Presento qui la sintesi di due importanti capitoli di questa opera del filosofo spagnolo Pedro Laín Entralgo (1908-2001), professore di Storia della Medicina all'Università di Madrid e studioso di vastissimi orizzonti. Mi sono limitato a riassumere le tesi e gli argomenti principali del testo, rinunciando all'inserimento dei precisi riferimenti alle opere, che possono essere ritrovati agevolmente nella pubblicazione.
(La curación por la palabra en la antigüedad clásica, Anthropos, Barcelona,
2005)
Cap. 3: La
razionalizzazione platonica dell’incantesimo terapeutico (pp. 107-134)
I dolori del corpo sono
curabili, secondo il Carmide., solo se risultano curati i dolori
dell’anima. Nello stesso luogo Platone dice che l’anima è curata attraverso
certi incantesimi terapeutici. Essi constano di formule magiche che
venivano proferite dal medico nel somministrare il farmaco. Ciò implica l’idea che
le parole abbiano un potere curativo. Qual è la posizione generale di Platone a
proposito?
I
La parola epodé
si trova non meno di 52 volte nell’opera platonica: 20 nel Carmide, 14 nelle
Leggi e il resto sparso tra Gorgia, Menone, Eutidemo, Simposio, Fedone, Repubblica e Teeteto. La parola viene usata in diverse accezioni:
1) epodé è una formula magica che a volte ha un valore positivo, altre
negativo;
2) epodé ha un uso metaforico e analogico.
Precisamente il suo valore può essere quello
di scongiuro, quando nel rito predomina un’intenzione imperativa o
coattiva, o di incantesimo terapeutico quando la sua intenzione è più
supplicante o impetrativa. Platone allude a queste formule magiche con molta
sobrietà e ne manifesta una visione negativa della Repubblica, libro II,
e nell’ultimo libro delle Leggi. Altrove, come si è detto, ne fa un uso
analogico e metaforico. L’Eutidemo ci introduce a questo tipo di uso
dicendo che epodé è quello che fanno
i retori per “incantare e/o calmare le masse nell’assemblea”. Tale arte è
“come” un sortilegio proprio di chi fa discorsi, che, per tale motivo, può
dirsi ispirato dagli dei.
In tal senso l’epodé diventa una parola
psicologicamente efficace e persuasiva, così come nel Gorgia e anche nel
Menone, dove il personaggio che dà il titolo al dialogo sostiene che
Socrate lo riempie di dubbi con gli incantesimi della sua dialettica. Nel
Fedro Platone allude al potere di Trasimaco di aizzare calmare le folle
con le sue parole suasorie. Nel Teeteto Socrate ricorda le epodai
delle ostetriche e associa la sua prassi ad esse, come prassi maieutica. Nel Fedone
la parola persuasiva di un “incantatore efficace” serve per allontanare la
paura della morte e convincere che la morte stessa non è un male. Sempre in
quell’opera alla fine Socrate racconta un mito sulla morte mediante il quale
auto-persuadersi e auto-incantarsi. Qui il mito diventa un incanto contro la
puerilità del timore della morte e l’epodé
da formula magica diventa propriamente un racconto o un ragionamento persuasivo
contro l’errore e le passioni dannose.
In questo uso
metaforico c’è una relazione reale e non arbitraria tra l’immagine e il
contenuto. Si tratta di una analogia in cui prevale la pars loquentis
laddove nell’analogia in senso stretto predomina la pars rei. Dunque quando metaforicamente l’epodé diviene racconto mitico- persuasivo, l’elemento reale è la funzione
incantatrice della parola, capace di trasformare e guarire l’anima di chi la
riceve.
II
Nel Carmide
Socrate accetta l’incarico di curare a Carmide stesso il mal di testa che lo
affligge con un farmaco ma anche con un’epodé.
Infatti i medici bravi curano la parte facendo attenzione al tutto, cioè anche
all’anima. Come hanno insegnato quel medico tracio, allievo Zalmoxis che diceva
che tale prassi è obbligatoria giacché dall’anima fluisce tutto per il corpo e
per l’uomo intero. Tali incantesimi terapeutici, con cui è curata l’anima,
corrispondono per Platone ai “bei discorsi”. Mediante essi sorgono nell’anima
temperanza e saggezza (sofrosyne: assennatezza, senno, buon senso,
salute mentale). Questo avviene quando il discorso è somministrato assieme al
farmaco, e al tempo stesso il malato offre la sua anima al medico. Quando si
produce la saggezza, essa fa agire il farmaco, ma questa non si produce se non
c’è fiducia, cioè se l’anima del paziente non è offerta al medico.
Ma che cos’è la saggezza? Platone nel Carmide dà diverse definizioni:
-
fare tutto con buon ordine e tranquillità;
-
sensibilità al pudore;
-
fare ciascuno ciò che è proprio di ciascuno;
-
pratica del bene;
-
conoscere se stessi;
-
la virtù che riguarda l’unica tra tutte le
scienze che ha per oggetto sia se stessa sia le altre;
-
scienza della scienza dell’ignoranza.
Nessuna di queste
definizioni resiste ad una critica sottile. Ma ciò è dovuto più ai difetti dei
ricercatori che alla cosa in sé. Tant’è vero che nelle Leggi,
successivamente, la saggezza verrà considerata come la forma irrazionale
della virtù (710 a).
Carmide ammette la
necessità dei bei discorsi socratici e in tale offrirsi c’è già saggezza.
Nell’omonimo dialogo vi è un poderoso sforzo di razionalizzare l’epodé come qualcosa che non è niente di
magico ma è al contrario naturalmente inerente alla parola stessa quando la
parola sia idonea e bella. Ciò sarà confermato dalle Leggi in cui l’epodé rimanda ad un uso efficace e
persuasivo della espressione verbale. Nel libro 10º delle Leggi il mito sostiene
la credenza giusta, come anche nel Fedone, e conduce l’animo a ricevere
in modo sollecito e credente quello che la ragione non è capace di dimostrare
con argomenti logici e irrefutabili.
Dunque complessivamente
Platone si oppone alla superstizione, anche quella che si manifesta nell’epodé intesa in senso arcaico, ma non
quando essa non risulti di ostacolo, anzi faciliti, l’opera reale ed efficace
sulla psiche di chi ascolta. Ciò accade non solo a causa della buona
disponibilità a credere dell’ascoltatore, ma anche a causa del suo contenuto,
che produce serenità, chiarezza, ordine, in una parola saggezza. Dunque
quest’ultima si genera
-
sia per la virtù di ciò che si dice,
-
sia per
la disposizione di chi ascolta
e ciò è molto lontano
dalla magia.
