accade nel Termidoro, appannaggio della Convenzione.
Era la convenzione la sorgente unica dei poteri del commissario del popolo e
alla sua onnipotenza i commissari stessi facevano riferimento quando in
provincia qualcuno proponeva la risibile obiezione della separazione dei
poteri. L’intera loro attività consisteva nel far rispettare il potere della Convenzione
e all’autorità di questa si richiamavano quando in situazioni critiche
procedevano senza mandato e a proprio rischio e pericolo come nel caso del
tradimento di Dumoriez. Ogni autorità statale sviluppatasi in Francia dal 1792
al 1795 con questi caratteri di immediatezza e illimitatezza aveva la sua fonte
della Convenzione nazionale: emanava, come si diceva allora, da essa le cui
facoltà non erano loro volta se non emanazione immediata di un potere
costituente, il potere costituente del popolo che essa stessa riconosceva.
CAPITOLO QUINTO:
LA PRASSI DEI COMMISSARI DEL POPOLO
DURANTE LA RIVOLUZIONE FRANCESE
La dittatura ha il suo
vero sviluppo nell’attività dei commissari, di servizio
(polizia, finanze, imposte), d’affari
(inviati dai ministeri) che poi divengono commissari d’azione
.
Assemblea nazionale
legislativa 1989 (costituente)
…commissari del re
nelle colonie, commissario per reperire luogo di trasferimento dell’assemblea a
Parigi. Dopo Varennes (giugno 1791), l’attività legislativa dell’assemblea è
autonoma; istituzione della Guardia
nazionale (proposta di Mirabeau nel 1789, ufficializzazione ottobre 1791):
commissari per chiudere le frontiere, commissari per sicurezza del re nel suo
ritorno a Parigi; decreto (con carattere commissario) per cui ministri possono
sollevare funzionari militari sospetti;
commissari giudiziari a Parigi sui fatti del 20-21/6/1791 (fuga del re a Varennes).
Assemblea legislativa
1791-20/9/1792
… commissari con ampi
poteri nelle colonie e nelle città francesi, che possono utilizzare la forza
pubblica; nell’agosto 1792 una resistenza a Sedan nei confronti dei commissari
provoca l’arresto delle autorità locali. Chi non ottempera alle richieste dei
commissari è dichiarato infame e traditore della patria; il decreto del
17/8/1792 getta le basi per il futuro esercizio del potere dello Stato mediante
commissari: in particolare ci si concentra sull’esercito. Qui i commissari
dell’assemblea legislativa si distinguono da quelli del potere esecutivo per
l’eccezionalità dei loro poteri.
La Convenzione
Nazionale dal 20/9/1792
… mette in atto un vero
sistema di governo e di amministrazione commissaria che aveva come mandante la
Convenzione stessa e i cui organi ne erano membri. Si tratta di commissari per
la coscrizione nei diversi dipartimenti che diventano commissari d’azione. Fino
alla morte di Robespierre vi saranno commissari che rimarranno c/o l’esercito e
commissari nei dipartimenti. Dall’aprile
1793 assumono il titolo di “Représentants
de la Nation deputés par la Convention nationale à…”. Essi vengono
quasi subito posti alle dipendenze del Comitato di salute pubblica (dopo 6
aprile 1793). I compiti erano di ispezione e di controllo sia per quelli
dell’esercito sia per quelli dei dipartimenti (pp. 198-199); nei dipartimenti a
ciò si aggiungevano compiti di epurazione dei controrivoluzionari dai posti
d’autorità e di organizzazione di un nuovo sistema amministrativo con la
suddivisione dei dipartimenti in distretti; compiti di mantenimento dell’ordine
pubblico, di approvvigionamento contro l’aggiottaggio e di assistenza alle
fasce più disagiate della popolazione. Verso le autorità locali i loro poteri
vanno vieppiù estendendosi fino ad arrivare al potere di sospensione e di
sostituzione. I mezzi da loro usati variavano e arrivavano all’avocazione a sé
della forza dell’esercito. I loro poteri si basano su un effettivo
trasferimento a loro del potere esecutivo detenuto dalla Convenzione e, pur
dovendo all’inizio rispettare formalmente i diritti dei singoli e la proprietà,
la loro prassi arriva a scavalcarli, dato che la formula della loro
autorizzazione delegava a loro i pieni poteri di adottare tutte le misure necessarie per tutelare la sicurezza, la quiete e
l’ordine pubblico: insomma di fatto un potere illimitato, solo vincolato alle
disponibilità finanziarie da richiedere alla Convenzione.
