martedì 5 agosto 2025

Il sex appeal dell'indistinto. Un romanzo di J .J. Saer



Juan José Saer, Il testimone, La Nuova Frontiera, Roma 2023, pp.186, E. 16,90

 Un quindicenne, imbarcato in una nave spagnola come mozzo, approda al Nuovo Mondo. Arrivato alla foce di un fiume, sbarca insieme ad alcuni compagni, mentre il resto dell’equipaggio si mantiene prudentemente all’ancora, e viene attaccato da una tribù di cannibali. Le frecce avvelenate degli indios sterminano rapidamente il gruppetto, ma lui misteriosamente viene mantenuto in vita. Diventa ospite fisso del villaggio e piano piano giunge a capire lo stile di vita degli indigeni, non senza assistere al rito cannibalico, che scopre avere cadenza annuale, dapprima con i suoi compagni di viaggio, poi, nel prosieguo della sua permanenza con diversi soggetti, appartenenti alle tribù confinanti. Esso coincide sempre con il pasto di carne umana arrostita, seguito da un abbondante libagione di distillato alcolico e poi dallo scatenamento degli istinti sessuali, con accoppiamenti singoli e di gruppo, segnati da violenza distruttiva ed autodistruttiva, che sovente portano i protagonisti a subire conseguenze fisiche permanenti oppure a morire. Dopo tale evento, fatto di ingordigia alimentare e sessuale, di ubriachezza e di sfrenatezza, la tribù torna a una quotidianità seria, monotona, fatta di compiti da svolgere e di attività lavorative di ogni tipo, portate a termine con attenzione e acribia particolare … L’ospite europeo si trattiene per un decennio come  osservato e, al tempo stesso, osservatore, imparando poco a poco lingua, usanze e soprattutto, diremmo, la spirito e il carattere collettivo della strana società presso la quale si trova a vivere. Tutto ciò fino al momento viene rispedito su una canoa verso una nave spagnola che nuovamente si affaccia alla foce del fiume. Tornato in patria, l’esperienza segnerà il resto della vita del giovane, che farà una discreta fortuna e potrà incontrare persone che lo istruiranno e gli permetteranno di adornare i suoi ricordi con una coscienza e una riflessione sempre più matura. La sua vicenda sudamericana lo seguirà con dolcezza ossessiva e disincantata: in vecchiaia deciderà di metterla per iscritto, maturando la sua interpretazione della filosofia implicita e di una ipotetica costellazione dei significati della vita degli indios. Così il Nostro giunge alla conclusione che essi concepiscono il mondo come una precarietà incombente, che solo il lavoro umano può puntellare, così come reciprocamente solo il mondo può sostenere la precarietà della vita umana. Pertanto vivere non può significare che sostenere, riparare, ristrutturare l’ambiente circostante, destinato altrimenti a un’irrimediabile entropia. Il disordine di un divenire oscuro e senza senso minaccia costantemente. Dunque bisogna lavorare con la massima serietà, sia al proprio sostentamento sia al mantenimento delle cose, degli utensili, dele capanne, e di tutto quanto l’umano ingegno avesse per un attimo strappato alla natura. Il lavoro diviene un compito diffuso in una comunità che vi si dedica in modo consapevole ed egualitario, seguendo procedure consolidate per prendere le poche decisioni necessarie a organizzare la vita quotidiana, in un contesto dove non si determina alcuna gerarchia sociale. Nessuna particolare credenza religiosa segna la vita della tribù, se non un’ossessione del permanere, un culto dell’essere di fronte al divenire, di cui il protagonista ospite, deve diventare testimone privilegiato. Perciò ognuno vuole consegnare alla sua memoria un tratto di sé, una evidenza, un che di incrollabile, benché a volte banalissimo, che riassuma nella memoria del testimone stesso il proprio essere o essere stato in un mondo altrimenti destinato alla consunzione nell’indistinto, nell’irrazionale scorrere di tutto verso la notte, diremmo con Hegel,  in cui tutte le vacche sono nere. Come se gli sforzi prolungati per mantenere in ordine le cose avessero bisogno di essere raccontati e attestati da qualcuno, per non scomparire nella corrente del fiume. Che tale forza della notte incomba , peraltro, con il suo tragico portato nichilistico, tanto da bussare con insistenza alle porte della vita, fatta altrimenti di seria, costante e monotona dedizione al proprio compito, lo conferma il rito annuale e l’annuale scatenamento delle forze infere del piacere incontrollato, e dell’istinto naturale-bestiale fino a quel momento tenute a freno con grande profusione di energie sublimatrici. Il testimone non può far altro che assistere, assolvendo al suo compito di spettatore ricettacolo, anch’egli provvisorio ed effimero, dell’essere, mentre la tribù finalmente sconfitta dal divenire torna nella routine a vivere la sua diuturna e impari lotta.