Nondimeno tale
razionalizzazione non è completa perché la saggezza non è una virtù pienamente
razionale, così come non sono pienamente razionali persuasione e credenza.
Tutto ciò riguarda, infatti, la sfera del demonico cioè della
comunicazione con Dio. Ma come vi sono falsi e veri “indovini”, vi sono altresì
falsi e veri “persuasori”. La differenza sta nei frutti, quelli veri producono
una reale divinizzazione degli uomini che li seguono con una buona disposizione
d’animo.
La salute dell’anima da
essi prodotta consiste in una buona disposizione o in un buon ordine
delle sue componenti, in cui le parti demoniche sono integrate nella
ragione.
Ma che differenza
sostanziale c’è tra la epodé
superstiziosa o magica e quella terapeutico filosofica? L’epodé filosofica è l’unica accettabile ed è quella che è data dal
discorso bello di chi lo fa e dalla buona disposizione di chi lo riceve. Tale
discorso bello per essere ben ricevuto deve essere commisurato all’anima
dell’ascoltatore: solo i discorsi che posseggono questa buona correlazione
con l’ascoltatore sono belli. Essi permettono la contestuale “consegna
dell’anima” (pareskesis) e dunque il buon compimento del trattamento
terapeutico.
Che cos’è allora la
salute umana? È equilibrio delle potenze, cioè un insieme di credenze,
saperi, appetiti e virtù belle e ordinatamente combinate fra loro. In ciò
consiste la eukrasìa o buona mescolanza cui fanno anche riferimento i
seguaci di Ippocrate, ma solo sul piano corporale. Una persuasione non
orientata all’ordine, cioè non integrata nella ragione, corrompe anche la buona
commistione degli umori del corpo e quindi anche la salute di quest’ultimo.
Quindi la persuasione è componente della salute e in essa si radica anche la
necessità della fiducia tra medico e paziente. Così Platone diventa l’inventore
di una psicoterapia verbale rigorosamente tecnica. Qui l’elemento razionale,
che ha le sue radici in un’azione suggestiva proveniente dalla epodé arcaica, adotta la forma del
bel discorso e diventa psicoterapia tecnica.
III
Che rapporto c’è fra epodé e catarsi? Incanto verbale e
purificazione non vanno forse uniti? La parola catarsi in Platone può assumere
cinque significati diversi (alcuni in linea con senso comune altri meno):
1) pulizia di oggetti
sporchi;
2) purezza religiosa da
crimini e atti illeciti;
3) può essere un
concetto medico: purgare il corpo da umori e impurità che causano malattie;
4) può alludere a una purificazione
dell’anima per mezzo di una vita teoretica (Fedone);
5) può avere un significato
al tempo stesso etico e psicologico-medico, tema che adesso andiamo ad
analizzare.
Tutti i significati
alludono a una purezza e richiamano in qualche modo il carattere sacro di
ciò che è puro. Dunque tra questi significati c’è un’analogia intrinseca.
Il problema platonico è specialmente come si ottiene la purezza dell’anima.
Il nous in sé è puro, e quindi
non ha bisogno di purificazione. Ne ha bisogno invece l’uomo come associazione
di corpo e anima. Nel Fedone tale purificazione si ottiene in quanto
purificazione dell’anima dalla ingerenza e dalla vicinanza contaminante
del corpo. L’anima è sporcata infettata dalla corporeità e dal suo disordine.
Questa posizione semplicistica è superata successivamente.
Nel Sofista si
parla di una catarsi del corpo attraverso la ginnastica e la medicina, e di una
dell’anima dai suoi mali rappresentati dall’ignoranza e anche dalla sfrenatezza
del desiderio, in particolare quello sessuale, come è detto anche nel Timeo.
In Platone, dunque, opera già uno sviluppo
che, grazie allo sforzo razionalizzatore dei medici fisiologi, tra cui
Ippocrate, la macchia o impurità fisica si trasforma in dissimmetria della
natura individuale, in disordine o disequilibrio degli elementi materiali che
compongono la physis del corpo. Tutto ciò in Platone serve per
diagnosticare il male dell’anima: esso diventa asimmetria, dismisura o
disequilibrio delle credenze, dei saperi e dei sentimenti che danno all’anima
contenuto e struttura. Sono l’ingiustizia della perversione come disordine
e stasis dell’anima.
Quali ne sono le cause?
Per il Fedone, all’inizio, è semplicemente la contaminazione con il
corpo. Successivamente si supera il rigido antisomatismo degli inizi. Già nel Filebo
il piacere non è più qualcosa di semplicemente impuro in quanto proveniente dal
corpo. Vi sono anche i piaceri puri e verso il corpo c’è una attitudine
diversa, maggiormente votata a integrare i suoi valori in quelli dell’anima,
pur nella loro gerarchia. Non il corpo in sé genera la ametrìa
dell’anima, bensì il desiderio disordinato, l’empietà nelle sue diverse forme,
il crimine, la vita licenziosa la volontà di danneggiare, l’ignoranza
volontaria. Tali difetti si possono ridurre a due: la mania, o pazzia
esaltata, e la amathia o ignoranza morbosa. Esse possono essere prodotte
nell’anima da alterazioni del corpo, come dimostra l’azione di certe sostanze
irritativa sull’anima. Viceversa le alterazioni dell’anima possono essere la
causa della malattia del corpo. In ogni caso la salute di quest’ultimo rimane
impossibile senza saggezza. Essa si ottiene con una terapia dell’anima
che equivale all’azione suasoria ed educativa della catarsi tradizionale, ma
ancor più della epodé in senso
platonico. Essa genera il riordino verbale di credenze e appetiti, di saperi e
sentimenti: una vera e propria purificazione attraverso la parola.
Nel Cratilo sono indicati come esperti
in essa sacerdoti e sofisti. Sotto il profilo religioso tale purificazione è
promossa da Apollo e dalla parola vera dell’oracolo di Delfi. Apollo
etimologicamente significa, sempre in tale dialogo, “Dio che lava” (le
etimologie del Cratilo sono filologicamente fantasiose ma significative
sotto il profilo filosofico). Nel Fedro Socrate lava con l’acqua dolce
di un bel discorso le offese inferte al dio dell’amore.
Nel Sofista è
affermata chiaramente tale dinamica della purificazione attraverso la parola.