Il Comitato di Salute
pubblica dal 6 aprile 1793
… è protagonista di una
rigida centralizzazione in cui si combina un’indefinita estensione dei poteri
dei commissari verso l’esterno e una loro sempre più stretta dipendenza dal
Comitato stesso all’interno. Concretamente l’agire del commissario dipendeva da
rapporti di fatto come per esempio l’appoggio che trovava presso le organizzazioni
locali del partito o delle società popolari di matrice giacobina.
Nell’istruzione del 7/5/1793 vi sono specificati compiti e poteri, che
comprendono quelli del periodo precedente con in più l’autorizzazione, in casi
urgenti, a fare tutto quanto le circostanze rendono necessario per estendere
l’influenza della rappresentanza nazionale e fare della Francia un paese unito
con un centro di governo e d’amministrazione. Essi potevano avvalersi non di
subdelegati, ma di una “commissione centrale”, cioè di un gruppo di persone
alle loro dipendenze del quale si
servivano per realizzare i loro scopi, ma senza poteri autonomi. Tutti gli
organi costituiti sparivano di fronte al rappresentante, compresi i commissari
delle leghe di comuni, costituitisi durante le guerre e le ribellioni. I
commissari avevano un carattere d’azione, lottavano contro il dissenso e non
potevano essere sospesi dall’autorità locale. Il rispetto dei diritti
dell’avversario politico non poteva essere d’impedimento. In sostanza i rappresentanti
del CSP rappresentano una dittatura commissaria (i cui commissari hanno mandato
imperativo) all’interno di una dittatura sovrana, che il CSP esercita assieme
al Tribunale rivoluzionario. Ciò costituiva un apparato di governo in cui
nessuna autorità intermedia doveva frenare l’impulso proveniente dal centro.
Una volta creato un
apparato amministrativo funzionale, il rappresentante del CSP torna nell’ombra
– a differenza dei rappresentanti della Convenzione Nazionale che con la sua
opera contribuisce alla formazione di una burocrazia amministrativa integrata.
Costituzione
provvisoria del dicembre 1793
… i compiti di
controllo affidati ai commissari della Convenzione, vengono affidati ad “agenti
nazionali”, mentre al posto del commissario d’azione subentra il commissario di
vigilanza che ha funzioni di servizio e che ha competenze stabili ma
delimitate. Nondimeno tale costituzione sopprime tutte le autorità locali con
una centralizzazione del potere che sopravvivrà allo stesso Robespierre.
La costituzione del
1795
… mantiene dei
commissari del Direttorio e via via
estende le loro facoltà. Napoleone revocherà anche il limite per cui i
commissari in una certa regione dovevano provenire da quella regione.
Era così creata una
burocrazia locale: dall’intendente, ancora relativamente autonomo, passando per
il commissario rivoluzionario della Convenzione nazionale, onnipotente verso
l’esterno e totalmente dipendente all’interno, si arriva finalmente al prefetto
della moderna amministrazione, perfettamente integrato nel sistema burocratico.
A questo punto l’apparato governativo è diventato una macchina che si lascia
docilmente guidare dal potere centrale.
Il 18 brumaio
… Napoleone è capo di
questo apparato che in tempi normali funziona con competenze regolari, mentre
quando la situazione si fa eccezionale, lascia spazio nuovamente all’intervento
dei commissari (cfr. 1814 in occasione dell’invasione della Francia).