Noi partecipiamo del viaggio, noi viviamo questo mistero tremendo di un non senso fondamentale che aleggia sulla vita degli indios e sulla nostra, fidando solo nel racconto che fissa più i dubbi e le domande che non l’essere agognato e perduto della tribù. Un racconto di cui l’autore Juan José Saer ci rende partecipi, forse sovrapponendo alla vita dei protagonisti, la vita contemporanea, e al loro mondo la direzione entropica e nichilistica del nostro, fatto di cannibalismo simbolici e di sfrenatezza dei sensi, cui si contrappone la serietà irresistibile del sistema del lavoro e della produzione. Solo che noi non abbiamo un testimone cui consegnare la nostra vita, dandoci l’illusione di qualcosa che possa sfuggire al mortifero sex appeal dell’indistinto che il nostro ordine civile, così come quello degli indios immaginati da Saer, è alla fine incapace di contenere, rappresentando il lato oscuro di una dialettica di luce-oscurità senza sbocchi, senza fine e senza direzione.

lunedì 21 luglio 2025

Blossio di Cuma, filosofo e politico

 


Fernando La Greca, Tiberio Gracco e Blossio di Cuma. Filosofia e politica a Roma nel secolo degli Scipioni, Licosia edizioni, Ogliastro Cilento 2016, pp. 145, E. 18

 

Tiberio Gracco fu tribuno della plebe nella Roma repubblicana della prima metà del secondo secolo a. C. Il suo destino politico è legato alla Lex sempronia con cui redistribuiva le terre di pubblico dominio (ager publicus) espropriando coloro che se ne erano accaparrati una porzione maggiore di  500 iugeri, la cui parte eccedente sarebbe stata divisa tra i cittadini più poveri, e al contempo confermando nella proprietà coloro che ne possedevano un’estensione minore. Si tratta di una misura rivolta a ingraziarsi la plebe romana ma anche gli italici che avevano servito Roma senza avere ufficialmente ricevuto una ricompensa idonea, rimanendo solo ufficiosamente detentori di una porzione di terra sufficiente al sostentamento loro e della famiglia. In generale erano pochi in Italia coloro che possedevano più di 500 iugeri, così che la legge sembrava destinata principalmente  a rendere fedeli a Roma quei membri della piccola borghesia rurale, i cosiddetti possessores,  assai importanti sotto il profilo politico-militare, ma oggetto di disinteresse da parte delle élites dell’Urbe. Così Tiberio con la sua legge avrebbe ottenuto un duplice effetto: “Da una parte si proponeva alla plebe romana una redistribuzione dell’ager publicus, lasciando che si immaginassero chissà quali eccedenze, dall’altra [...], prima di queste redistribuzioni,  si sistemavano come piena proprietà molte situazioni di possesso precario, forse migliaia, includendo e regolarizzando anche possessores latini e italici, e rendendoli così cittadini a pieno titolo”. In questo modo si sarebbe potuto “attenuare il divario tra le classi sociali [...] rafforzare la classe media con un redistribuzione delle risorse,  assicurando un lavoro dignitoso, possibilità di crescita e pari diritti alle masse popolari romane e italiche”. Tutto ciò è spiegato con documentatissima precisione da Fernando La Greca, nella prima parte del suo testo. Qui emerge un Tiberio certamente “popolare”, ma incline anche a valorizzare la piccola proprietà e gli alleati italici senza per questo poter evitare la furia degli optimates che temevano non solo le conseguenze a lungo termine della legge, ma anche il consolidamento e forse l’ulteriore espansione del potere dei Gracchi e del loro “partito”,  sostenuto dall’importante famiglia degli Scaevolae, e poi da un vasto consenso “di popolo” in tutta la Penisola. Dunque, come si può cogliere in un Sallustio ritradotto e rivisto, “la nobiltà colpevole e perciò atterrita proprio dagli alleati, dai Latini e dai cavalieri,  si scaglia contro i Gracchi”, e ordisce la congiura che nel giugno del 133 metterà fine alla vita del tribuno. L’immagine di Tiberio che si delinea dalla disanima di La Greca lo conferma perciò come politico accorto, innovatore, consapevole delle esigenze della Repubblica di allargare il bacino della cittadinanza per mantenere la pace sociale a Roma e in Italia e garantirsi nuove prospettive di espansione e di potenza. Insomma, di là dalla conclusione infelice della sua vicenda, si tratterebbe di una figura di rivoluzionario “realista” o di un ardito riformista, perfettamente a suo agio, tuttavia, nei meccanismi e nella cultura del potere romano.