Quest’ultima educa, da un lato ammonisce persuasivamente, dall’altro argomenta
e confuta con efficacia. Tali due modalità di azione sono indicate nelle Leggi
propriamente come i due modi di agire della parola, coattivo con la
dialettica e persuasivo con l’ammonizione suasoria. Insomma la parola
risonante “impone evidenze” e “infonde persuasioni”, ristabilendo l’originaria
misura nell’uomo cioè la saggezza, cioè il cosmo dell’anima. Per alcuni allievi
di Platone tutta la filosofia potrà essere considerata una grande epodé.
IV
Platone può essere
considerato l’inventore della psicoterapia verbale o scientifica che
indica al medico una prassi ben precisa: “[Il medico] comunica le sue
impressioni al malato e ai suoi amici, e mentre si informa riguardo al
paziente, allo stesso tempo, nella misura del possibile, lo istruisce, non gli
prescrive nulla senza averlo prima persuaso, e così, con l’aiuto della
persuasione, lo tranquillizza e lo dispone costantemente a cercare di condurlo
un poco alla volta alla salute”. Senza questa opera psicagogica non è
efficace alcuna terapia. Sotto il profilo antropologico la riflessione
platonica che avvicina epodé e
catarsi mette in luce la relazione tra elementi razionali e irrazionali
nell’uomo. Con Platone infine rimane più chiara e articolata la dottrina dei
greci circa l’effetto psicologico ed etico della parola che Aristotele
riprenderà sottolineando l’azione persuasiva del sillogismo retorico, o della
probabilità, e l’effetto catartico della tragedia.
Capitolo 5: Il potere della parola in Aristotele (pp. 163-222)
Aristotele raccoglie e al
tempo stesso critica il lascito di Platone. Da un lato egli non cita l’epodé;
dall’altro porta a precisione il pensiero platonico riguardo l’opera della
parola. Per Platone
-
il logos
dialettico, per mezzo di ragionamenti, forza a riconoscere la verità;
-
il logos
mitico, per mezzo della persuasione, suscita credenze e muove ad accettarle.
Il logos
mitico-persuasivo è anteriore e al tempo stesso sostitutivo della ragione:
anteriore quando l’argomento di cui si tratta è accessibile alla ragione,
sostitutivo quando la verità cercata non è razionalmente accessibile a chi la
cerca. “La genesi è rispetto all’essenza quello che è la credenza rispetto alla
verità”, dice Platone. Aristotele rielabora tale divisione del logos. Nei trattati di logica parla del logos dialettico che convince, ma
egli sa che la parola, oltre a convincere, può anche persuadere: e qui entra in
gioco il logos retorico. La Retorica
è il trattato tecnico della parola persuasiva. La preoccupazione per la parola
persuasiva emerge in Aristotele sia nell’Etica nicomachea, sia nella Politica
e ovviamente in quasi tutte le pagine della Poetica. Tra tutti i generi
letterari quello teatrale possiede, infine, in modo più diretto una funzione
persuasiva. All’interno di questo genere emerge in particolar modo la questione
della catarsi. Qui si studierà la funzione persuasiva della parola collocata
all’interno della retorica e della poetica.
I
Ci sono tre generi della
retorica:
-
quello forense,
-
quello deliberativo,
-
quello epidittico-dimostrativo.
La nostra ipotesi e
che vi possa essere un quarto genere non elencato direttamente da Aristotele,
eppure da lui implicato, cioè quello terapeutico. Aristotele compie il
programma platonico di un’arte retorica che sia vera “tecnica” e al tempo
stesso vera “scienza” o episteme.
In ciò Aristotele è seguace di Platone ma con due
differenze: in Aristotele la retorica è lontana dalla morale: l’oratore, in
principio, deve essere tecnicamente capace di persuadere di una cosa e della
sua contraria. Inoltre, contrariamente alla prevenzione di Platone circa la doxa,
anche del verisimile c’è scienza tale scienza è la retorica, fondata sugli endoxa
e sui koinà.
Da un lato si deve dire che la retorica persuade su tutto,
anche sul male, ma non per accettarlo, bensì per conoscerlo: alla fine conta
l’intenzione dell’oratore. Dall’altro è da notare che la verità e il verisimile
appartengono alla medesima facoltà: non c’è opposizione ma complementarietà tra
dialettica e retorica. Quindi non bisogna solo dimostrare ma anche condurre
le anime (in ciò ha ragione Platone, ma anche la sofistica). La scienza
della persuasione multidisciplinare è appunto la retorica.
In essa esiste anche un genere terapeutico. Il genere deliberativo
attiene alla politica, punta a scoprire il conveniente o il dannoso, si rivolge
all’assemblea e riguarda il futuro. Il genere giudiziario-forense punta
a scoprire il giusto o ingiusto, si rivolge al giudice e riguarda il passato.
Il genere dimostrativo-epidittico punta a scoprire il bello o il brutto,
si rivolge alla persona elogiata o vituperata e riguarda il presente. In
generale gli argomenti retorici sono “credenze”, cioè argomenti in cui
si crede (pisteis) e costituiscono le prove tecniche, cioè appunto
squisitamente retoriche, di ciò che si dice. Le prove non tecniche invece sono
testimoni e documenti.
Il genere terapeutico è affine a quello deliberativo
infatti il suo oggetto sono le cose che possono accadere grazie al nostro
intervento, ma ciò è anche l’oggetto della medicina (la politica viene
considerata da Aristotele una sorta di medicina in grande, e la medicina una
sorta di politica in piccolo). L’arte dell’oratore, secondo la Retorica
e quella di utilizzare bene le tre prove tecniche fondamentali, cioè
1) il
carattere di chi parla,
2) la
disposizione dell’ascoltatore,
3) e
quello che il discorso dice.
1) Il carattere
dell’oratore è quasi la principale delle prove persuasive. Si crede,
infatti da come appare colui che parla, dai suoi abiti morali, dalla relazione
che tra lui e l’ascoltatore si stabilisce. In particolare ci deve essere una vicinanza
morale tra l’ascoltatore e l’oratore, cosa che accade anche nella relazione
medico-malato. Anche in quest’ultima il carattere del terapeuta, le sue
condizioni naturali, morali e di prestigio, influiscono sulla relazione.
2) Non meno importante è
la disposizione dell’ascoltatore, cioè le sue passioni nei confronti
della cura e del medico. La persuasione si produce nell’ascoltatore quando è
trascinato da una passione per il discorso. Da un punto di vista retorico la
passione è ciò per cui gli uomini cambiano e differiscono nel giudicare, e ciò
a cui seguono o pena o piacere (ira, pietà-compassione, timore eccetera). Nell’Etica
nicomachea essa è un’alterazione nell’essere dell’uomo, cui nel De anima
si sottolinea che partecipa anche il corpo. L’oratore deve sapere come si
produce una passione lavorando sulla peculiare disposizione dell’anima in
ciascuna delle passioni (conoscendo cioè la psicologia dell’ira e della calma,
dell’amore e dell’odio, etc.). Ciò si consegue
-
lavorando
sulle persone di fronte alle quali solitamente si sperimenta ciascuna passione,
-
lavorando
sulle occasioni e nelle situazioni in cui le passioni più frequentemente si
presentano,
-
e infine lavorando sui diversi caratteri
dell’uditorio seconda dell’età, delle sue virtù e vizi, della sua nobiltà etc.