Il ritorno dei Borboni
… v’è una
riorganizzazione della macchina dello
Stato, facendo ricorso a commissari straordinari capeggiati da un “commissario
regio straordinario”.
I 100 giorni
… ancora Napoleone si
avvale di commissari, così come durante la definitiva restaurazione, in cui
essi servono nel periodo di insediamento e stabilizzazione del nuovo governo,
per poi essere sostituiti da funzionari stabili e regolari come i prefetti.
CAPITOLO SESTO:
LA DITTATURA NELL’ATTUALE ORDINAMENTO
DELLO STATO DI DIRITTO: LO STATO D’ASSEDIO
I disordini e la Legge
marziale
Vi sono strumenti
giuridici per far scomparire l’organizzazione dello Stato preesistente, come lo
erano i commissari nella Convenzione nazionale, ma anche per impedire il
rovesciamento dell’ordine costituito.
La giurisdizione
prevostale di epoca pre-rivoluzionaria lotta contro i disordini per mezzo di
giudici provvisti di facoltà straordinarie. Questi diventano commissari
autorizzati dal re. Ciò non è possibile però in Inghilterra dove il re non può
oltrepassare i limiti delle leggi mediante commissari. Infatti i commissari
ancora presenti sotto Carlo I e sotto il Parlamento lungo, vengono aboliti con Bill of rights. In Inghilterra, sotto la
regina Anna e sotto re Giorgio I, il re ha la possibilità di decretare la Legge
marziale, limitata tuttavia al tempo di guerra e ai territori esterni alla Gran
Bretagna. Il problema è giustificare l’intervento militare sulla persona fisica
e sulla proprietà dei ribelli durante i disordini interni. La soluzione del
1780, durante una sedizione a Londra, è stata data dicendo che i ribelli è come
se fossero soggette al diritto di guerra (rimane irrisolta la questione degli
innocenti eventualmente coinvolti nelle repressioni). Per questo ambito di
interventi militari di fatto, come appunto
Londra 1780, c’è la Legge marziale che, piuttosto che una legge, è un procedimento
guidato essenzialmente dalla necessità di conseguire un determinato scopo. La
regolazione giuridica si limita qui, infatti, a delineare le condizioni che presiedono alla
sua entrata in vigore. Una volta entrata in vigore si procede al di là della
legge. Ciò deve avvenire quando i poteri dello Stato non funzionano e dunque
l’unica soluzione per mantenere l’ordine è l’esercito. Esso agisce anche come
sostitutivo dei tribunali e presuppone una sorta di justitium, cioè una dichiarazione di stato d’emergenza così come si
ha nel diritto romano (cfr. la legge americana del 1795). Per la concezione
dello Stato di diritto la Legge marziale significa la pura e semplice
soppressione della divisione dei poteri e la sua sostituzione con il mero
comando dell’autorità militare. Negli Stati Uniti il presidente ha spesso usato
questo espediente legale. La corte suprema l’ha confermata attribuendo
all’esercito la funzione di sostituto dell’autorità civile quando vi sia
guerra, oppure per salvaguardare la sicurezza delle forze armate della società.
La Legge marziale dunque crea uno spazio libero da impedimenti legali per
interventi commisurati solo alle circostanze.