Non estranea alle scelte del politico è la costante presenza al suo fianco di due figure interessanti: il retore Diofane di Mitilene e il filosofo Blossio di Cuma. Quest’ultimo, su cui si concentra l’Autore,  sembra offrire a Tiberio un quadro di giustificazioni etico-metafisiche alla sua prassi, rimanendovi legato ostinatamente anche al declinare improvviso e violento delle fortune del Gracco. Disgraziatamente del nostro filosofo non ci è stato trasmesso niente eccetto le testimonianze di Plutarco, Valerio Massimo e Cicerone. Da loro risulta che “Blossio, filosofo originario di Cuma fu discepolo ad Atene dello stoico Antipatro di Tarso, di cui conquistò l’amicizia e la stima; a Roma fu hospes degli Scaevolae ed ebbe una parte importante nei piani di riforma di Tiberio Gracco di cui fu probabilmente maestro e sicuramente amico fedele; dopo la tragica fine di Tiberio si recò in Asia minore presso Aristonico, il quale, aspirando al trono di Pergamo, aveva suscitato una rivolta contro Roma; allorché Aristonico fu fatto prigioniero dei Romani, Blossio si uccise”.

La Greca anzitutto fa parlare le fonti dirette, aggiungendovi qualche ulteriore testimonianza che potrebbe alludere a Blossio. Ma più o meno non si esce dalle notizie che abbiamo testé riassunto. Allora lo studioso campano opta per una strategia, diremmo, di accerchiamento, passando in rassegna tutti i contesti che possono gettare una qualche luce sul testo-Blossio. Si parte da un excursus sulle sue origini familiari  nella città di Cuma. Poi si affronta il rapporto generale tra lo stoicismo e la politica per vedere come esso trova una particolare declinazione nella riflessione del suo maestro Antipatro di Tarso. Di seguito si analizza lo stoicismo romano, contrapponendo la sua ala conservatrice che fa riferimento a Panezio, a quella rivoluzionaria del gruppo di Tiberio. Infine si affronta l’utopia eliopolita che probabilmente orienta ideologicamente il ribelle Aristonico che Blossio finisce per sostenere con un impegno diretto e definitivo.