L’oratore medico è come uno psicoterapeuta che deve
conoscere il rapporto tra malattia e passione, e anche i sette moventi delle
azioni umane: fortuna, natura, violenza, costume, riflessione, appetito
irascibile e appetito concupiscibile. Egli deve distinguere anche tra i diversi
tappeti, irrazionali o spontanei e razionali o suscitati.
3) Terzo elemento è ciò
che il discorso dice ed è un elemento decisivo. L’oratore deve saper usare
tutti i mezzi retorici: l’esempio, le sentenze, i topici, la buona locuzione e
la buona composizione. L’azione della parola persuasiva mette in atto un
meccanismo psicologico in cui entrano i seguenti cinque concetti: il carattere,
la disposizione, la passione, l’opinione, la credenza. Certamente il carattere
è importante perché nell’orazione si incontrano il carattere dell’oratore e
quello di colui che ascolta, un incontro personale al tempo stesso affettivo e
intellettivo, in cui l’anima e il carattere di chi ascolta adottano una
determinata disposizione cui appartengono certe passioni su cui l’oratore deve
lavorare conformemente ai fini ai quali il discorso è ordinato. Le passioni
modificano il giudizio sulle cose e fanno nascere nuove opinioni attraverso le
quali l’anima vede se stessa in modo inedito e a volte scopre zone della
propria vita la cui esistenza non sospettava.
Da tutto ciò si
conclude specificando che, se la retorica persuade sia di A sia di non-A, essa
deve comunque puntare al bene cioè a quella saggezza che era la meta del bel
discorso di Socrate nel Carmide platonico, concetto che non è molto
lontano dalla eudaimonia (felicità) della retorica aristotelica. Allo
stesso modo che nella retorica deliberativa, il trattamento medico va
suscitando nel malato opinioni e credenze nuove, mentre chiarisce e illumina la
sua persona avendo per fine la felicità.
II
Nell’opera aristotelica
il potere della parola è persuasione ma non solo, vi è anche una dimensione
propriamente catartica.
Nella Politica si
introduce tale concetto a proposito della musica, tenendo conto che la musica
influenza, coinvolge, si impadronisce dell’anima. In coloro che sono propensi
all’entusiasmo, la musica li coinvolge come se trovassero in essa cura e
purificazione. In effetti la musica produce un sollievo dalle passioni, cosa
che genera il suo particolare piacere. Le melodie catartiche ispirano in alcuni
un’“allegria innocente” che è l’esito del sollievo dalle passioni. Nella Poetica
Aristotele definisce la tragedia come “l’imitazione di un’azione seria e
completa, di una certa estensione, con un linguaggio abbellito da varie specie
di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle sue diverse parti, eseguita da
persone in un’azione e non per mezzo di un racconto, e che, per opera della pietà-compassione
e del timore, porta a termine la purificazione (catarsi) da tali passioni” (Poetica
6, 24-31, 1449b). Per linguaggio abbellito Aristotele intende quello che
“ha ritmo, melodia e canto”. La tragedia è dunque imitazione, come la poesia, ma si distingue
-
per l’oggetto imitato (un’azione umana cosciente
e proveniente da una decisione),
-
per il mezzo di imitazione (discorso, armonia,
ritmo)
-
e per il modo di portare a termine il disegno
mimetico (l’azione di persone e non il racconto).
Ma la differenza
fondamentale è che essa produce nello spettatore un piacere specifico e una
liberazione (catarsi) da quelle passioni che lo stesso spettacolo tragico
suscita nell’anima: pietà-compassione e timore. Quale relazione possiede tale
prospettiva con la cura attraverso la parola? Questo è il problema.
Il passo sulla catarsi
è quello forse più commentato dell’intera letteratura greca. Nel secolo 18º si
comincia a ricordare l’accezione medica della parola catarsi e la si intende
dal punto di vista della felicità e del benessere individuale. L’attenzione si
concentra sul concetto di allegria senza mescolanza di pena, come ciò che
Aristotele considera il fine proprio delle melodie catartiche. Jacob Bernays
è stato il suo primo iniziatore. Egli intende la catarsi in senso non
morale ma puramente medico, e la vede come soppressione o sollievo da una
malattia. La musica o la tragedia come agente purgativo determinerebbe una
recrudescenza del disturbo nell’umore che causa la malattia, e questa
esacerbazione del disturbo provocherebbe la espulsione, o “scarica” della
materia eccessiva e ristabilirebbe l’equilibrio corporale. Si tratta di una
sorta di trattamento omeopatico conforme al principio dei simili curano
il simile. L’opera di Bernays ha influito sulla filologia successiva sul tema
della catarsi. Secondo Döring la medicina tradizionale greca, a partire
dal Corpus hyppocraticum, curava secondo la logica di esacerbare e
portare al parossismo la malattia. Tale è l’effetto delle canzoni religiose di
natura entusiastica e della tragedia, la cui natura terapeutica e dunque
desunta dalla medicina.
Jeanne Croissant
ritiene che la parola catarsi sia desunta dal linguaggio religioso delle
purificazioni rituali, come indica chiaramente un passo della Politica. L’entusiasmo
religioso e lo spettacolo tragico hanno
lo stesso meccanismo di azione psicofisiologica, o anche solo somatica. Secondo
Aristotele l’azione psicologica del vino, gli effetti dell’atto sessuale e dei
farmaci purgativi in soggetti melanconici, l’entusiasmo musicale e religioso
hanno un sostrato somatico comune, del cui processo sono parti principali l’economia
del calore animale e la fisiologia della bile nera. Così per spiegare
l’effetto dei farmaci purgativi Aristotele trasporta il termine religioso
catarsi in ambito medico e nel dominio fisiologico. Da questo insieme di
dati nasce la dottrina aristotelica della catarsi dell’entusiasmo grazie allo
spettacolo dei misteri e delle altre passioni grazie al teatro profano. Ciò fa
capire quanto la psicologia di Aristotele sia sempre fisiologica, anche se non
solo fisiologica, come vedremo successivamente.