La Legge marziale è
fatto e non diritto
La differenza con la
giurisdizione prevostale è che la Legge marziale prescinde da tribunali e da
qualsiasi elemento di diritto, e trova nella fattualità la sua intima sostanza,
tale che essa non può accedere alla forma del diritto, benché talvolta se ne
voglia assumere la valenza. Ciò accade per esempio quando i provvedimenti di
Legge marziale vengono considerati sotto il concetto di esecutività immediata;
oppure quando si prevedono consultazioni e trattative per accertare l’identità
di chi è sottoposto ai provvedimenti, benché ciò non implichi ancora nessuna
procedura di diritto. La misura puramente fattuale rimane inaccessibile a ogni
considerazione di diritto né la si può spiegare ricorrendo all’interessante
concetto di “atto d’ufficio composito” con cui un provvedimento di fatto viene
corredato di una disposizione legale quale garanzia al cittadino e possibilità
di impugnazione. Ciò avviene in Prussia, ma anche in Francia con i
provvedimenti di messa al bando, per i quali automaticamente una certa azione
rende passibili di un provvedimento militare in cui sentenza ed esecuzione sono
considerati la stessa cosa. Ciò diventa strumento sia nelle mani di un governo
conservatore sia in quelle di un governo rivoluzionario (per esempio quando i
rivoluzionari considerano hors la loi
- fuori dalla legge - i ribelli controrivoluzionari
e li reprimono via facti). In ogni
caso tutti questi procedimenti di fatto ignorano che l’essenziale del diritto è
la forma, cioè la possibilità di far rientrare le azioni in categorie
universali tali da poter misurarne con oggettività le responsabilità e le
conseguenze civili e penali.
Condizioni e non
contenuti: Legge marziale, stato di necessità e legittima difesa
Se è vero che ci sono
prescrizioni formali nella Legge marziale tuttavia esse non riguardano dei
contenuti, cioè non regolano le azioni che un soggetto può compiere, ma le
condizioni che fanno scattare la legge stessa e dunque la libertà di azione da
parte di quel potere che essa mette in azione. Talora nella legge possono
essere contenute delle garanzie o anche divisioni di competenze, tuttavia tali
garanzie e divisioni di competenze vengono meno nel caso di necessità (Notfall).
Esempio tipico è la legittima difesa in cui è lecito compiere tutto quello che
è necessario per respingere un’aggressione illegale e in cui la norma non dice
che cosa sia lecito compiere ma si limita in sostanza dire che si può compiere
ciò che è richiesto per la difesa. In questi casi l’azione coincide anche con
il giudizio sulle sue condizioni, non essendo possibile creare un’istanza che
esanimi in sede giudiziaria, prima dell’esercizio di quel diritto se
effettivamente esistano le condizioni della legittima difesa. Allo stesso modo
il “quando” si verifica un caso di necessità e risulta imprescindibile compiere un intervento, non può essere
distinto dal “chi” giudica se si tratta
effettivamente di uno stato di necessità.
La Loi martiale durante
la rivoluzione francese
Nei primi anni della
Rivoluzione francese ci si trova di fronte al tentativo di allontanare
l’esercito da qualsiasi funzione di deliberazione e giudizio benché tale
orientamento sia impossibile durante una guerra esterna. Sieyès afferma che in
nessuna circostanza l’esercito deve essere impiegato contro i cittadini del
proprio Stato. Poteri straordinari potevano essere concessi dalle autorità
comunali che avevano il diritto di richiedere la forza militare per ristabilire
l’ordine pubblico. Così prescrive la loi
martiale del 1789, che descrive le condizioni per l’intervento
dell’esercito la cui azione è poi libera e nondimeno affida all’autorità civile
la decisione sull’intervento militare.
Con la legge del
febbraio 1790 promulgata dall’assemblea nazionale costituente e con il decreto
del 2 giugno 1790 le autorità comunali possono dichiarare la legge marziale
quando l’ordine è in pericolo. I militari devono solo eseguire. Ma a ciò
aggiungiamo anche la possibilità di istituire tribunali speciali ai quali è
dato mandato in via commissaria di giudicare il reato di sedizione e altri
simili. A tali leggi si aggiunge la legge del 26 luglio 1791 contro gli
assembramenti che afferma che in certi casi di particolare urgenza la forza
armata può intervenire anche senza la previa rochiesta da parte dell’autorità
civile, specialmente quando si trattava di rapine e saccheggi. Le azioni delle
forze armate in questo caso non sono responsabili.