Tale strategia di avvicinamento progressivo al nostro protagonista cumano, mediante tutto ciò che più o meno direttamente lo riguarda, parte dall’ unico dato teorico assodato: il valore assoluto dato da Blossio all’amicizia e la conseguente venerazione per l’amico Tiberio, assieme ovviamente al ruolo esistenziale e filosofico dell’impegno politico evidente dai dati biografici. Che cosa dunque aggiungere? Un’analisi dei retaggi familiari della gens Blossia, conduce a ipotizzare un preciso orientamento ideologico. I Blossii erano una famiglia proveniente da Capua, città tradizionalmente ribelle a Roma. Essi non solo condividevano tale orientamento ma lo promuovevano attivamente, distinguendosi nel 210  come guide di un fallito attacco al presidio romano della città, riconquistata da appena un anno, dopo la sua alleanza con Annibale del 215. Appartenenti alla fazione democratica e antiromana, i Blossii, si disperdono dopo la caduta della città e alcuni di loro si stabiliscono a Cuma, senza perdere una virgola delle loro convinzioni politiche. È interessante notare come i democratici potessero farsi portatori di una fierezza indipendentistica e nazionalistica, a fronte degli aristocratici che cedono ben presto a una solidarietà di casta e preferiscono passare dalla parte di Roma collegandosi con le élites dirigenti dell’Urbe. Nondimeno, di là da questo orientamento generale dei membri della gens, Cuma, a differenza di Capua, è fedele a Roma - e i suoi abitanti, quali membri di una civitas sine suffragio, a Roma non sono stranieri ma cittadini (municipes). Ciò consente al discendente Blossio di inserirsi nella clientela di Tiberio e di fare, diremmo oggi, politica attiva, portandosi dietro quel retaggio popolare che era appartenuto alla sua stirpe. A Roma egli giunge come filosofo già formato e forse con una certa fama. Già, infatti, aveva compiuto il suo cursus studiorum presso Antipatro ad Atene. La stima del maestro nei confronti dell’allievo è indubbia e ciò lascia supporre che il primo vedesse nel secondo un continuatore legittimo delle proprie dottrine e del proprio stile filosofico. In particolare nell’ambito di quella che oggi chiameremmo filosofia politica, se la tradizione stoica aveva evidenziato l’idea di un cosmopolitismo universale fondato sulla comune appartenenza degli uomini al Logos divino, ciò non esimeva il saggio dal prodigarsi anche in un presente ancora ordinato secondo una suddivisione dell’umanità in popoli e Stati. In questo quadro poteva essere superata l’apparente contraddizione della chiamata del saggio a servire lo Stato, mettendo a sua disposizione la conoscenza e la pratica della verità e della giustizia. Quindi, contrariamente ad ogni forma di “ritiro dal mondo”, per il filosofo stoico se è necessario passare a forme di convivenza sempre più razionali, è pure indispensabile partire dal dato di realtà di una pluralità di differenti organizzazioni politiche, per compenetrarlo di ragione in modo sempre più marcato. Di qui, sin dall’allievo di Zenone, Perseo di Cizio, e dal successivo Sfero di Boristene, l’invito all’impegno presso i re e le autorità per influenzarne la politica secondo principio etico-razionali.