M. Kommerell
analizza il senso definitivo nella locuzione “catarsi della pietà-compassione e
del timore”. Egli ritiene che la pietà-compassione ha nella mente di Aristotele
più importanza che il timore e che queste costituiscano perturbazioni
dell’anima dello spettatore. L’azione psicologica della tragedia consiste nella
completa purificazione dell’anima dagli aspetti perturbatori.
Dirlmeier ritiene che la catarsi tragica, da riferirsi
essenzialmente alla parte musicale della tragedia, sopprimerebbe non solo pietà-compassione
e timore, bensì anche le altre passioni che perturbano. Egli ritiene,
confortato da Pohlenz, che l’ambito semantico del testo della Politica
sulla catarsi riguardi sia la sfera dell’educazione sia quella del gioco, cui
però in tutta la Poetica non c’è un solo riferimento.
Importante è l’opera di
Schadewaldt. Egli analizza le parole “timore” e “pietà-compassione”.
Innanzitutto pietà-compassione (éleos) è un termine troppo influenzato
dalla sensibilità cristiana e timore è troppo debole per tradurre phòbos.
Quest’ultimo infatti va reso con la parola “terrore” o “orrore”, oppure con
“brivido” o “orripilazione”; mentre èleos significa propriamente
“afflizione” o “emozione, commozione affettiva”. Sia l’uno sia l’altro sono
affetti psicosomatici elementari e non passioni “superiori”. Essi si
riferiscono a ciò che lo spettatore moderno direbbe “pelle d’oca” o pianto.
La catarsi quindi non contiene motivi superiori ma solo “piacere”, il quale
nulla ha a che fare con operazioni educative o morali. A questo punto però
bisogna capire che tipo di piacere o “allegria” la tragedia produce. In
Aristotele, come in Platone, il piacere è il ritorno all’armonia “secondo
natura”, cioè quello che precisamente accade nell’organismo umano con la
purgazione medicamentosa. Si tratta quindi di un piacere non nocivo e innocente
che è legato al terribile e al commovente nel quale lo spettatore, giunto al
culmine dell’orrore, si purifica e gode. Pur non avendo in sé fini etici, la
tragedia, alleviando i pesi della vita quotidiana, ha, contro la visione di
Platone, positivi esiti politici nel contesto della città.
Flashar, seguace
di Schadewaldt, ha indagato il significato di phòbos ed éleos in
Gorgia, Platone, nel Corpus hyppocraticum e in Aristotele. Al primo
corrispondono “brivido”, “tremore”, “palpitazioni del cuore” e “orripilazione”;
al secondo corrispondono “pianto e lacrime”. Secondo Ippocrate phobos è
conseguenza di una smisurata freddezza del corpo, come éleos si deve ad
una smisurata umidità organica. Tutto ciò è ripreso da Aristotele e
confermerebbe la traduzione di phobos. “orrore” e di éleos con
“afflizione”. La freddezza anormale, secondo i medici, si realizza nel brivido
che prende lo spettatore della tragedia, e la afflizione, conseguenza
dell’umidità organica eccessiva, è l’emozione che produce le lacrime negli
occhi dello spettatore stesso. Così l’organismo rimane purgato dall’eccesso
di freddo e umidità che lo perturbava, e ristabilisce al suo interno
l’equilibrio normale, cosa da cui nasce una sensazione di sollievo.
Pohlenz dal
canto suo sottolinea che phobos significa molte volte orrore, ma anche
significa timore e questa è la traduzione più vicina al senso della definizione
della retorica aristotelica: “la pena o perturbazione risultante dalla
rappresentazione di un male imminente”. Inoltre l’afflizione nel senso greco ha
un carattere intersoggettivo che la avvicina alla pietà-compassione. L’opera
della tragedia poi non è il piacere ma la catarsi, il cui piacere va legato a
quello che dice Aristotele nella Etica nicomachea. Altra questione: la
catarsi tragica non si esaurisce in un’un’azione momentanea, ma più in generale
dà ordine alla vita psichica, ordinando le passioni alla intelligenza. Pertanto
la catarsi tragica compie un’azione morale.
Complessivamente grazie
a Bernays abbiamo una analogia tra la visione dello spettacolo e la cura
psicoterapeutica efficace, la quale è data dal sollievo dal dolore per mezzo di
ciò che si vede e si ode.
1)Schadewaldt ha
il merito di aver messo a confronto ciò che dice Aristotele sullo spettacolo
tragico - in tutta la sua opera e non solo nella Poetica - e la concreta
realtà storica della tragedia.
2) Per Bernays e la
Croissant la funzione catartico-spirituale-religiosa della tragedia è
quella medico-purgativa si escludono. Ma lo studioso attento non può
disconoscere il fatto che la catarsi medica comincia sempre come qualcosa di
concepito religiosamente per chi la usò. Pertanto la catartica rituale
rappresenta una radice di quella medica.
3) Contro Dirlmeier,
bisogna dire che se la musica ha un ruolo nella catarsi tragica, è tuttavia il logos della tragedia a generarla
specificamente, tenuto conto anche che non si tratta solo di una purificazione
fisiologica, giacché lo spettacolo ha effetti anche nella psiche dello
spettatore. La psiche infatti rappresenta il medium attraversato dalla
parola ascoltata prima che arrivi ad essere efficace nel corpo.
4)La tragedia non è un
luogo di redenzione morale per furfanti ma nemmeno un posto per assistere a uno
spettacolo dove rabbrividire commuoversi con gusto. L’alternativa
morale-piacere non va interpretata in modo rigido
III
La tragedia attica e
la vita greca
La tragedia greca ha un
carattere essenzialmente religioso. Per il Pohlenz è un "servizio divino
ed è parte del culto religioso dello Stato greco". Per il Wiliamowitz è
parte integrante del culto pubblico. Essa, dal punto di vista della sua forma,
costituisce la configurazione attica delle primitive rappresentazioni
orgiastiche dedicate a Dioniso. Dal punto di vista del contenuto, in accordo
con X. Zubiri, essa è "la versione patetica della sofia greca".
Il poeta è in essa un educatore religioso del proprio popolo e in particolare
dei suoi giovani. Il poeta tragico greco, come il predicatore cristiano, va
esprimendo letterariamente la coscienza religiosa e storica dei suoi coetanei
e, come educatore, orienta e governa l’attitudine dell'uomo comune davanti alla
tradizione e ai suoi dei.