Lo stato d’assedio
durante la Rivoluzione francese
Sullo stato d’assedio
la legge dell’8 luglio 1791 lo considera una materia tecnico militare che regola
le condizioni in cui si può trovare una piazzaforte militare, cioè in
a) stato di pace:
l’autorità militare competente esclusivamente per le truppe e per gli ambiti
militari;
b) stato di guerra: il
governo militare può pretendere l’esecuzione di misure di sicurezza, pur
conservando le autorità civili i compiti di polizia; in casi urgenti in
militari possono adottare, su delibera del consiglio di guerra, tutte le misure
necessarie per garantire la difesa.
c) stato d’assedio:
vige un governo esclusivamente militare in materia di sicurezza e ordine
pubblico. Questo stato è un reale stato di grave emergenza che subentra in
condizioni di fatto ben precise cioè quando a piazza fortificata si trova
tagliata fuori da tutte le comunicazioni verso l’esterno. Lo stato di guerra
viene invece dichiarato su deliberazione dell’assemblea legislativa. Qui la
disciplina legislativa si limita a convalidare situazioni di fatto di natura
tecnico militare: lo stato d’assedio non rappresenta ancora un punto di
aggancio per una finzione da utilizzare in chiave di ordine interno e sul piano
del diritto.
I giacobini in generale
sono contrari alla Legge marziale perché poteva contenere l’opposizione
politica criminalizzandola e reprimendo il movimento rivoluzionario parigino
tant’è vero che tale legge viene abolita il 23 giugno 1793. Per liquidare gli
avversari salvando le forme giudiziarie la convenzione disponeva dei suoi
commissari, della legislazione e dei tribunali rivoluzionari. Qui lo stato
d’assedio vige un campo esclusivamente militare.
Dopo la rivoluzione: lo
sviluppo
Direttorio
Esso tuttavia negli
anni successivi evolverà verso una finzione giuridica. Ciò è evidente nella
differenza tra le due leggi che precedono e seguono il colpo di stato attuato
dai membri radicali del direttorio il 18 fruttidoro V, cioè il 4 settembre
1797. Nella legge dell’agosto 1797 lo stato d’assedio ancora una
condizione di fatto; dopo il concetto acquista un significato politico perché
il procedimento tecnico militare viene posto al servizio della politica
interna. Ad esso si aggiungerà anche il concetto di stato di agitazione civile con una legge del 12 luglio 1799 che
consentiva particolari misure contro le sedizioni.
Napoleone
La costituzione
successiva al colpo di Stato napoleonico del 13 settembre 1799 introdusse il
concetto di sospensione della costituzione in caso di minaccia per la sicurezza
dello Stato, dichiararle dal Senato. Ciò era considerato ancora diverso dallo
stato d’assedio da cui facoltà era attribuita invece al governo. La sospensione
della costituzione è stata dichiarata in Vandea.
Napoleone non fa un uso
politico dello stato d’assedio ma estende la possibilità di utilizzazione
politica della sospensione della costituzione contro un nemico interno con la
legge del 24 dicembre 1811. In questa legge vi sono articoli sullo stato di
guerra e sullo stato d’assedio che prevede il passaggio ai militari di tutti i
poteri giudiziari e l’attribuzione allo stesso comando militare delle
competenze di tutte le autorità civili nel loro complesso.
La legge del 1811 è preceduta dall’articolo 92
della costituzione dell’anno ottavo in cui è prevista una sospensione della
costituzione motivata dallo stato d’assedio. Essa aboliva in un determinato
territorio le garanzie costituzionali per lasciare mano libera al commissario
d’azione nell’adottare tutte le misure necessarie per il conseguimento del
proprio obiettivo. Qui si procede senza nessun riguardo, come nella legge
marziale.