Non estraneo a tale impostazione era Antipatro, il cui pensiero si connota di accenti particolarmente realistici quando associa al perseguimento del sommo bene, quello di beni intermedi che in qualche misura lo preparino e lo annuncino. In tale senso è significativa la distinzione tra due sostantivi che riguardano la sfera semantica del concetto di “fine o scopo”: skopos, cioè l’obiettivo esterno e diremmo oggettivo di un’azione e telos, l’azione morale che insiste sull’impegno personale nel realizzare l’obiettivo sottolineando il ruolo del coinvolgimento soggettivo nell’agire. Se bisogna colpire un bersaglio, le circostanze esterne “possono fare sì che il bersaglio sia colpito oppure no; ciò, tuttavia, non solleva il soggetto dal dovere di fare tutto ciò che è in suo potere per colpirlo”. Blossio deve aver recepito tale prospettiva nel momento in cui tende sempre “a raggiungere anche obiettivi minimi in vista dell’ideale stoico di una comunità di eguali, a cominciare dalla redistribuzione delle terre nel progetto agrario di Tiberio e dall’eliminazione della schiavitù nella Eliopoli di Aristonico”, realizzando al contempo uno skopos reale e sociale, e il telos della quella concreta militanza politica che non teme sconfitte provvisorie e che nella quotidianità dell’impegno non perde di vista il fatto che il bene da conseguire non è solo squisitamente politico ma eminentemente etico e interiore. Su questo doppio binario non stupisce che Blossio abbia potuto non sentire lo stacco tra la ricerca filosofica e la dimensione dell’agorà. Qui Antipatro sosteneva particolarmente il valore della famiglia e del matrimonio per il bene e la continuità della patria, tema sul quale insiste Tiberio confortato non solo dalla tradizione romana, ma anche evidentemente dalla mediazione filosofica di Blossio, attento ad un bene intermedio assai rilevante per il complessivo miglioramento della vita comunitaria.

Recependo infine il dibattito tra Antipatro e Diogene di Babilonia sul rapporto tra l’utile e l'onesto, cioè tra una condotta strategica e spregiudicata e una consapevole di un valore intrinseco, universale e perciò obbligante dell’azione, Blossio deve aver su questo fondato quella sua peculiare intransigenza rivoluzionaria che qualcuno in secoli recenti avrebbe indicato con l’impegnativa parola “virtù”.

 Di qui anche  la radicale opposizione che lo stile di Blossio avrebbe incontrato presso i circoli conservatori degli Scipioni, legati allo stoicismo reazionario di Panezio, tutto potere e  proprietà privata. Al contrario il filosofo cumano potrebbe, senza alcuna forzatura, essere indicato come l’ispiratore di Tiberio, il maggior innovatore della politica romana, colui che aveva potuto retoricamente chiedere “se non fosse giusto che i beni comuni fossero divisi in comune, se un cittadino non fosse più autentico di uno schiavo, e se un soldato più utile di un non combattente, e se uno che avesse parte nei beni pubblici non fosse meglio disposto verso gli interessi dello Stato”. Il legame fra i due, cementato dalla comune passione popolare,  appare una sorta di destino che attraversa anche le altalenanti sorti della politica. Si può ben comprendere allora il resoconto di Cicerone, del tutto simile a quello di Plutarco: “[Blossio sostenne] di avere tanta stima di Tiberio Gracco da fare qualunque cosa egli volesse. Allora gli dissi ‘Anche se avesse voluto che tu dessi fuoco con le fiaccole al Campidoglio?’ ‘ Non avrebbe mai ordinato una cosa del genere - disse - ma se lo avesse fatto avrei ubbidito”.

Ebbene, conservando nel cuore quest’intimità fiduciosa e fedele, nel 133, alla fine dell’avventura del tribunato, Blossio fugge da Roma e si reca a Pergamo, altro luogo di rivolta e sperimentazione politica. Aristonico, pretendente al trono del regno ellenistico dopo la morte di Attalo III Filometore, che aveva nel testamento lasciato i suoi domini al popolo romano, si fa banditore nel medesimo territorio della costruzione di una nuova compagine politica, lo Stato utopico di Eliopoli. Qui sotto la sua sovranità caratterizzata da un’intensa devozione al Sole, dio benvolente ed egualitario, tutti, anche gli schiavi, avrebbero vissuto in una condizione di libertà, indipendenza, uguaglianza e prosperità.