La consapevolezza del
significato morale della tragedia è importante per capire la catarsi secondo
Aristotele. Non si può essere d'accordo con il Pohlenz quando dice che
Aristotele non ha capito la tragedia. Il filosofo non è uno storico della
tragedia ma uno studioso della sua tecnica poetica: egli vuole capire la sua
essenza senza riferirsi a eventi e apparenze. Il contesto storico di cui la
definizione dell'essenza risente non è affrontato direttamente, ma si
ricostruisce nella compressione dei concetti che egli usa nelle sue definizioni
tecniche. È il caso del concetto di piacere. Non c'è dubbio che il fine
più proprio immediato della tragedia sia un determinato piacere. Dobbiamo
concludere che Aristotele ci propone una concezione "edonistica"
della tragedia? Ovviamente sì, ma nel senso aristotelico di piacere, cioè nel
senso di movimento di ritorno dell'anima allo stato naturale (Retorica).
Essendo l'essere naturale in molti modi, esistono molti piaceri. Tra i molti
che elenca la Retorica, i piaceri di ammirare, lottare o imitare
sembrano essere quelli più prossimi al piacere della tragedia. A ciò va
aggiunta, però, la definizione dell’ Etica nicomachea, secondo cui il
piacere è l'attività non impedita e i comportamenti abituali che appartengono
alla natura di chi li possiede ed esercita. La perfezione di quell'attività è il
piacere e anche quando il piacere non perfezioni l'attività in quanto forma
abituale, bensì come un fine sopraggiunto alla forma nel modo in cui la
bellezza del corpo si aggiunge al pieno sviluppo della gioventù. In questa
logica il piacere più perfetto e propriamente umano è chiamato felicità. Essa
sopraggiunge all'attività del pensiero. Così è per ogni altro piacere che
accoppia i fatti con la attività che esso perfeziona.
Vi sono allora piaceri
dianoetici e piaceri somatici o del corpo. I piaceri somatici sono più
ambiti perché scacciano come una medicina il dispiacere corrispondente, e anche
perché, essendo intensi e violenti, sono ricercati da quelli che non possono
dilettarsi di altri (per es. i giovani).
E allora che ne è dei piaceri della tragedia?
In essa hanno un ruolo l’imitazione, il terrore e un'afflitta pietà-compassione.
Il piacere corrispondente è a volte dianoetico a volte somatico in modo tale
che espellono il dispiacere corrispondente. Ma la tragedia in generale è
piacevole per sua natura, giàcché provoca l'attività più naturale dell'uomo: il
pensiero. Essa piace anche per accidente, perché produce lo stato psicosomatico
che suscita l'intellezione. Ciò implica anche un carattere divino perché gli
dei intervengono sempre nel corso dell'azione tragica e perché il piacere umano
è il piacere di un essere che reduplica la divinità.
Non è vero che
Aristotele non abbia capito la religiosità dionisiaca. Nell’Etica Eudemia
egli tratta approfonditamente l'entusiasmo, la mantica, l’estasi e tutto ciò
che è istintivo. Secondo lui le forze irrazionali e veggenti dell'anima
costituiscono una delle fonti della credenza degli dei. Pure nella Poetica
lo Stagirita sottolinea la specifica virtù della mania e dell'estasi, cui
aggiunge il rilievo storico che la nella nascita della tragedia ebbe il
ditirambo. L'uso della parola catarsi per designare l'azione psicologica della
tragedia rivela la volontà di riferirsi ai riti dionisiaci e alla loro
proprietà purificativa che non manca di trovare corrispondenze anche nella
medicina.
La situazione
tragica
La situazione tragica è
quella in cui si trova l'eroe della tragedia, a sua volta inserito nel contesto
esteriore delle epoche storiche a cui si riferisce l'esperienza del tragico
così come viene vissuta a partire dalla letteratura tragica. Questo secondo
contesto lo chiameremo congiuntura tragica. Esamineremo successivamente
la situazione tragica e la congiuntura tragica.
Per comprenderle
bisogna anzitutto analizzare il problema del tragico così come è venuto a
svilupparsi all'interno della riflessione tedesca. Qual è l'essenza del
tragico? Leski ha risposto citando alcuni elementi indispensabili: 1) la
dignità del caso: la condizione dell'eroe deve essere alta e nobile. 2) la
possibilità di riferire il conflitto che si esprime nella tragedia al mondo che
lo spettatore vive e conosce. 3) la chiara coscienza dell'eroe di fronte alla
situazione nella quale si trova, senza la quale la situazione sarebbe dolorosa
ma non tragica. 4) il carattere inconciliabile della tensione o opposizione
alla quale l'eroe si vede condotto, cioè l'assoluta inconciliabilità delle
dilacerazioni e opposizioni tragiche. Su quest'ultimo punto Leski tuttavia
considera due possibilità: c'è una visione serratamente tragica del mondo in cui
c'è totale inconciliabilità della tensione tragica; ma c'è anche una conflitto non
serratamente tragico in cui c'è un'opposizione non conciliabile in se stessa ma
conciliabile in un ordine sovrumano e oggetto di credenza. La prima possibilità
è inconciliabile con il cristianesimo, la seconda dà luogo ad una tragedia
autenticamente cristiana. 5) l'esistenza di una colpa tragica non imputabile
moralmente (l'eroe è oggettivamente colpevole ma soggettivamente innocente). 6)
la possibilità di discutere se per noi l'evento tragico ha un senso o ne manca
totalmente: Leski, con Jaspers e contro di esistenzialisti, sostiene che la
rovina dell'eroe tragico è inevitabile però non manca di senso.
Collegato a tale rovina
vi è il senso della congiuntura tragica, la quale allude ad una speciale
precarietà umana che si riscontra in modo particolare in determinate situazioni
storiche, quelle in cui nasce appunto la tragedia. Tale è l'epoca di una crisi
nelle credenze fondamentali di una comunità storica. In questo momento l'audacia
davanti al sacro e il timore dello stesso sacro si mescolano nelle anime in
modo angoscioso. La tragedia mostra letterariamente questa situazione
attraverso le vicende di un destino umano individuale e importante. Ed ecco la
situazione tragica dell'eroe in una condizione limite per la quale egli vuole
ciò che non è possibile nel suo mondo. C'è una persona nobile che pretende di
vivere per se stessa e che tuttavia non sa né può farlo, forse perché ciò non è
possibile nel suo mondo o forse perché non è umanamente possibile. Così l'eroe
tragico vive nel suo mondo ma non è del suo mondo e l'epilogo dell'azione
tragica è il suo ritorno alla credenza che, ferita e viva al tempo stesso,
ancora continua a dare sostentamento alla sua anima e al suo popolo. Un ritorno
che deve passare necessariamente per il dolore. L'eroe dunque supera il limite
e, successivamente, si riconcilia con la realtà che ha superato solo soffrendo
e morendo. Ciò avviene perché la tragedia porta in scena una situazione grave,
imprevista e nuova dell'eroe mediante la quale il poeta tragico educa mostrando
come si comporta l'eroe in questa situazione. La tragedia fiorisce in un'epoca
di crisi come la Grecia del secolo V (crisi delle credenze del mondo greco), ma
anche nell'Europa moderna (crisi delle credenze del Medio Evo e
secolarizzazione) e nell'Occidente attuale (crisi delle credenze dell'Occidente
secolarizzato e dell'ottimismo progressista). Ma ciò vale anche per la
filosofia che sembra essere compagna storica del dolore: attraverso il dolore
verso la conoscenza (Eschilo, Nestle). Non c'è in Aristotele una simile teoria
del tragico, ma nella Politica si possono scoprire indizi di una
attitudine intellettuale davanti alla tragedia assai congruente con quanto
detto. Aristotele coglie la condizione non colpevole dell’errore commesso dall'eroe
tragico, dice che la sua punizione non è meritata, considera Euripide il più
tragico di tutti i poeti perché nelle sue tragedie è maggiore numero degli
epiloghi funesti, a testimonianza di un'epoca in cui la risoluzione
conciliatrice del conflitto tragico greco era molto difficile.