Oltre a ciò vi è il
decreto dell’ 28 dicembre 1799 che dichiara “fuori dalla costituzione” e nemici
del popolo francese i comuni ribelli, seguita dalla legge del 13 gennaio 1800
con cui i territori in rivolta sono considerati in stato di guerra e il
comandante può comminare pene di morte e istituire tribunali arbitrari.
Queste sospensioni
della costituzione in chiave interna sono ancora differenti dallo stato
d’assedio che vige solo in rapporto con nemici esterni.
Lo stato d’assedio
dal 1815 alla Restaurazione
Lo stato d’assedio
trova menzione nella costituzione del 1815. Esso non è stato usato da Napoleone
come mezzo di lotta politica interna, come invece appare adesso, giacché il
diritto di dichiarare lo stato d’assedio è affermato in caso di disordini
interni, benché venga riservato ad una legge, tolto all’arbitrio
dell’imperatore e affidato alla rappresentanza popolare. Con Napoleone erano in
vigore le sospensioni delle costituzioni il cui problema erano i tribunali
militari che invadevano la competenza ordinaria dei giudici naturali e ciò era
sentito come incostituzionale. Dopo Waterloo il 28 giugno 1815 Parigi viene
dichiarata in stato d’assedio. In esso le autorità civili rimangono in funzione
e quelle militari devono limitarsi rigorosamente alle operazioni militari in
senso stretto.
Durante la Restaurazione
il governo aveva fatto dello stato d’assedio mezzo tecnico amministrativo nel
senso di uno stato di eccezione che consentiva ad ogni autorità di fare quello
che sembrava dettato dalle circostanze. Questo provocò la lotta per le garanzie
costituzionali in particolare per la libertà personale e di stampa. Esse
diventano un problema di sovranità. Da tutte le parti viene senz’altro ammesso
che l’esercizio della sovranità è legato competenze regolate per legge.
Tuttavia bisogna distinguere tra esercizio regolato per legge della sovranità,
e la sostanza della plenipotenza dello Stato che sussiste quando il governo
regio si esprime la propria sovranità. La terminologia politica del tempo ha
chiamato tutto questo “dittatura”. In realtà si tratta semplicemente della
pretesa della sovranità come il potere statuale illimitato per principio che si
autolimita con la legislazione soltanto per quel tempo che esso considera come
condizione normale. Quindi il re non ha bisogno di autorizzazioni, perché in sé
possiede facoltà sovrane ordinarie, interne ad una costituzione, e
straordinarie. In ciò consiste la pienezza del potere statuale, in cui la
disciplina giuridica non regola che il contenuto prevedibile dell’esercizio
della sovranità, senza minimamente esaurire la pienezza sostanziale del potere
stesso che si decide nel caso non regolato dal diritto, il quale diventa il
problema stesso della sovranità. A tale sovranità spetta il diritto di compiere
ciò che le circostanze fanno ritenere necessario per la sicurezza dello Stato.
Il potere regio, dunque, rivendica per sé un potere costituente senza considerarsi
mandatario di esso. Pertanto non c’è qui un caso di dittatura sovrana. Il re è
direttamente il potere costituente, non come il dittatore che si ritiene il
rappresentante legittimo del potere costituente e sua espressione commissaria.
Lo stato d’assedio
nella monarchia di luglio
Alla fine della monarchia di Carlo X, nel
luglio 1830 la città di Parigi viene posta in stato d’assedio. Anche qui esso
ha un carattere militare.
Nella costituzione del
1830 c’è un chiaro riferimento al modello inglese: il re non può né sospendere
le leggi né dispensare dalla loro esecuzione. In questa costituzione non si fa
parola dello stato d’assedio. Tuttavia esso viene dichiarato due anni dopo
contro i realisti della Vandea, da un lato, e i moti proletari a Parigi,
dall’altro. Con due ordinanze dell’1 giugno del 3 giugno 1832 si dichiara lo
stato di assedio in Vandea, eseguito dal ministro degli interni e dal ministro
della guerra. In una terza ordinanza si dichiara lo stato d’assedio a Parigi.