 L’utopia eliopolita ha origini letterarie lontane, provenendo dal resoconto su una mitica “isola del sole”,  steso dal viaggiatore Giambulo (forse anch’egli invenzione poetica) e tramandato in forma di riassunto da Diodoro Siculo (90-30 a. C. circa) nella sua Biblioteca storica: “Gli abitanti di quest’isola utopica sono distribuiti in piccole comunità  che vivono in pace e armonia ; la loro massima divinità è il sole. L’isola abbonda per natura di frutti e animali, tuttavia tutti sono tenuti a lavorare, eseguendo a turno vari tipi di lavoro, per soddisfare le esigenze essenziali della comunità. Si dedicano anche ad attività culturali, specialmente all’astronomia. Le donne e i bambini sono in comune;  il più anziano è il capo della comunità; altre magistrature sono assunte da ciascuno a rotazione. Vivono fin oltre 150 anni e muoiono volontariamente addormentandosi sotto piante velenose. La caratteristica principale di questa ‘isola del sole’ è la completa uguaglianza fra gli abitanti: tutti lavorano [...], a turno assumono cariche civili e religiose [...] e infine non vi sono schiavi. Si tratta di un'utopia filosofico-letteraria, una descrizione di un paese immaginario, ma che pure presenta un’ ideale di organizzazione sociale e politica”. Non mancavano nel mondo greco elaborazioni simili e soprattutto la visione di Giambulo sembrava adattarsi benissimo alle prospettive politicamente egualitarie elaborate dall’antico stoicismo zenoniano. Non è poi da tralasciare il fatto che in Cleante, secondo scolarca stoico, esiste un’esaltazione del sole quale “principio fisico e spirituale del mondo, sovrano dispensatore di giustizia a tutti in parti uguali”. Quanto a Blossio, a tali tradizioni letterarie e filosofiche si aggiunga la diffusione del culto di Apollo a Cuma, ricco di simboli solari e componente fondamentale dell’orgoglio identitario della città.

È del tutto plausibile allora che Blossio, trasferendosi a Pergamo, abbia trovato terreno favorevole a una sorta di missione emancipatrice collegata con le riflessioni stoiche più politicamente ardite e con la letteratura utopica di cui si è detto. Di qui l’ulteriore spinta che può aver dato al progetto rivoluzionario di Aristonico, al tempo stesso egualitario e antiromano, diremmo oggi radicalmente democratico e nazionale.

Ecco dunque delinearsi l’immagine di un Blossio eroe dei due mondi, capace di spendersi ovunque si presenti un' occasione propizia e promotore di un' ideologia di rivolta sociale che è al tempo stesso una filosofia e una teologia politica. Qui gli aspetti egualitari giungono a fondersi con una dimensione di rivalsa popolare e indipendentistica, perché sia nel caso del passato capuano dei Blossii, sia nel caso dell’opposizione aristocratica a Tiberio, sia infine nella vicenda di Pergamo, una caratteristica mi sembra emergere dal preciso approfondimento di La Greca: le aristocrazie sono tendenzialmente internazionalistiche, cioè mostrano indifferenza all’eventualità che la comunità di appartenenza possa essere assorbita da una potenza straniera o non vedono, nel caso di Roma, l’utilità di una solidarietà interclassista dove l’appartenenza comune e una missione politica vissuta come ideologia mobilitante possa alimentare un ulteriore incremento della propria potenza. L’importante appare l'immutabilità del quadro e delle gerarchie sociali. Viceversa laddove vi sia una proposta di mutamento o financo rovesciamento delle suddette gerarchie, lì si diffonde anche una peculiare sensibilità per un destino comune, dove un certo orgoglio nazionale non manca di associarsi a percorsi di militanza politica di risveglio utopico connotati da grande afflato religioso e, nei circoli più consapevoli, filosofico-razionale.