L'azione tragica
Non si capisce la
catarsi se non si comprende che la tragedia è imitazione di un'azione umana,
cioè di una praxis. In essa importantissimo è il montaggio delle azioni,
perché essa non è imitazione di uomini, ma di un'azione e di una vita. I
caratteri dei personaggi dipendono dalle azioni. Sono gli atti e il racconto di
essi il fine della tragedia. Essa rappresenta il destino di un uomo in azione e
il suo piacere deve consistere nel felice o fallito ordine di tale azione,
immaginativamente e affettivamente con-vissuta dal pubblico e dentro la
possibilità dell'esistenza sia del personaggio tragico sia del suo spettatore.
L'interna
ordinazione dell'azione tragica
L'azione tragica è
ordinata per mezzo del logos. Accanto
al logos dialettico o convincente
dell'Organon, bisogna porne o uno di specie nuova, il logos tragico o catartico della Poetica.
Più che dallo spirito della musica, la tragedia si potrebbe dire che nasca
dallo spirito del logos. Nella
tragedia il linguaggio è inseparabile dall'azione. Delle sei parti della
tragedia il linguaggio è la quarta, che si aggiunge alla narrazione o azione,
al pensiero o "facoltà di dire ciò che è adeguato alla situazione" e al
carattere. Ma l’azione tragica esercita il suo effetto propriamente per mezzo
della parola e dell'udito di chi la coglie. La parola pone ordine
nell'azione e ordina lo scontro dell'uomo col suo destino, determinando al
contempo la sua retta interpretazione da parte dello spettatore. Mentre
colui che partecipa all'orgia dionisiaca vi si confonde, lo spettacolo tragico
si contempla. Contemplazione si dice in greco "teoria". Essa è
possibile grazie al logos. Insomma
nella tragedia il toro dionisiaco risulta domato dal logos attico.
Le possibilità
dell'azione tragica
Importante è il fatto
che ciò che capita nella tragedia potrebbe capitare allo spettatore. Il ruolo
della partecipazione personale all'evento narrato è per i tragici di
assoluta rilevanza. Tale coinvolgimento, afferma Giorgia, si attua per mezzo
della parola. Chi si fa ingannare dalla parola è il più giusto perché si fa
educare dalla tragedia. Siccome in essa vi è una rappresentazione dell'uomo
in generale, allo spettatore ateniese vi si sente più o meno rappresentato. A
ciò serve la verisimiglianza del racconto. La produzione della catarsi
tragica esige che lo spettatore della tragedia con-viva il suo contenuto
narrativo come possibile nella linea della sua esistenza. È ciò che Aristotele
chiama sentimento "filantropico", cioè di comunità e
solidarietà con il quale lo spettatore partecipa alle disgrazie dell'eroe. Ciò
significa che l'azione contemplata è sempre possibile nella vita dello
spettatore, e ciò comporta la compartecipazione, rendendo possibile la catarsi.
Qualità e corso
dell'azione tragica
L'azione tragica non
produrrebbe timore e pietà-compassione (comunque li si voglia interpretare) se
fosse prevedibile. Dice Aristotele che i fatti devono avvenire contro la
nostra opinione, benché sempre mantenendo verisimiglianza e necessità.
Dunque si parla di una verisimiglianza-necessità che non significa
prevedibilità ma è capace di essere meravigliosa e sorprendente. A ciò si
deve aggiungere che i fatti devono scaturire da un’intenzione umana e si devono
poter intravedere in essi minacce ed esortazioni. L'impressione che
l'evento tragico lascia dell'animo dello spettatore si fa esplicita nel cambio
di fortuna dell'eroe, che appare come una sorta di ironia del destino o di
peripezia che muta radicalmente e improvvisamente il suo destino.
Dunque nello spettacolo
tragico accadono azioni estreme e terribili; la parola esprime l'azione e
permette che lo spettatore la viva come propria; vi è verisimiglianza e
necessità ma anche imprevedibilità e intenzionalità dell'azione. Timore e pietà-compassione
si fanno evidenti a fronte della peripezie e del cambio di destino dell'eroe. Insomma
vi è in tutto ciò una curiosa mescolanza di finzione e verità: la finzione
perché l'azione tragica non fa che imitare politicamente la realtà, verità
perché allo spettatore la vive come se veritativamente accadesse nella sua
vita.
Come uscirà lo
spettatore da questa strana situazione in cui il cambio di fortuna e la
peripezia lo hanno collocato? Lo spettatore può farlo grazie al
riconoscimento cioè, secondo Aristotele "il passaggio dall'ignoranza
alla conoscenza che conduce all'amicizia o all'inimicizia tra coloro che sono
destinati alla felicità o alla disgrazia". Accade nella tragedia una risoluzione
degli eventi che porta allo spettatore a comprendere le ragioni di ciò che è
accaduto e a rendersi conto di quanto sta accadendo sulla scena e,
pertanto, nella propria vita. Sono più perfette secondo Aristotele quelle
tragedie che contengono questo elemento. Il riconoscimento migliore è quello
che sta unito alla peripezia, in cui l'eroe esegue l'azione senza saperlo, però
ne prende coscienza dopo averla eseguita. Tale riconoscimento non deve però
essere artificioso. La Poetica dedica molte pagine a tale elemento.