Qui il ministro della guerra trasmette un’istruzione al comandante di Parigi
autorizzandolo a esercitare tutte le facoltà delle autorità civili sia
amministrative che giudiziarie, ma solo per i casi attinenti ai disordini.
Proposito del governo è di limitare lo stato d’assedio all’insurrezione e di
non recare pregiudizio ai diritti e alle libertà generali dei cittadini
estranei. Qui appare evidente come la dittatura commissaria deve trasformarsi
nell’istituto giuridico dello stato d’assedio, in cui le competenze del
comandante militare sono limitate non solo quanto alle condizioni ma anche
quanto ai contenuti. Ciò accade benché si sappia che l’esercizio commissario di
un ufficio tende per sua natura a concentrare le competenze limitate per legge.
Tanto che la corte costituzionale francese stabilisce che un diritto garantito dalla
costituzione rappresenta un ostacolo insormontabile per l’azione militare.
Il 1848
Nel 1848 lo stato
d’assedio a Parigi offre tutti i poteri esecutivi al generale Cavaignac, con
amplissime facoltà, che tuttavia escludono quelle legislative, fino a che lo
stesso Cavaignac viene investito del titolo di presidente del consiglio nel
giugno 1848 e, con deliberazione dell’Assemblea nazionale, il 19 ottobre 1848
lo stato d’assedio è sospeso. Qui c’è la conclusione dello sviluppo verso uno
stato d’assedio fittizio che si trasforma in una dittatura commissaria in cui è
tuttavia importante il tentativo di definire i contenuti delle competenze del
comandante militare, escludendo per esempio quelle legislative.
La legge del 9 agosto
1849 lascia in vigore la precedente disciplina dello stato d’assedio e tuttavia
intende enumerare i diritti che con lo stesso stato vengono limitati e intende
definirli per legge. Il comandante militare possiede poteri che vengono
specificati. Anche gli interventi sulla libertà personale vengono esplicitati.
Con questa legge che definitivamente conclude lo sviluppo della disciplina
dello stato d’assedio, aspetto decisivo è dato dal fatto che al posto di
un’autorizzazione ad agire in base alle circostanze subentra una serie di
poteri circoscritti; oltre a ciò, non abbiamo più la sospensione completa della
costituzione ma soltanto di un certo numero di diritti civili e costituzionali.
Con ciò si perviene a quello che nel 1829 era già stato discusso come uno stato
d’assedio fittizio, termine con il quale si vuole mettere in risalto che in
esso non sussiste un’assoluta libertà d’azione come nelle operazioni militari,
e solo alcuni diritti come quello al giudice naturale e alla libertà di stampa
e personale vengono conculcati, non tenendo presente che le azioni militari
continuavano tuttavia ad avere forti possibilità di ricaduta nei confronti dei
cittadini considerati come nemici o avversari, fatti stesso oggetto di
interventi brutali.
A fronte delle
limitazioni del potere dello stato d’assedio rimane il potere illimitato
dell’Assemblea costituente del 1848, in quanto depositaria del potere
costituente. Esiste dunque una sede in cui può manifestarsi un potere per
principio illimitato, il cui fondamento sta nel potere costituente. La
dittatura di cui tanto si parlava non era pertanto la dittatura del comandante
militare dello stato d’assedio bensì quella dell’assemblea costituente, di cui
il comandante militare non era che il commissario.
Paradossalmente nel 19º
secolo il problema dello stato d’assedio fittizio, con cui viene indicata
normalmente una dittatura, diviene la soppressione della libertà di stampa e di
diritti analoghi, e non il problema delle innumerevoli vittime di una guerra
civile che perdono realmente la vita da ambo le parti. Questo strabismo è
dovuta all’incapacità di distinguere il contenuto di una commissione d’azione
da un procedimento regolato per legge, nel senso che una commissione d’azione
per forza non può tener conto dei diritti e non può essere un procedimento
regolato per legge, quand’anche si tenti di porre dei limiti.