 Caio Blossio di Cuma - filosofo dell’amicizia, promotore ovunque di una coscienza politica elevata, in cui il servizio alla comunità diventava un dovere assoluto delle élites e un principio etico che poteva ricondurre la convivenza sociale a una superiore e divina razionalità - sembra dall’ indagine preziosa di La Greca essere il crocevia di queste tensioni e tendenze. Pertanto, confortati  dall’idea crociana ed ermeneutica che ogni storia è storia del presente, corriamo volentieri il rischio dell'anacronismo dicendo che egli può dire molto alla nostra contemporaneità che ha irresponsabilmente cacciato le utopie sociali e nazionali nella spazzatura della storia, accontentandosi del grigiore di un presente monocratico e globalista sotto l’impero, certo a suo modo egualitario, ma innaturale,  violento, straccione e criminale, del denaro.

mercoledì 11 giugno 2025

Sotto portici dipinti. Una presentazione

 


"Sotto portici dipinti”: il titolo del libro fa riferimento alla stoà poikilè, il portico dipinto eretto all’inizio del V sec. a.C. nella parte settentrionale dell’agorà ateniese, al riparo del quale Zenone di Cizio (336/35-264/63), il fondatore di quella che per questo motivo sarebbe stata chiamata “scuola stoica”, amava discutere di filosofia e scambiare le sue acquisizioni con i compagni di avventura del suo itinerario teoretico. L’idea è che ovunque si incontrino persone che desiderano approfondire seriamente e dialogicamente la filosofia e i suoi problemi, lì vi sia un portico dipinto, un luogo dove le pressanti necessità della vita e le tempeste che essa produce vengono per un attimo messe a tacere per rivolgere loro lo sguardo riflessivo del logos.

La consulenza filosofica è una disciplina che propriamente va alla ricerca di questi luoghi, li prepara, li inventa, li allestisce, nella convinzione che in essi la vita umana trovi la sua cifra autentica. La filosofia è sempre una richiesta di sapere su ciò che veramente conta, che incontra una qualche proposta di approfondimento da parte di chi, su tale via del sapere si trova già in cammino. Per questo ha la natura di una consultazione. Non si tratta tuttavia di una semplice relazione domanda-riposta, ma di una dialettica, dove chi porta in comune un certo problema non si accontenta finché non accede a una dimensione di verità che può condividere sinceramente e senza riserve, pur dentro i ragionevoli dubbi alla quale la nostra condizione umana ci condanna. Ma tale dimensione ha una profondità tale che, a partire dalla discussione, mette in gioco pure colui che appariva più esperto e si trovava per così dire in una posizione “avanzata” … lo mette in questione, lo trasforma, lo sottopone a nuovi rigori della ragione e della conoscenza. Ciò fa sì che non esista un rigido rapporto gerarchico tra i dialoganti, ma che ognuno riconosca e omaggi quella verità sulle cose, sul mondo e sulla vita che è posta alla fine, quale scopo e meta del camminare assieme.

Per questo la consulenza filosofica è protesa in avanti verso il suo inarrivabile compimento, verso il suo ideale obiettivo di pienezza del sapere: un’utopia stimolante e mobilitante. Ma è vero che anche il passato conta. Essere nani sulle spalle di giganti e comprendere il carattere ineludibilmente e intrinsecamente storico del pensare è fondamentale. Anzitutto consente di non crescere nell’orgoglio, la fine di ogni ricerca e il veleno di ogni verità. Poi mette in moto quel carattere intersoggettivo dell’indagine filosofica che non è solo sincronicamente legato al dialogo che avviene qui ed ora, ma ha un carattere diacronico e si rivolge alle pietre miliari della filosofia che, pensando, hanno messo in circolo problemi e soluzioni fondamentali, dai quali non si può rifuggire se non si vuole cadere in pessime banalità autoreferenziali.