L'aspetto affettivo
dello stato d'animo
L'azione umana difficile,
terribile, con-vissuta e meravigliosa deve produrre immediatamente nello
spettatore un singolare stato d’animo. Le due parole per descriverlo solo
timore e pietà-compassione. La tragedia è il racconto di un uomo ben nato e
virtuoso su cui si abbatte una disgrazia, benché egli ne sia innocente. Lo
spettatore che condivide questo destino sentirà quasi subito timore e
rabbrividìmento. Ciò è dovuto alla consapevolezza che, come accade all'eroe
tragico, un male distruttivo incombe su di lui. Tale male, attraverso la pietà-compassione,
è vissuto come un male che possiamo soffrire anche noi. La catarsi può
avvenire solo se ciò che accade in scena può accadere anche noi. E tale
idea la deve comunicare l'azione, senza effetti speciali, con la sua
verisimiglianza e capacità di sorprendere. Il ruolo del coro nella
tragedia è quello di uno spettatore più coinvolto e più vicino all'azione, tale
per cui esso diviene un intermediario dell'effetto tragico.
Genesi e struttura
della catarsi tragica
Per capire la catarsi
come la intese Aristotele, bisogna ricostruire il contesto di una
rappresentazione dell'Atene dei secoli V e IV. Le tragedie mettevano in scena
un frammento di leggenda eroica, rivisitata dall'autore, più o meno prossima al
destino dello spettatore. Ci si muove qui in una zona dell'esistenza che
appariva al greco antico ardua e difficoltosa. In essa appare un uomo
ostacolato e lacerato da una segreta tensione tra fato e libertà. Emozioni
violente si impadroniscono delle anime fino a che il riconoscimento, dopo il
cambio di fortuna e la peripezia dell'eroe, risolve il timore e pietà-compassione
in sentimenti più chiari e distinti rispetto alla paurosa e afflittiva
confusione iniziale. In questo modo la primitiva confusione dell'esistenza
si trasforma in ordine: un ordine doloroso o felice, secondo l'epilogo dell'
azione tragica, e tuttavia chiaro e trasparente. Grazie al
riconoscimento si manifestano verità, coerenza interna e significato del
racconto. Aristotele sceglie il termine catarsi per spiegare l'effetto
psicosomatico del riconoscimento.
Essa consta di 4
momenti principali.
1) Anzitutto quello
religioso-morale. La tragedia è parte del culto di Dioniso in cui la musica
suscita nel pubblico ricordi ed emozioni religiose. Il contenuto stesso
dell'azione tragica presenta un profondo problema religioso e morale allo
spettatore, tale da giocare la credenza della sua epoca. In essa è
rappresentata la colpa, o in sotterraneo senso di colpa dell'eroe di fronte ad
una certa tracotanza di cui è stato protagonista, benché senza volerlo. L'esito
finale è il risultato positivo o negativo di questa ansia di espiazione
dell'eroe.
Dice Aristotele che la
tragedia dà una sorta di conoscenza attraverso il dolore e consente l'uomo
ateniese la conquista di possibilità di esistenza inedite, pericolose che
all’inizio erano terribilmente confuse. Come dice il coro del Prometeo
incatenato, si ha conoscenza per aver contemplato il destino distruttivo
dell'eroe. Allora la conoscenza benché attraverso il dolore e la morte, libera
l'anima dalla confusione e rende l'uomo più padrone di sé. L'epilogo funesto
della tragedia riordina l'esistenza rispetto a ciò che in essa è più centrale e
decisivo: la relazione con la divinità.
2) Ma allo stato
d'animo tragico appartiene un momento anche dianoetico e logico. Non si tratta
di un’illuminazione ineffabile, ma di un processo psicologico di espressione
verbale. Mediante il riconoscimento l'anima passa da una confusione
indicibile ad un sapere dicibile.
3) Il momento patetico
e affettivo della catarsi è quello in cui il racconto con la sua gravità
religiosa morale e la bellezza dell'apparato scenico conduce alla produzione
delle due passioni tragiche e del sentimento di comunità vitale (sentimento
filantropico) che alle passioni serve da fondamento. Tali passioni si generano
a causa di elementi molto più superiori all'affettività cinestetica o alla
semplice percezione visiva di oggetto terrificante. La loro catarsi significa
purgazione da affetti che non esistevano nell'anima prima della contemplazione
della tragedia e che avveniva quando la tensione emozionale raggiungeva il suo
punto più alto. Le parole producevano emozioni, ma al punto più alto
determinavano una conoscenza chiarificatrice e cancellavano dall'anima la
confusione promuovendo la catarsi. Non solo nella filosofia, ma anche nella
tragedia vi è un logos superiore
all'ethos e al pathos.
4)Viene infine il
momento somatico o medico. Le parole vengono udite e, passando attraverso
l'anima, agiscono su gli umori corporali che riguardano la freddezza e umidità
escrementizia prodotta dalla bile nera. Il farmaco purgante è qui la parola.
Essa promuove la scarica che determina il ritorno dell'equilibrio. Anche qui non
siamo in assenza di un aspetto religioso.
Adesso possiamo capire
che cosa s'intende che per piacere tragico. A ciascuno produce piacere ciò che
conviene alla sua natura, dice Aristotele nella Politica. Perciò il
ritorno dell'equilibrio derivante dalla purificazione termica e umorale produce
piacere. Ma a ciò era necessario il buon ordine dell'anima, tanto di
carattere affettivo e riguardante il thymos, quanto di carattere intellettivo,
riguardante la dianoia. La attività che conduce al piacere è prodotta da
una transito esistenziale - dianoetico, affettivo e corporale al tempo stesso -
dalla confusione e dal disordine al ben ordinato rischiaramento.
Il piacevole e ben
ordinato stato d'animo prodotto dalla tragedia non è lo stesso di quello dei
bei discorsi di Socrate nel Carmide, al quale Platone volle dare il nome di
saggezza? La purificazione degli affetti altro non è che il ristabilimento
della saggezza, temperanza grazie all'acquietamento delle passioni.
Riscontro di
opinioni
La mia interpretazione
della catarsi tragica assume un orizzonte più ampio di quella di Croissant et
alii, che si limitano all'aspetto somatico, e di Untersteiner che si limita
all'aspetto metafisico... E sottolinea come con più energia di Platone,
Aristotele abbia rivalutato gli impulsi irrazionali e visto nella fittizia
presenza del dolore altrui, all'interno dello spettacolo, la scarica innocua
che riduce gli affetti alla loro giusta misura. Ecco allora che Aristotele
attribuisce alla parola un triplice potere: quando è ragionamento dialettico
convince, quando è discorso retorico persuade, quando è poema tragico purga e
purifica.
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