L’art. 48 della
costituzione di Weimar
Per chiarire questa
questione si veda l’articolo 48 della costituzione tedesca dell’11 agosto 1919.
Essa prevede il diritto del presidente del Reich
a promuovere un intervento armato per il ripristino dell’ordine e della
sicurezza. E questo intervento è una commissione d’azione non limitata dal
diritto che si realizza per mezzo di commissari. È una dittatura commissaria
che implica una autorizzazione a operare inconsueta negli odierni Stati di
diritto. L’unico elemento da tener presente è che il presidente è autorizzato a
prendere misure di fatto altrimenti lo stato di diritto sarebbe dissolto.
L’articolo 48 nel suo primo comma non indica limiti: l’autorizzazione è
illimitata. Ciò tuttavia implicherebbe che o il presidente della Reich, o il Reichstag che lo autorizzerebbe ad assumere i poteri, dovrebbero
essere depositari di un potere costituente e la costituzione si ridurrebbe ad
un elemento estremamente provvisorio e precario dell’ordine esistente. Ci
vorrebbe un’Assemblea costituente a dare potere al presidente perché il Reichstag è un potere costituito e come
tale non può dare commissioni illimitate, ma ciò è impensabile anche perché
questo mandato si esaurirebbe una volta sciolta l’Assemblea nazionale
costituente.
Contraddizione
dell’articolo 48 che quella che dopo l’autorizzazione generale all’azione,
l’articolo enumera i diritti garantiti costituzionalmente che il presidente del
Reich può sospendere a tempo
indeterminato - chiaramente senza una delega del potere legislativo ma solo con
un intervento di fatto -, diritti che comprendono ambiti così vasti e tale
comma può coincidere con un’estensione illimitata del potere, diritti la cui
enumerazione entra comunque in contraddizione con l’autorizzazione generale del
primo comma. Queste contraddizioni esistenti nella costituzione di Weimar hanno
la loro radice in una combinazione di dittatura sovrana e dittatura commissaria
e sono perciò perfettamente coerenti con lo sviluppo storico nel quale questa
confusione è tutt’altro che risolta. Ciò è spiegato con il fatto che nella
transizione dall’assolutismo monarchico allo Stato borghese di diritto si dava
per scontato che si fosse definitivamente raggiunta l’unità solidale dello Stato.
La sovranità assoluta, infatti, eliminando i ceti aveva messo fine al rischio
di disintegrazione dello Stato e la costruzione dello Stato borghese di diritto
si poteva avvalere di questo risultato già raggiunto. Condorcet afferma che
senza il rischio di negativo dei ceti, non è necessario il dispotismo
monarchico quindi è possibile e auspicabile una Repubblica che utilizza minori
mezzi coercitivi giacché non deve ridurre una molteplicità di enti diversi
all’obbedienza. In questo contesto è possibile regolare anche lo stato
d’assedio politico come qualsiasi esecuzione di una sentenza penale o civile.
Si possono cioè regolare i mezzi dell’esecuzione che hanno in tal modo delle
garanzie per la libertà civile. In tal caso lo stato d’assedio realmente
fittizio. Se manca l’unità dello Stato si formano al suo interno potente
associazioni e tutto il sistema crolla e si disgrega.
La dittatura del
proletariato
Tra il 1832 1848
l’ascesa dell’importanza politica del proletariato pone nuove questioni. La
questione della dittatura del
proletariato in Marx ed Engels trova già una tradizione che va dal Babeuf a
Blanqui che aveva già applicato una chiara idea di dittatura desunta
dall’esperienza del 1793 alla situazione del 1848. Per quanto riguarda il Novecento
si può dire che la dittatura del proletariato, identificato con il popolo,
intesa come transizione ad un assetto economico in cui lo Stato si estingue,
presuppone il medesimo concetto di dittatura sovrana che era la base della
teoria e della prassi della Convenzione nazionale.