 Ecco allora che la filosofia-consulenza filosofica invita a uscire da sé, a instaurare dialoghi coi vivi e coi morti, a cogliere la dimensione infinita della ricerca ma anche la stabilità e irreversibilità di alcune conquiste, pur nella loro continua revisione e  nel loro incessante approfondimento. Seguendo tale prospettiva, in questo libro ci si è sforzati di dare conto di un reale itinerario di consulenza filosofica, che si è appoggiato alla personalità e alla biografia dei soggetti coinvolti, ma che ha anche puntato coinvolgere i grandi della storia del pensiero, in vista di quel superiore rigore e di quell’apertura alle più diverse e sorprendenti suggestioni che essi procurano allo sguardo del lettore attento e curioso. Di qui l’incontro coi presocratici e con Platone, dai quali è venuta a noi europei la nozione stessa di verità e quella corrispondente di menzogna, cioè è nato sostanzialmente l’oggetto interno della filosofia, quello senza il quale la disciplina perderebbe immediatamente il suo significato sia tecnico sia esistenziale. Un passaggio attraverso i loro scritti e le loro opere ci ha confermati nella visione di questa centralità della verità e della menzogna e ci ha spronati a coglierne per loro mezzo il carattere dialettico-dialogico. Abbiamo capito che il metodo della filosofia è anche il suo contenuto: la verità filosofica dentro il dialogo si sviluppa come verità dialogante e dialettica in cui gli opposti si confrontano e vengono messi alla prova, in modo tale che ogni verità è oggetto di una visione di insieme che via via si articola escludendo ciò che solo appare vero, ma portandolo con sé quando è necessario definire un campo e stabilire dei confini.

Qui è l’opera del logos: assumere un punto di vista dall’alto, vedere l’insieme delle cose assolutamente, in quell’universalità sciolta dalle catene delle relazioni abituali,  e poi, però, procedere verso l’interno, dimodoché la verità generale trovi specificazione e determinazione nelle sue componenti particolari e singolari che nel tutto si trovano articolate e coimplicate. La dialettica-dialogica di Platone, che si trova a compimento di una storia presocratica e socratica, si propone come metodo-contenuto della filosofia che ha una forza conoscitiva ma anche etica: è la via per capire metafisicamente il mondo , ma anche per evitare le derive illusionistiche di chi scopre nell’arte di argomentare una disciplina utilitaristica e, aggrappandosi a quella, individua una strumentalità carrieristica estremamente umiliante per la natura stessa del logos. Se questo è, infatti, la natura umana, ogni sua strumentalizzazione coincide, come capirà Kant, con una strumentalizzazione dell’uomo che va sostanzialmente a scapito della sua dignità. Nella lotta antisofistica, Platone aveva già intuito l’enorme posta in gioco, sotto  tale preciso profilo etico, e al tempo stesso l’occasione per dare una nuova identità più matura e vasta alla sua filosofia. Noi vi ritroviamo la percezione del valore degli assoluti metafisici e morali, ma anche la necessità di non cadere nelle semplificazioni che sovrappongono l’assoluto al complesso come reciproci nemici.

Così pare abbia fatto, con la genialità che lo contraddistingue, Carlo Michelstaedter, proprio sviluppando una specifica interpretazione di Platone e insistendo sull’enorme fascino degli aut aut, contrapposto a tutte le retoriche sociali e culturali della dilazione e del compromesso che, a partire dalla prospettiva alta della Grecia classica si sono venute via via volgarizzando nella storia, per diventare il senso comune di una morale dell’utile, del comodo e della sistematica elusione del vero e del bene. Ci è sembrato quindi obbligatorio, al di là dei nostri personali gusti – che tuttavia hanno avuto un ruolo – affrontare lo scoglio del filosofo di Gorizia dopo aver attraversato in parte quelli di Atene.

 Il risultato non lo anticipiamo. Ma la pretesa possiamo dirlo fin da adesso, è quella di aver detto qualcosa a noi stessi e di noi stessi, senza tuttavia fermarci qui. La filosofia è cura di sé e racconto di sé, ma non può non essere al tempo stesso cura e racconto degli altri e del mondo. Nel nostro specifico: cura e racconto dei filosofi che ci hanno accompagnato, da un lato, e dei problemi che attanagliano la nostra post-modernità, dall’altro. Se l’obiettivo è stato raggiunto almeno in parte spetta al lettore dirlo… se così non fosse, il percorso presentato in questa cronaca potrà almeno divenire la testimonianza di un tentativo che di per sé ha valore a prescindere dai risultati.